Esistono numerose visioni della Beatlemania, tutte per lo
più filo-occidentali. Tuttavia vi è anche chi,
come Anna Martinova, sostiene che i Beatles sono nient’altro
che “un fenomeno costruito per le esigenze del mercato
capitalista”. Pare evidente che la Beatlemania sia divenuta
presto uno degli “antimiti borghesi” utilizzato a
monito in un Paese culturalmente e politicamente anti-capitalista.
Emerge così un altro aspetto peculiare della Beatlemania: un
fenomeno discusso sotto molteplici prospettive, a partire dai suoi
albori, dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica.
È
con queste premesse che abbiamo ritenuto utile trattare la
“Cosa Beatles” da un’angolatura diversa,
al fine di dimostrare quanto la Beatlemania sia stata utilizzata anche
come strumento di propaganda da una parte e dall’altra.
Il
saggio della Martinova si apre definendo George Harrison, Paul
McCartney, John Lennon e Ringo Starr “Le quattro
cenerentole”. “Dopo il successo sbalorditivo delle
loro prime canzoni hanno tenuto concerti in tutto l’emisfero,
pubblicato montagne di dischi e fatto impazzire frotte di giovani;
hanno fatto nascere centinaia di complessi analoghi; hanno guadagnato
dollari a milioni e sono tornati nella loro patria inglese, dove la
Regina li ha ricevuti per congratularsi con loro. Dopo tutto
è commovente vedere personaggi così semplici e
amabili che raggiungono tali onori, è un po’ come
se onorassero anche te. E così te ne stai a guardare la
televisione o ad ascoltare dischi. Sei in pace con te stesso, dicono
che ora il tesoro della Corona Britannica si sia arricchito, ma tu hai
guadagnato degli eroi non immaginari, degli eroi che sono sempre con
te. Specialmente se non hai particolari inclinazioni verso la lettura,
se non credi a tutte quelle astruserie «scritte soltanto per
confondere le persone normali». È immensamente
più interessante scoprire qualcosa di nuovo sui tuoi idoli:
chi si è sposato, quante stanze ha nel suo appartamento e
come andrà a finire quello scandalo di New York, in cui John
Lennon si è espresso tanto infelicemente a proposito di
Gesù Cristo. Il Filisteo deve avere i suoi idoli da adorare:
vive la loro vita come fosse la propria” (Martynova, 1969). E
ancora: “Venne il giorno in cui i Beatles non furono
più semplicemente un interessante complesso musicale ma l’avvenimento
numero uno sulle pagine dei principali quotidiani inglesi.
All’indomani dell’esibizione al Palladium
dell’ottobre 1963 tutti i giornali uscirono con titoli e
fotografie in prima pagina. Non erano recensioni critiche ma
avvenimenti di cronaca: polizia, vittime, corse per raggiungere
l’uscita posteriore.
Cronache aggiornatissime,
copertine di riviste con tiratura di milioni di copie; enormi
quantità di souvenir, magliette,
bretelle e accendini – il mercato aveva iniziato a
lavorare per i Beatles, soffiando sul fuoco della Beatlemania. E,
seguendo la logica ferrea dell’economia, i Beatles iniziarono
a lavorare per il mercato. Da entrambe le parti ci furono dei
vincitori. Ma chi allora poteva considerarsi perdente? Durante il primo
stadio di questa scalata al successo sembrava che nessuno dovesse
perdere.
A parte forse gli sfortunati genitori, queste
«tragedie spirituali» non disturbavano nessuno.
Erano inscenate entro i giovani cuori delle ragazzine, ormai vittime
del «primo amore» – un’emozione
profondamente falsa eppure a nessun titolo meno intensa del sentimento
autentico. Per la prima volta le ragazze amavano per davvero
[…] eroi immaginari, certo, ma d’altro canto non
concepiti da loro stesse. Erano pronte a tutto, per
quell’amore. Migliaia di teen-ager impazzite, drogate,
dall’incessante ritmo yé, yé,
correvano verso i propri idoli con la disperazione dei condannati. Solo
qualche tempo più tardi i sociologi si preoccuparono di
questo problema e divenne evidente che l’idolatria non
è soltanto una «malattia infantile» ma
un diretto risultato dell’atmosfera spirituale (o, per essere
più esatti, a-spirituale) della società borghese,
in cui i giovani cercano i propri «dèi»
allo scopo di protestare contro gli
«dèi» canonici. Appare chiaro che
potere, denaro, carriera e benessere non suscitavano più
gran rispetto nei ragazzi, neanche di famiglia borghese. Di
più, i giovani rifiutavano questi valori e se ne cercavano
di propri.
Non è casuale che
all’inizio degli anni ’60 i giovani rendessero
comune l’espressione «non dar retta a nessuno che
abbia più di trent’anni!». A ben
guardare, non è pura eccentricità come appare a
prima vista – non avere fiducia in nessuno a sedici anni non
è soltanto difficile, è innaturale. È
possibile che i ragazzi abbiano semplicemente smesso di amare i
genitori e siano diventati egoisti prima del tempo?
Com’è ben noto, ogni famiglia ha la sua pecora
nera, ma negli ultimi anni (fine Anni Sessanta, ndt)
in America e in Europa ci sono state troppe famiglie che hanno messo al
mondo «pecore nere» divenute vagabondi, criminali,
tossicomani, tanto che è stato necessario lanciare
l’allarme” (ibidem).
La Beatlemania, secondo l’autrice del saggio, fu uno
dei simboli dello sgretolamento della famiglia borghese. Alimentata
dalla società con l’aiuto di radio, televisione,
cinema e stampa, la Beatlemania lacerò gli animi mentre gli
adulti stavano a guardare in completo smarrimento. Appena i
Beatles raggiunsero l’acme del successo, ovvero quando si
trasformarono da Cenerentole in idoli, la fiaba,
come si suol dire, arrivò alla fine. Non erano soltanto le
canzoni scritte dai Beatles che avevano cessato d’appartenere
loro: ma essi stessi – dopotutto avevano una propria vita
– erano diventati proprietà
dell’industria. Tutto andava a confluire nel gran mercato
della Beatlemania; ora, infatti, la musica era meno importante dei
Beatles stessi. I Beatles, volenti o nolenti, erano obbligati a
mantenere in vita la leggenda. Ogni passo doveva essere accuratamente
programmato, perché i Beatles avevano ormai perso il diritto
di vivere semplicemente “come chiunque altro”. Per
di più divennero estremamente ricchi. Brian Epstein (manager
dei Beatles) e altri personaggi coinvolti nell’affare si
arricchirono a loro volta. Intorno al 1966 non soltanto le riviste
popolari ma anche il Wall Street Journal, che si
rivolgeva soprattutto agli uomini d’affari, pubblicavano
notizie sui Beatles.
Da quel momento in poi ci fui assai poco
di fantastico nella fiaba. Ci furono, invece, sempre più
numeri e calcoli. “Certo rimane qualche buona canzone ma non
sono quelle che i giovani cantano quando vanno per le strade a
protestare contro guerra, violenza e schiavitù legalizzata.
Cantano le canzoni scritte da Bob Dylan, Pete Seeger, Joan Baez e
altri; gli autentici giovani cantanti popolari […]. I
Beatles si sono sempre vantati d’essere apolitici e di non
partecipare alla macchina governativa. Hanno invitato i loro seguaci
nel mondo dell’amore, della natura e delle pure sensazioni,
in breve, in un altro mondo, separato da quello che li circonda. Ma non
hanno mai trovato quel mondo, neanche con l’aiuto dei
narcotici. Invece sono diventati proprietà di un altro mondo
– dell’arte pop, del mercato, degli
affari” (ibidem).
La prima
obiezione che ci sentiamo di muovere a riguardo di questa teoria
è che (anche se dopo lo scioglimento del gruppo) i Beatles,
nella figura cardine di Lennon (oggi con Paul McCartney), hanno
contribuito non poco a diffondere certi ideali di pace e fratellanza.
Si pensi ad esempio all’inno voluto da John Lennon Give
Peace a Chance, oggi ancora così conosciuto e
diffuso nel corso delle manifestazioni e dei cortei pacifisti (per non
parlare di Imagine da molti fan considerato come un
vero e proprio inno alla fratellanza). Inoltre, oggi molto
più di allora, la musica ha quasi definitivamente cessato di
essere concepita come l’espressione di
progettualità politiche, sociali o culturali (Pettinato,
1997).
Il rock and roll resta quindi rock
and roll: “lo spirito del rock è fondato
sull’immediatezza, sulla istintività, non sulla
sofisticatezza” (idibem).
Oggi
quindi la canzone non necessariamente deve rivestire un ruolo,
rappresentare un simbolo di protesta, un “totem
politico” o un pensiero.
Come sosteneva
John Lennon: “Leggendo le critiche e le interpretazioni date
dalla stampa alle nostre canzoni, io e Paul (McCartney) ci facevamo
sempre delle grandi risate – a volte ci stupivamo anche,
perché trovavamo dei significati che noi non avremmo mai
immaginato… In generale, però, eravamo stufi di
leggere delle interpretazioni visionarie dei nostri testi, e allora
abbiamo deciso di dare ai critici qualcosa a cui pensare. E
così è nata la canzone Penny Lane,
che non è altro che un “catalogo” di
persone, luoghi e sensazioni tratti dalla realtà di
Liverpool. La banca era proprio lì, e là
c’erano le pensiline del tram e la gente che lo aspettava, e
il controllore stava in piedi lì, e le
autopompe erano laggiù… Era
proprio come rivivere l’infanzia. Ma prova un po’ a
spiegarlo ai critici… sono certo che prima o poi qualcuno di
loro scriverà di «immaginario paesaggio della
coscienza»” (Mandel, 1996).
Va comunque
detto che i Beatles sicuramente non sarebbero così famosi,
la loro immagine non sarebbe così conosciuta nel mondo senza
la creazione di un vero e proprio “mercato dei
Beatles”.
In una fase ancora iniziale era
chiaro, per chi vedeva lontano, che i Beatles erano capaci di vendere
ben altro che milioni di dischi. La Beatlemania dimostrò,
come mai prima d’allora, la grande estensione del mercato
inglese costituito dai giovani, un vasto mercato pronto per essere
sfruttato. Dall’ottobre 1963 in poi Brian Epstein, il manager
dei Beatles, fu sempre circondato da una piccola schiera di uomini
d’affari che lo blandivano, lo lusingavano e, a volte,
perfino lo scongiuravano di autorizzarli a produrre articoli vari con
l’immagine dei Beatles.
Il concetto di
“attività promozionale” era
pressoché sconosciuto nell’Inghilterra della
metà del secolo. Walt Disney, “l’uomo
che traduceva i sogni in articoli di plastica”, fu imitato su
scala ridotta dai fabbricanti inglesi di giocattoli, che producevano
copie dei pupazzi degli spettacoli televisivi. Fino a quel momento i
cantanti pop avevano avuto un successo troppo limitato nel tempo per
poter vendere qualcosa che andasse al di là di merci
effimere.
Non esisteva, quindi, nessun precedente che
avvertisse Epstein del fatto che si trattasse di un mercato da miliardi
di sterline. Per lui le attività promozionali si limitavano
alle pubbliche relazioni, erano un modo per accrescere la simpatia del
pubblico e incentivare le relazioni con il Fan Club.
I primi
prodotti Beatles soddisfacevano semplicemente il desiderio, forte tanto
nelle ragazze quanto nei ragazzi, di assomigliare ai loro idoli.
“In Bethnal Green, nella zona est di Londra, una fabbrica
produceva parrucche Beatles al ritmo di parecchie migliaia la
settimana. La pettinatura che le forbici di Astrid Kirchherr avevano
creato per i Beatles diventò una novità che si
vendeva bene, una parrucca nera, fibrosa, del prezzo di trenta
scellini, che non si poteva certo definire una cosa seria. Una
fabbricante di articoli di abbigliamento dell’Inghilterra
centrale lanciò sul mercato le “giacche
Beatles” senza bavero simili a quella confezionata per i Fab
Four, la stessa che i Beatles avevano disprezzato come
“la giacca della mamma” (ibidem).
Anche le ragazze portavano la giacca, la camicia con il collo sottile e
perfino “gli stivaletti alla Beatle” con il tacco
cubano e i lati elastici, ordinabili per corrispondenza al prezzo di
“settantacinque sterline e undici pence, comprese le spese
postali e l’imballaggio” (Norman, 1981).
Il
periodo di Natale del 1963 portò nei negozi una moltitudine
di prodotti legati ai Beatles. Si trovavano chitarre in plastica,
autenticamente “autografate” e “Batterie
Beatle” in miniatura, medaglioni Beatle ognuno con una
piccola fotografia dei quattro e grembiuli da cucina Beatle, rossi e
azzurri, punteggiati da scarafaggi che suonavano la chitarra. Le
quattro facce e le quattro firme, incise, stampate o riportate per
decalcomania, apparivano, sia pure indistintamente, su cinture,
distintivi, fazzoletti, puzzle, materassi pneumatici, rastrelliere per
dischi, borse a tracolla, matite, bottoni, e vassoi. Veniva
commercializzato un dolce noto come “Ringo Roll” e
“gomme da masticare Beatle”. Una catena di panifici
del nord Inghilterra annunciò “dolcetti
Beatle” a forma di chitarra, a cinque scellini (ibidem).
All’inizio
Epstein esaminò personalmente i prodotti di ogni ditta o di
ogni individuo cui concedere, eventualmente,
l’autorizzazione. Aveva stabilito che in nessun caso i
Beatles avrebbero autorizzato direttamente qualche articolo,
né avrebbero dato il loro nome a oggetti di cattivo gusto,
sconvenienti o tali da sfruttare apertamente i loro fan.
Comunque non tardarono ad apparire articoli Beatle non
autorizzati. Anche se la NEMS Enterprises aveva il
diritto esclusivo di utilizzare il nome “Beatles”,
si poteva aggirare la legge scrivendo sui prodotti semplicemente
“Beetles”. La più vaga raffigurazione di
insetti, chitarre o omini pettinati in stile “mop
top”, aveva il potere di far vendere qualsiasi cosa, per
scadente e di cattivo gusto che fosse. Individuarne i colpevoli, per
non parlare di intentare cause nei loro confronti, comportava una
sorveglianza che nessun detentore inglese di diritti d’autore
era mai stato costretto ad intraprendere. E certo non poteva farlo la NEMS
Enterprises. Così, dopo alcuni processi
di secondaria importanza, i contraffattori e i falsari poterono
facilmente incrementare i loro guadagni.
Questa
produzione, che poteva garantire cospicue entrate nelle casse dei Fab
Four, venne gestita da Epstein in maniera piuttosto goffa. Il
manager, infatti, firmò un contratto d’esclusiva
per lo sfruttamento del marchio Beatles con una società, la Stramsact-Saltaeb
(Beatles scritto al contrario), guidata da Nicky Byrne. Scrive Philip
Norman: “Costui apparteneva a quello che veniva definito il
“Chelsea set”, quella sottocultura di debuttanti,
bohémien, ereditiere e affascinanti avventurieri che, a
partire dagli anni Cinquanta, fioriva lungo e intorno a
King’s Road” (ibidem).
Il
contratto con la Saltaeb era assolutamente
sbilanciato: a Byrne sarebbe andato il novanta per cento dei proventi,
mentre alla NEMS, e quindi al complesso, soltanto
il dieci.
Molteplici furono gli esempi dello
sfruttamento del marchio “Beatles”, come quando
Nicky Byrne, arrivato a New York qualche settimana prima
dell’esibizione dei Beatles per concludere i suoi affari
legati all’oggettistica Beatles, orchestrò la
grandiosa accoglienza all’aeroporto Kennedy garantendo un
dollaro e una T-shirt agli adolescenti che vi avessero
partecipato.
Un corollario di episodi di
“follia”, uniti ad abili strategie di vendita
circondavano la vita dei Beatles. Quando i giovani musicisti inglesi
arrivavano in una città, gli episodi straordinari si
susseguivano. Come non catalogare sotto voce
“follia” il commercio di scatolette contenenti
“Respiro Beatle” e la messa in vendita (a dieci
dollari) di “Biancheria da letto Beatle”?
Tuttavia
non erano soltanto gli adolescenti a movimentare questo incredibile
tourbillon. Il presidente della squadra di baseball di Kansas City, C.
Finley, offrì circa centocinquantamila dollari per
convincere il gruppo a esibirsi anche nella sua città e fu,
ovviamente, accontentato.
Se, come dicevamo, la gestione dei
prodotti legati ai Beatles da parte di Byrne fu certamente proficua,
per Epstein non lo fu altrettanto.
LETTURE
— Martynova Anna, La fiaba di una cenerentola dei giorni nostri, in Sovietskaya Kultura,
Ministero della Cultura dell’Unione Sovietica, Comitato dei Lavoratori Culturali Professionisti, 3 dicembre 1969.
— Norman Philip, Shout! La vera storia dei Beatles, Mondadori, Milano, 1991.
— Mandel William, John Lennon. Pace, amore e musica, Blues Brothers, Milano, 1996.
— Pettinato Salvatore, Nel nome dei Beatles. Passato e presente di una mitologia moderna, Rusconi, Milano, 1997.