L’anno è il 1962. Il 5 ottobre
l’etichetta discografica Parlophone (Emi) pubblica il primo
singolo di un quartetto proveniente da Liverpool. Si fanno chiamare
Beatles e il brano del lato A si intitola Love Me Do.
Sul retro ancora amore: P.S. I Love You. Sembra un
disco tra i tanti di un complessino tra i molti in circolazione, ma in
pochi mesi tutto cambiò e i quattro anonimi divennero i Fab
Four.
La solennità di un quasi-rito
collettivo celebrato (Mellers, 1976) dagli stessi Fab Four
irruppe nel panorama inglese il 12.1.1963
(all’indomani della pubblicazione del secondo singolo Please
Please Me) dopo la partecipazione al programma Thank
your lucky stars (Lewisohn, 1995). Fu
l’apparizione nel programma dell’ATV Parnell’s
Sunday Night At The London Palladium del 13 ottobre 1963 a
segnare l’esordio di ciò che la stampa inglese
avrebbe definito, da quel momento in poi, Beatlemania (Kogler, 1995),
termine che, come scrive Salvatore Pettinato, indicava quel repertorio
di reazioni semi insane, soprattutto del pubblico femminile, fatto di
crisi di pianto, svenimenti, collassi nervosi, che accompagnavano
concerti e apparizioni dei Fab Four (Pettinato,
1995).
La mattina dopo lo spettacolo al Palladium
ogni giornale inglese riportava in prima pagina una foto e un articolo
sui “disordini” delle ammiratrici dei Beatles fuori
dal teatro londinese. Il Daily Mirror scriveva:
“La polizia si è battuta per contenere mille
teen-ager urlanti mentre i Beatles uscivano dal Palladium
dopo lo spettacolo televisivo”. Tanto il Daily Mail
quanto il Daily Express pubblicavano delle foto dei
quattro Beatles che facevano capolino dal teatro per la presunta paura
di una folla che, questa volta, era valutata in cinquecento persone. Il
Mirror continuava: “Una fila di macchine
della polizia era pronta mentre i quattro idoli pop si lanciavano verso
la loro macchina. Poi, simili a furie scatenate, le ammiratrici
sfondavano un cordone di oltre sessanta poliziotti” (Norman,
1981).
Solo pochi giorni dopo l’esibizione al Palladium,
giunse notizia che il gruppo, già alla fine
d’agosto, aveva accettato un invito dell’impresario
Bernard Delfont per esibirsi al cospetto della Regina Madre e della
Principessa Margaret all’annuale Royal Command
Performance (Lewisohn, 1992).
La famosa Royal
Command Performance avvenne lunedì 4 novembre 1963
al Teatro Prince of Wales di Londra. Fuori dal
teatro avvenivano le ormai consuete scene di Beatlemania: orde di
ragazzine urlanti erano tenute sotto controllo da serrati cordoni di
polizia. L’arrivo della famiglia reale passò in
secondo piano, tutta l’attenzione era volta verso i Beatles.
Il Paese sembrava impazzito, all’interno del teatro i Beatles
blandirono e conquistarono il pubblico ingioiellato (Calvisi e Caserza,
1997) con la stessa rapidità ed efficacia con cui, tanto
tempo prima, avevano catturato i pochi avventori del Cavern Club di
Liverpool, che può essere considerato il primo locale di
Liverpool in cui si esibirono dal vivo i Beatles. Il pubblico
del Royal Command, impettito e deferente, non poteva mostrarsi
più vulnerabile al fascino noncurante dei Beatles e alla
sfrontatezza che, per istinto, essi graduavano proprio nella misura
giusta. I giornali del giorno dopo furono unanimi: “I Beatles
scuotono i reali”, annunciava il Daily Express;
“Notte di trionfo per quattro giovani, il palco reale era in
ebollizione” scriveva il Daily Mail (Norman,
1981).
Sui giornali si leggeva che molti ragazzi
venivano rimandati a casa da scuola perché sfoggiavano
“il taglio di capelli alla Beatles”; si stava
preparando un balletto sui quattro, un parroco alla moda e numerosi
politici sfruttavano il nome del gruppo per farsi pubblicità
e in Parlamento erano spesso all’ordine del giorno delle
interpellanze con le quali si chiedeva quanto costasse alla polizia
londinese la protezione del complesso (misura cautelare ovviamente
necessaria, se si voleva che i quattro elementi del complesso
rimanessero incolumi). Per gli stessi Beatles tutto stava andando ben
oltre lo scherzo. Dovevano indossare elaborati travestimenti quando
uscivano per strada, furono vittima di un finto rapimento, le loro
famiglie e le loro case erano perennemente in stato
d’assedio, vennero loro rubati strumenti e chitarre dai
camerini. Gli arrivi e le fughe di soppiatto dalle città del
tour autunnale assomigliavano più ad esercitazioni militari
che a spostamenti di un complesso rock. E una volta in teatro, i
Beatles non potevano far altro che rimanere nascosti in miseri
camerini, prigionieri del proprio successo. Sul
palco non andava meglio. Uno spettacolo durava 20-25 minuti e avveniva
di fronte una platea così incontrollabile che le grida non
solo coprivano completamente la musica ma impedivano addirittura ai
Beatles, in un’epoca di impianti di amplificazione primitivi,
di sentire le proprie voci, le armonie e gli strumenti. Dopo sei anni
di progressi sul palco, i Beatles cominciarono a diventare
più innaturali ad ogni concerto. La turbolenta annata 1963
terminò con il nome del gruppo “scolpito nel cuore
della nazione”, come scrisse un quotidiano
nell’edizione speciale dedicata ai Beatles. I quattro
dominavano completamente i giornali, le riviste, la radio e la
televisione. Le classifiche erano invase dai dischi dei Beatles e
legati ai Beatles. Record Retailer rese noto che
nel 1963 gli inglesi avevano speso 6.250.000 di sterline solo in dischi
dei Beatles (Lewisohn, 1992).
Va detto che nel 1963
la popolazione inglese si era ritrovata sbilanciata a causa di una
vasta eccedenza di persone sotto i diciott’anni:
ciò contribuì all’estendersi della
Beatlemania. Il calo della mortalità infantile, la legge del
benevolo governo Macmillan che eliminava la leva obbligatoria,
unitamente al fatto che il pericolo di una possibile terza guerra
mondiale sembrava fosse ormai scongiurato, avevano permesso ad
un’intera generazione di crescere intatta. Si trattava delle
persone nate dopo il 1945 e cresciute in un’Inghilterra che
si batteva per passare dal grigiore del dopoguerra al benessere
materiale che caratterizzava gli States, da lungo tempo osservato e
invidiato. Per questi giovani l’automobile, la radio, la
lavatrice, i vestiti alla moda, tutti i lussi sognati ancora dai loro
genitori, non erano altro che il normale contenuto terreno della
vita.
Tutto avvenne in un momento politico di crisi, la classe
dirigente del Paese era stata colpita dagli effetti del famoso
“Scandalo Profumo” (dal nome del ministro John
Profumo coinvolto in particolari affari
“pruriginosi”) e l’interesse dei media
era quello di offrire finalmente qualcosa di sano e pulito da opporre
allo sfacelo delle istituzioni. C’era una forte
volontà di uscire dal modello opprimente di organizzazione
gerarchica della società civile del tempo, considerato
colpevole di quarant’anni di orrori e follie
nell’alternanza tra totalitarismi e conflitti fratricidi in
cui erano state principalmente le giovani generazioni a sacrificare la
propria vita. La cultura popolare e di massa esplose in tutto il suo
fragore mettendo in primo piano proprio la musica pop,
intesa come mezzo per uscire da una situazione ritenuta dagli stessi
giovani angosciosa. La musica pop era il segno
più evidente del crescente potere economico dei teen-ager.
Quella che aveva avuto inizio nel 1956 come esplosione ridicola e
sconveniente di costumi adolescenziali, era ormai diventata
un’industria con un giro d’affari di oltre cento
milioni di sterline l’anno. L’atteggiamento nei
confronti dei giovani, però, rimase sostanzialmente
immutato: si trattava, come nel 1956, di un elemento insubordinato e
sconcertante della popolazione, un elemento sempre oggetto di biasimo e
di raccomandazioni da parte dei politici e della classe dirigente in
genere. Ma si trattava anche di un mercato, di proporzioni e di
potenzialità inaspettate, che il commercio al dettaglio
blandiva e corteggiava ad ogni livello.
Bisogna
però dire che non si trattava della prima manifestazione di
fanatismo, si pensi al caso evidente di Elvis Presley, ma quella che
aveva come protagonisti i Beatles accadde in un momento particolare
della storia inglese in cui il pubblico “aveva un particolare
bisogno di loro”. Questione di timing,
del momento giusto, avrebbe detto George Martin, loro produttore
discografico e mentore.
I Fab Four avevano
“il segno dei primi” (Pettinato, 1995).
È possibile verificare dalle cronache e dalle interviste che
non si autocompiacevano, erano sinceri e diretti fino
all’autoridimensionamento sospinto. Essi stessi, parlando dei
primi singoli usciti sul mercato discografico, ebbero modo di rilevare
il fatto di ritenersi “solo” dei grandi
assemblatori più che dei grandi compositori (Mandel, 1996). Dello
stesso parere al riguardo non fu a suo tempo Mick Jagger, cantante dei
Rolling Stones, che in un’intervista ebbe modo di affermare:
“I Beatles erano blasé e
talvolta difficili. Spesso erigevano barriere, forse perché
troppa gente li avvicinava. Si erano montati troppo la testa. Per loro
tutto era accaduto troppo rapidamente, erano soltanto dei ragazzi di
provincia e volevano che nessuno lo sapesse” (Calvisi e
Caserza, 1997).
Nello scontro-confronto generazionale tra
vecchia generazione e youth power si
contrapponevano nuove consapevolezze e priorità, come quelle
del diritto al piacere, della sincerità verbale, del tempo
libero, dell’avversione alla cultura del sacrificio.
Gli
inni aggreganti di questa nuova generazione non potevano che provenire
dal mondo del rock and roll dal quale inizia una
progressiva azione di colonizzazione che sotto certi aspetti non si
è ancora arrestata. Il rock and roll dei
Beatles può essere visto anche in chiave di strumento
disgregante dapprima della cultura borghese, per poi estendersi senza
una precisa direzione: un esempio fu il problematico rapporto con la
religione.
Gli integralisti cristiani, soprattutto quelli non
cattolici, furono tutt’altro che aperti verso i Beatles, al
tempo della Beatlemania, mentre più articolata fu la
posizione a riguardo del Vaticano (Schaumburg, 1976). La Chiesa,
d’altronde, sin dal Concilio di Trento aveva osteggiato la
materialità terrena del ritmo (si legga anche Beat) e dei
suoi moti sensuali, in favore delle coralità celesti, delle
melodie (Pettinato, 1995). Il beat era espressione della
“fisicità” del rapporto dei neri con la
musica pagana, lontano dal senso formale della cultura musicale
occidentale. In Iran, Paese integral-islamico, nel 1996 la radio e la
televisione hanno addirittura messo al bando la musica dei Beatles,
perché ritenuta colpevole, come del resto tutta la
“cultura del rock”, di essere sovversiva.
Kogler
(1995) sostiene che il fondamento della musica afroamericana
è il ritmo che viene prodotto battendo, il beat, con i suoi
accenti, su cui si stratificano altri eventi ritmici e melodici, e
precisa che il marchio rock and roll proviene dalla
lingua blues, che utilizzava questa espressione slang dai molteplici
significati per alludere sia al rapporto sessuale sia a qualsiasi
movimento ritmico. Anche il produttore dei Rolling Stones, Andrew
Oldham, in una famosa intervista ebbe modo di esprimersi in merito allo
stretto legame tra sesso e rock and roll, mettendo
in rilievo con grande intuito il nuovo modo di vivere
l’esperienza sessuale nel mondo dominato dal rock (Perniola,
1996).
Nei primi anni Sessanta il mondo giovanile era alla
ricerca con urgenza di nuovi modelli di ricambio universali: il rock
and roll escludeva con forza gli “altri”,
quelli che non lo accettavano e fungeva da fattore unificante per le
nuove generazioni.
Il rock and roll rappresentava in questo
contesto un modo per allargare i diritti di autonomia individuale, una
via per favorire concezioni egalitarie, pacifiste ed antirazziste. In
questo quadro, niente poteva essere più importante che
possedere dei simboli da copiare, emulare, ostentare agli adulti come
testimonianze viventi, concrete. A rivestire quel ruolo erano
perfettamente destinati i Beatles: mini collettività,
espressione di un modello plurimo, un nume a più teste,
“ben più efficace come simbolo in quel contesto
particolare, di qualunque profeta possibile individuale e, proprio per
questo, generatori di un esteso effetto di più facile
identificazione” (Pettinato, 1995).
Nei newsgroup
presenti in Internet si parla spesso di Beatles Concept,
o Cosa Beatles per indicare la loro immagine
indivisibile, unica, paragonabile a certe divinità orientali
plurisoggettive. John Lennon, Paul McCartney, Ringo Starr e George
Harrison erano solo articolazioni di questo Beatles
Concept secondo un alternarsi di priorità
individuali non regolari: di ciò erano concretamente
consapevoli tutti ed è comprensibile che ad un certo punto,
e disordinatamente, il loro “ego” più
profondo rifiutasse il vincolo, il quale, paradossalmente, nato per una
ricerca di libertà di ciascuno di loro, aveva finito col
ritorcersi contro la spinta originaria. Come ebbe a dichiarare John
Lennon: “Fu con l’invenzione della loro immagine
iniziale, frangia e giacchetta che l’incisività
dei Beatles venne intaccata irrimediabilmente, e che il successo
improvviso uccise la loro musica” (Wenner, 1971). Insieme
rappresentavano una felice combinazione perfettamente equilibrata tra
stile, melodie, sound, personalità
individuale, fisicità di gruppo e immagine proiettata. Dalla
combinazione di questi otto elementi emergeva quella
particolarità che altri non avevano.
L’anno
successivo risulterà poi decisivo. L’Inghilterra
nel 1964 aveva cambiato governi e primi ministri. Le elezioni generali
d’ottobre avevano segnato la sconfitta dei conservatori dopo
tredici anni di preminenza e riportato al potere, per la quarta volta
nella storia, il partito laburista. Il potere era passato a Harold
Wilson, che rappresentava l’elettorato di Huyton, vicino a
Liverpool. Egli riportò al potere il socialismo
sull’onda di uno slogan quanto mai opportuno in quanto era
stato preso, quasi per intero, dal linguaggio pop
usato dagli adolescenti o dai presunti tali: Let’s
Go With Labour! Lo slogan decisivo della campagna elettorale,
prendeva a prestito l’aspetto prevalente della musica pop:
essere spronati, come avveniva per la musica, a condurre una vita
intensa e stimolante. Quella era “la nuova
Inghilterra” che Wilson prometteva in un linguaggio che si
intonava allo stato d’animo di massa: “Cento giorni
di azione dinamica. […] Un’Inghilterra dinamica,
in fiduciosa espansione e soprattutto tesa verso una meta.
[…] Forgiata al calor bianco della rivoluzione
tecnologica” (Norman, 1981).
Wilson quando ancora
era capo dell’opposizione comprese in anticipo
l’importanza del ruolo dei Beatles nel panorama
socio-politico inglese. Nell’aprile precedente alle elezioni,
aveva personalmente consegnato ai Beatles il premio Variety
Club. Era stata la mossa più astuta della sua
carriera politica, telefonare a Sir Joseph Lockwood, presidente
dell’EMI, e offrirsi di onorare l’occasione quale
“concittadino del Merseyside”.
Agli inizi
del 1965, il genetliaco della regina fu caratterizzato dalla
distribuzione delle onorificenze e proprio come l’anno
precedente, la regina si limitò ad apporre la propria firma
all’elenco preparato dal suo primo ministro. Il 12 giugno fu
annunciato che i Beatles avrebbero ricevuto il MBE, sarebbero diventati
cioè Membri dell’Eccellentissimo Ordine
dell’Impero Britannico.
I Beatles, che si stavano
riprendendo dalla seconda tournée europea, la mattina si
svegliarono e trovarono una folla di rappresentanti della stampa,
ansiosi di scoprire ciò che essi provavano
all’idea di camminare, nei cortei ufficiali, dietro i pari
del regno e i cavalieri ereditari. Per comprendere il grado di
sfrontatezza e al contempo di stupore nel rispondere a domande circa la
consegna dell’onorificenza basti ricordare che John Lennon
affermò: “Pensavo che fosse necessario guidare i
carri armati e vincere le guerre per avere il MBE”. E ancora
Paul McCartney: “Penso che sia meraviglioso, cosa diventa mio
padre con questo?”. Nell’Inghilterra di Harold
Wilson poteva succedere quindi di essere insignito dell’MBE
“solo per aver suonato rock” come disse ancora
incredulo George Harrison. Per questi motivi Wilson venne ironicamente
definito come “il primo ministro beatle” (ibidem).
L’investitura
dei quattro all’ordine dell’Impero Britannico
avvenne per mano della regina, il 26 ottobre. La Swinging
London si trovò in tal modo unita a Buckingham
Palace per assistere ad uno spettacolo la cui pompa solenne e la cui
spassosa incongruenza erano una profezia del sistema di onorificenze
wilsoniano. Lo scherzo di Wilson non era stato accolto favorevolmente
da tutti. Parecchi detentori dell’MBE, nonché
dell’OBE e del BEM, avevano restituito le loro decorazioni
per protestare contro l’assegnazione di
un’onorificenza, da loro guadagnata per meriti di guerra o di
lavoro, a quella che un indignato eroe della Marina definiva
“una banda di babbei”. Il colonnello Frederick Wagg
annunciò le proprie dimissioni dal partito laburista e
l’annullamento di un lascito di dodicimila sterline ai fondi
del partito. Wilson riuscì però a raggiungere il
suo obiettivo: riflettere su se stesso la popolarità dei
Beatles. L’era Wilson, che aveva promesso tanta
tenacia, tanta austerità tesa ad una meta, doveva produrre
un interludio di frivolezza senza riscontro, o quasi, nel passato.
L’Inghilterra neosocialista del 1965 è ricordata
soprattutto per una sorte di allucinazione che calò
prepotentemente sulla capitale: la Swinging London.
La Swinging London nacque nel momento in
cui i debiti del governo, in patria e all’estero, avevano
condotto il Paese sull’orlo del dissesto economico. Eppure i
tempi difficili, così scrupolosamente anticipati da Harold
Wilson, non si vedevano da nessuna parte. Tutto quello che si poteva
vedere era un rapido aumento delle spese registrato sul fronte, ormai
familiare, della moda dei teen-ager. Le ragazze di
Londra, viso pallido e capelli corti, si muovevano con passo agile e
leggero con vestiti bianchi e neri Op Art che
terminavano scandalosamente molto sopra il ginocchio. I ragazzi che
facevano la coda fuori dal Marquee Club portavano
calzoni con la vita bassa e camicie a pallini o a fiori.
L’opulenza e lo stile erano le manie del momento. La Swinging
London era uno spettacolo di gonne alla Mary Quant,
di capelli tagliati a colbacco, di stravaganti pellicce di coniglio
bianco; ma era anche l’inizio, di un abito mentale, che in
larga parte veniva dai Beatles. Come questi avevano a occhi aperti
visto lo strano mondo della loro celebrità, così
i giovani londinesi guardavano una capitale la cui antica compostezza
appariva improvvisamente minata. Alla base della Swinging
London c’era la tollerante Londra non
all’ultimissima moda, la Londra cioè, dei taxi
neri, degli autobus rossi, dei granatieri della guardia, delle statue e
dei monumenti sacri davanti ai quali i giovani vestiti scandalosamente
come tanti damerini, sfrecciavano ridendo sulle loro Mini
Mokes scoperte. La stessa Union Jack si
traduceva in un grembiule da cucina o in un sacchetto di carta per la
spesa. L’essenza era la stessa impudenza che era appartenuta
ai Beatles; era la certezza che, poiché loro
l’avevano fatta franca, tutti avrebbero potuto fare
altrettanto.
La Swinging London era anche
un grosso affare, come nient’altro sarebbe stato prima o
sarebbe stato poi. Tutta l’estate nel West End intorno a
Carnaby Street e in strade secondarie di Fulham e Kensigton, un tempo
mal frequentate, spuntarono le “boutique”, il nuovo
nome dato ai negozi di abbigliamento. Tutta una serie di nuovi locali
notturni gareggiò con il famoso locale Ad Lib
per attirare coloro che, nella terminologia del momento, erano il with
it set, le “facce nuove”, la gente in.
La
più inavvicinabile gente in, il supremo
clan, continuavano a essere i Beatles. Con i capelli tagliati a
caschetto e gli abiti un passo avanti rispetto a Carnaby Street, essi
costituivano il modello, e le loro canzoni lo sfondo, delle spese nelle
boutique, dell’uso di mangiare nei bistrò
e di portare boa di struzzo, della vita della Swinging London
(ibidem).
Il loro film Help!
(Lester, 1965) è la Swinging London
personificata, in parte musica, in parte documentario a colori e in
parte fumetti Pop Art. Il soggetto della pellicola
era la vita privata dei Beatles, non la vita reale, ma una vita
fantastica, quale le parole delle loro canzoni e le buffonate pubbliche
avevano fatto immaginare ai fan. La prima del film al West End, con
l’ormai caratteristica e quasi inevitabile presenza della
principessa Margaret, riscosse critiche che salutavano i Beatles quali
“moderni fratelli Marx” ed è quasi
superfluo aggiungere che riscosse un notevole successo.
Tornando
alla carriera dei quattro, se il 1963 fu l’anno della perdita
di controllo sullo spettacolo, nel senso che iniziò a
formarsi quell’abitudine, mai più abbandonata,
dell’assalto di voci assordanti al loro solo apparire sul
palco, il 1964 fu l’anno dei tour internazionali con i quali
si determinava un’esportazione diretta della Beatlemania.
La
vicenda del tour americano è per vari versi straordinaria,
soprattutto psicologicamente, tant’è che ha
prodotto un vero versante a sé della Beatlemania e della
letteratura in materia (Hoffman, 1984). Hoffman sostiene che i
“giovani” americani d’annata concordano
tuttora su un profilo ben specifico: fu il rock dei Beatles e non il rock
and roll originario e locale a
“svegliarli”, al pari di quanto accadeva in Europa (ibidem).
Sulla febbre scatenata tra la gioventù americana gioca
affettuosamente, ad esempio, il film del 1978 di Robert Zemeckis, 1964:
Allarme a New York arrivano i Beatles (I Wanna Hold
Your Hand, 2004).
In America la band ricevette
l’onore di partecipare all’Ed Sullivan Show,
in un momento aureo del palinsesto televisivo del sabato sera, che
veniva considerato comprovabilmente lo spettacolo televisivo con
maggiore seguito nel mondo (mancavano i satelliti, e gli altri grandi
Paesi, come la Cina e l’Urss, non potevano nemmeno immaginare
di avere un televisore per famiglia).
L’America
intera era di fronte al video: vennero anche realizzati dei documentari
sulle reazioni delle famiglie alla vista dei quattro ragazzi inglesi,
visibili anche nelle immagini di Anthology ’96 (AA.
VV., 2000). Il 9 febbraio 1964, davanti ad un pubblico di 728
newyorchesi esagitati, i Beatles fecero la loro apparizione
all’Ed Sullivan Show. Secondo gli indici
d’ascolto dell’AC Nielsen, venti milioni di
famiglie assistettero alla trasmissione: qualcosa come 73 milioni di
persone, ben oltre il precedente record assoluto d’ascolto.
Poco prima degli Stati Uniti i quattro erano stati in Francia, al
decantato Olympia dove avevano però ricevuto
un’accoglienza tiepida. In America arrivarono
tutt’altro che in sordina, a febbraio: i tremila fan che li
attendevano al JFK Airport di New York, riferisce qualcuno, erano stati
ingaggiati dalla business machine (Schaffner,
1980) che, dopo lo scetticismo dell’anno
prima, quando Brian Epstein aveva collezionato rifiuti nei suoi test
diretti in loco, si stava mettendo in moto secondo il noto
professionismo americano in materia di spettacolo.
A proposito
dell’arrivo dei Beatles in America è opportuno
altresì sottolineare altre due importanti questioni. I
Beatles giunsero il 7 febbraio 1964 all’aeroporto di New York
da poco ribattezzato “JFK”, arrivarono in una
nazione che subiva ancora una forte depressione dopo la scomparsa del
Presidente John Fitzgerald Kennedy. Gli americani erano quindi pronti
ad accogliere un diversivo del genere. Per quanto oggi possa sembrare
inverosimile tutta la nazione fu presa dalla febbre dei Beatles, in
maniera entusiastica e incondizionata (Lewisohn, 1995). Per quanto
concerne il secondo fatto rilevante possiamo affermare che
l’America fu contagiata per sempre nonostante alcune
dimostrazioni nazionalistiche di ostilità alla loro
“invasione”.
La connessione del fenomeno
della Beatlemania con la dissoluzione dei costumi ha sempre fatto
capolino nel tempo: nel 1965 circolò in tutti gli Stati
Uniti un pamphlet della Christian Crusade
intitolato Comunismo, Ipnotismo e Beatles, in cui
si avvertiva che la musica dei quattro avrebbe ipnotizzato la
gioventù americana per consegnarla sottomessa ai poteri
sovversivi (Schaumburg, 1976).
Quando, dopo vari concerti in
tutti gli Usa in cui si registrò il tutto esaurito,
decollarono dal suolo americano, i Beatles si lasciarono alle spalle un
Paese letteralmente infatuato di loro, fatto tanto incomprensibile
quanto imprevedibile.
Il 1965 fu un anno particolare per i
Beatles, un anno in cui i quattro consolidarono i successi e gli
eccessi del 1964 replicando praticamente le stesse imprese.
Cominciarono a comprendere che difficilmente i loro concerti avrebbero
potuto recuperare l’atmosfera che si respirava prima del
1963. Cominciarono a rimpiangere i tempi delle esibizioni di
mezzogiorno al Cavern Club, quando potevano
affinare le proprie capacità, non soffocate da grida
avvolgenti. Recitarono in Help! (Lester, 2007) e
affrontarono un’altra tournée trionfale in Nord
America.
All’arrivo a San Francisco furono condotti
fuori dall’aeroporto all’interno di una gabbia di
ferro. La loro liberazione, ad opera della polizia, circa dieci secondi
prima che la gabbia cedesse all’urto di una folla impazzita
che premeva da ogni parte, segnò l’inizio di
quattro settimane in cui la febbre americana per i Beatles giunse al
parossismo. In più di un’occasione i Beatles
ebbero il terrore di perdere la vita.
In America il tour organizzato sempre dall’abile
manager Epstein si aprì con un evento grandioso: un concerto
davanti ad una folla record di 55.600 fan deliranti allo Shea Stadium
di New York. Filmato per gli schermi televisivi, è
probabilmente il più famoso dei concerti dei Beatles,
l’apogeo della loro carriera live. Forse
perché era la prima data del tour nonché
un’occasione importantissima, i Beatles misero un particolare
impegno nelle loro esecuzioni. Nei concerti successivi però
quella scintilla scomparve e talvolta la prestazione del complesso
raggiunse livelli quasi infimi, certamente al di sotto di quel che ci
si poteva aspettare dall’incontrastato gruppo numero uno del
mondo. Non che i Beatles fossero da biasimare; due anni di concerti
davanti a platee che quasi non riuscivano a cogliere una sola nota
– e che, se anche ci fossero riuscite, non avrebbero notato
neppure esecuzioni trascurate e voci stonate – li avevano
resi indolenti sul palcoscenico. A quel tempo avevano smesso del tutto
di provare prima dei concerti, rinunciando perfino, ed è
incredibile, alle prove prima di un tour. Secondo Ringo Starr, a volte
poteva accadere che tutti e quattro smettessero improvvisamente di
suonare una canzone senza che nessuno tra il pubblico se ne accorgesse.
John Lennon, che da tempo gridava ai fan di tacere, cominciò
a urlare oscenità al pubblico (anche se non davanti al
microfono). Le registrazioni esistenti dei concerti e delle conferenze
stampa del tour 1965, ritraggono un gruppo
evidentemente irritabile, annoiato e frustrato, non più gli
spensierati Fab Four (Lewisohn, 1995).
Poi
ci fu ancora una tournée breve per volontà degli
stessi protagonisti, in Gran Bretagna. Quei nove concerti costituirono
l’ultimo tour dei Beatles nel loro Paese.
Naturalmente la cosa non venne resa nota, poiché a quel
tempo si trattava di un segreto condiviso solo da quattro persone. Si
trattò quindi di un anno di transizione, caratterizzato da
un’importante cambiamento di prospettiva.
Quando i
Beatles si sentirono soffocare dall’adulazione che li
circondava, cercarono di soddisfare se stessi piuttosto che il
pubblico; il risultato più evidente fu un ulteriore
significativo balzo in avanti del lavoro in studio, che sarebbe
culminato nell’album Rubber Soul. Inoltre
diminuirono le apparizioni in radio e in televisione, come se si
fossero improvvisamente resi conto di non avere più bisogno
di sfiancarsi correndo nel disperato tentativo di soddisfare ogni
richiesta. Abitavano in lussuose ville separate nei migliori quartieri
di Londra o della periferia ricca, giravano in Aston Martin
e Lotus, avevano una vita privata indipendente e
più discreta rispetto al passato. Subivano anche le prime
attrattive intellettuali, dall’arte d’avanguardia
ai movimenti civili, fino al fascino orientaleggiante di predicatori
più o meno noti. Avevano seguito ed accettato, uno dopo
l’altro, e con diversa intensità,
l’attrazione delle droghe, intese quale mezzo di espansione
delle percezioni, della capacità creativa,
dell’ispirazione persino, ripercorrendo un cammino che veniva
da lontano nell’arte e nella letteratura moderna.
Si
trattava delle prime droghe leggere e dell’acido lisergico,
Lsd, troppo in voga per starne al riparo dato lo spaccato sociale che
frequentavano, la dorata gioventù britannica off
del tempo, immortalata dal film italiano Blow Up
(2011) di Michelangelo Antonioni (Pettinato, 1997).
Il 1966 si
aprì con una tournée internazionale, che i
Beatles furono costretti ad onorare solo per motivi contrattuali in
Giappone e nelle Filippine. Non valeva proprio la pena ascoltare i
Beatles in quegli ultimi mesi di concerti, quando la loro
capacità di tenere il palco aveva raggiunto i livelli
più bassi. Il repertorio comprendeva solo undici canzoni,
eseguite in modo scadente, stonate e fuori tempo.
L’unica
visita dei Beatles in Giappone provocò comunque un vero
scompiglio. Le forze di polizia giapponesi, preoccupate di garantire
l’incolumità del complesso, adottarono misure di
sicurezza persino eccessive, tanto che i Beatles si ritrovarono reclusi
all’hotel Hilton di Tokyo, dal momento
dell’arrivo fino alla partenza. Vennero anche malmenati da un
gruppo di agenti antisommossa, che, paradossalmente era intervenuto per
prevenire gli eccessi dei fan.
I quattro si allontanavano solo
per fulminei spostamenti tra l’albergo e la sala dei concerti
(Nippon Budokan), scortati da cortei di auto. La direzione
dell’albergo li sistemò negli appartamenti
presidenziali del diciottesimo piano, fermando al diciassettesimo tutti
gli ascensori, le cui entrate venivano sorvegliate da guardie armate,
mentre la polizia piantonava tutte le altre stanze. Fu aperto un bazar
all’interno delle ventiquattro stanze occupate dai Beatles,
al fine di permettere loro di acquistare radio, macchine fotografiche e
occorrenti per dipingere. Nelle Filippine, i Beatles si imbatterono in
un incidente diplomatico che lì lasciò alquanto
scossi. Imelda Marcos, moglie del presidente, si era dichiarata
ammiratrice dei Beatles e aveva organizzato uno speciale garden
party a Malacanang, la fortezza presidenziale, con
l’esplicito scopo di presentarli al marito e ai trecento
figli, accuratamente selezionati, di uomini politici e soldati.
Brian
Epstein, non sapendo dei preparativi e dell’entità
della festa che si stava preparando in onore dei suoi pupilli, non vide
nessuna necessità particolare di intervenire. La mattina
dopo il Manila Sunday Times titolò:
“I Beatles snobbano il Presidente!” (Calvisi e
Caserza, 1997). Le conseguenze furono serie, nel Paese retto dal regime
dittatoriale di Marcos. Gli organizzatori del concerto espressero la
loro solidarietà rifiutando di pagare a Epstein il compenso
pattuito. Altri cittadini telefonarono, invece,
all’ambasciata britannica, minacciandoli di morte.
Profondamente
turbato Epstein fece del suo meglio per fare ammenda. Chiese di
comparire alla televisione la sera seguente per spiegare che non
intendevano snobbare nessuno. La trasmissione fu boicottata. La
partenza dell’aeroporto di Manila avvenne in un clima di
intimidazione inimmaginabile. Privata dalla protezione della polizia,
la comitiva dei Beatles si diresse a tutta velocità verso
l’aereo, passando in mezzo a funzionari della dogana che li
schernivano; furono tutti presi non solo a spintoni ma anche a pugni e
calci. Il volo per Nuova Dehli decollò dopo lunghe
trattative fra Epstein e un funzionario del fisco delle Filippine che
rifiutava di lasciarli partire se non avessero versato settemila
dollari (Norman, 1981).
Quella che avrebbe dovuto essere una pausa di tutto riposo a
Nuova Dehli, dopo le Filippine, fu quasi del tutto rovinata (strano a
dirsi!) da vaste folle urlanti di fan indiani. I Beatles erano quindi
ormai avviati verso il limite della sopportazione. A un cronista che
gli chiese i programmi per i mesi successivi, George Harrison rispose:
“Ci riposeremo per due settimane prima di andare a farci
picchiare dagli americani”. In effetti, e sembra incredibile,
le parole di Harrison si sarebbero rivelate profetiche.
L’ultimo tour della band cominciò sotto pessimi
auspici.
Il 1966 fu così un anno particolare.
L’Inghilterra non aveva molte ragioni per essere ottimista.
Quell’anno, di cui era appena superata la metà,
poteva già annoverare i vari tormenti di
un’elezione generale e di uno sciopero nazionale dei
trasporti. La sterlina era debole. L’inflazione continuava a
crescere. Il rieletto governo Wilson non dimostrò di essere
dinamico o teso verso una meta, ma portò semplicemente alla
ribalta una serie di uomini politici di dubbia
moralità.
Molta attenzione veniva
attribuita ai fatti americani. Il bombardamento delle città
nord vietnamite di Hanoi e Haiphong, fece sì che una guerra,
fino a quel momento vaga e lontana, cessò di svolgersi
“altrove”. Nonostante ciò ci furono due
fatti che contribuirono non poco a diffondere un certo senso di
serenità. Il 30 luglio l’Inghilterra vinse la
coppa del mondo di calcio, segnando audacemente il gol decisivo negli
ultimi secondi della finale contro la Germania. Vecchie
animosità del tempo di guerra alimentarono indubbiamente il
calore con cui la squadra vittoriosa fu accolta a Londra. Adesso i
calciatori assomigliavano a cantanti pop, si
facevano crescere i capelli, portavano vestiti
“all’ultima moda” e ricevevano le lodi di
grandi uomini, come Wilson appunto.
La seconda e
più consistente ragione di allegria, doveva la sua origine a
un articolo del 13 aprile sulla rivista Time.
Com’era suo stile, Time si era accorta
finalmente del fenomeno della Swinging London, che
dal suo apogeo alla metà del 1965 era declinato fino a
scomparire quasi del tutto. Ma Time, grazie ai suoi
“eserciti” redazionali riuscì a farlo
rivivere. Il servizio di Time, cui fecero seguito
saggi fotografici ancora più ricchi di fascino pubblicati da
Life e dal Saturday Evening Post,
creò un boom turistico senza precedenti nella storia di
Londra. Un gran numero di teen-ager, esaltati da tutta la musica pop
inglese calavano su Carnaby Street e King’s Road con la
speranza di vedere, sia pure di sfuggita, i loro idoli, così
come Life ed Esquire avevano
promesso. Tale era la domanda, che per forza di cose
l’offerta non poteva non materializzarsi. In quello stesso
contesto di fermento culturale, i Beatles presentarono il nuovo album Revolver
del quale, ancora prima dell’uscita, erano già
state prenotate un milione di copie. I Quattro si fermarono ad
osservare con curiosità il nuovo periodo. Godevano di
un’adorazione e di un seguito non comuni. Nessuno
però poteva supporre che il fatto di essere ricchi, di avere
automobili, domestici e quant’altro, li potesse portare a uno
stato che non fosse di inimmaginabile felicità.
Avevano
provato tutto, fatto tutto, avuto tutto in sovrabbondanza ed ora era
divenuta forte la volontà di uscire dal Beatles
Concept, dalla Cosa Beatles. Ciascuno di
loro, nell’adorazione collettiva, si sentiva trascurato come
individuo, era venuto il momento che ognuno di loro sperimentasse la
realtà di un’esistenza indipendente (ibidem).
John
Lennon aveva rilasciato a Maureen Cleave, dell’Evening
Standard, un’intervista in cui si diceva convinto
che il cristianesimo era destinato a sparire, avvalorando la sua
opinione con parole divenute celebri: “In questo momento noi
siamo più popolari di Gesù”. Nel
contesto dell’articolo firmato da Cleave la frase non aveva
molta rilevanza. Ma il 29 luglio, quando la rivista americana DateBook
riprese l’intervista, intitolandola con la frase attribuita a
John Lennon “Non so se finirà prima il rock and
roll o il cristianesimo”, lo scandalo negli Stati Uniti fu
enorme (Giuliano, 1994).
Molte radio locali si rifiutarono di
programmare la musica del complesso inglese, alcune organizzazioni,
soprattutto a Nashville, organizzarono pubblici falò, in cui
si sarebbe bruciato tutto il Beatle-material,
dischi compresi. Incoraggiati dal clero (Schaumburg, 1976), dai Grandi
Maghi del Ku Klux Klan furono organizzati vari altri falò in
Alabama, Texas e Georgia. Una comunità indignata
creò dei bidoni per rifiuti con l’etichetta
“Place Beatle Trash Here”.
Ci furono le
scuse pubbliche sia di Epstein sia di John Lennon che ebbe modo di dire
in conferenza stampa: “Io non sono anti-Dio, anti-Cristo,
anti-religione. Non avevo nessuna intenzione di fare delle critiche.
Non volevo sostenere che noi eravamo i più grandi o i
migliori”.
Così incominciò la tournée
destinata ad essere la peggiore di tutte e, anche se non ufficialmente,
l’ultima. Tutti e quattro i Beatles si resero conto, per la
prima volta, di una minaccia che preoccupava Epstein da quando erano
iniziate le tournée americane, la minaccia cioè
che prima o poi in qualche grande stadio qualcuno avesse potuto
colpirli coperto dal frastuono generale. In ogni grande stadio, mentre
suonavano, i Beatles si sentivano messi in pericolo da qualcosa di
diverso dalla rischiosa adorazione. A Memphis, durante il loro primo
concerto nel sud degli States, il timore dietro le quinte
diventò palpabile. Alcuni giorni prima di questo concerto i
Beatles ricevettero una telefonata anonima che annunciava
l’assassinio di uno di loro. Fuori dall’arena, il
Ku Klux Klan stava tenendo una dimostrazione contro di loro alla quale
partecipavano ottomila persone. Sul palcoscenico iniziarono a essere
lanciati rifiuti di ogni genere. A metà del concerto esplose
un petardo in mezzo al palco che gettò nel panico i quattro
ragazzi che credevano che uno di loro fosse stato colpito.
Così, in equilibrio precario, si giunse al 29 agosto 1966,
quando John, Paul, George e Ringo suonarono insieme per
l’ultima volta in pubblico. Teatro dell’addio alle
platee fu il Candlestick Park di San Francisco, California. John
fotografò se stesso e i suoi compagni tra un brano e
l’altro, così come fece Paul, che pensò
anche di registrare su cassetta lo show. Lo spettacolo venne ripreso da
duecento metri circa perché a tale distanza erano sistemate
le prime file, in una performance che la stampa
definì un “puppet show” (Lefcowitz,
1987).
George Harrison, durante il volo di ritorno
in Europa (la notte tra il 30 e il 31 agosto), a modo suo
consegnò alla storia la stagione “on the
road” dei Fab Four dicendo:
“Ecco qui! Non sono più un Beatle”
(Calvisi e Caserza, 1997).
Il 1967 segnò in modo
netto il destino della band. Il 27 agosto morì il loro
manager e amico Brian Epstein all’età di trentadue
anni per un’ingestione accidentale di una massiccia dose di
farmaci. La notizia gettò nello sconforto la band che per la
prima volta si era allontanata da Londra senza di lui. La morte di
Brian non spezzò soltanto un profondo vincolo. Da quel
momento il sodalizio tra i musicisti era destinato a
incrinarsi.
Nel 1968 le “divergenze
personali, commerciali, musicali” – di cui
parlerà Paul McCartney nell’autointervista apparsa
nel suo primo album solista (McCartney, 1970) – si
manifestarono compiutamente.
Le cause dello scioglimento dei
Beatles sono uno degli argomenti più dibattuti nella
storiografia dei Fab Four. Si potrebbe parlare
della crescente invadenza di Yoko Ono nella vita di John Lennon e
quindi del gruppo. Ancora potremmo parlare del delirio di onnipotenza
di Paul McCartney che si mise in testa di assumere il ruolo di leader e
manager della band. Ma in realtà il processo di
disgregazione cominciò proprio con la morte di Epstein. Fu
lui a fare emergere dal Cavern Club quattro rockers
ventenni, sboccati e acerbi, e a formarli. Con la scomparsa del
“quinto Beatles” il gruppo si trovò a
dover affrontare una realtà più grande di loro,
soprattutto sotto l’aspetto decisionale (Calvisi e Caserza,
1997). Ma sono le testimonianze rese
nell’autobiografia pubblicata in Italia
nell’ottobre 2000 a chiarire definitivamente e meglio di ogni
altra biografia passata, le impressioni dei Beatles sui Beatles, a
riguardo della definitiva rottura del Beatles Concept.
Così George Harrison: “Non ricordo. John diceva che voleva sciogliere i Beatles. Non ricordo dove l’ho saputo. Tutti avevano cercato di andarsene, quindi non era niente di nuovo. I Beatles erano partiti come qualcosa che ci ha dato la possibilità di fare tanto quando eravamo giovani, ma eravamo giunti a un punto in cui stavamo soffocando. C’erano troppe limitazioni. Bisognava autodistruggersi, e non mi dispiaceva se qualcuno voleva andarsene, perché volevo farlo anch’io […]. La mia sensazione, quando ognuno ha preso la propria strada, è stata quella di godermi lo spazio che questa scelta mi dava, lo spazio per poter pensare con i miei tempi e avere dei miei musicisti in studio che mi avrebbero accompagnato nelle mie canzoni. Sembra strano, perché alla maggior parte della gente piacerebbe stare con i Beatles, o almeno, a quei tempi sembrava una cosa bellissima farne parte. E lo era. Ma è stata anche una gran cosa venirne fuori, un po’ come quando te ne vai da casa e voli con le tue ali […]. Dovevamo venirne fuori. Stavamo stretti. Eravamo più grandi dei Beatles: noi quattro, individualmente, eravamo più grandi del gruppo”.
John Lennon:“La mia vita con i Beatles era diventata una trappola, un circuito chiuso. […] Avevo persino fatto un film senza gli altri, ma era stata più una reazione al fatto che i Beatles avevano deciso di non fare più tournée che una cosa fatta con in testa la mia indipendenza, anche se, già allora, il mio obiettivo era la libertà”.
Ringo Starr:“Loro sono diventati gli amici più intimi che abbia mai avuto. Ci prendevamo cura l’uno dell’altro e ci facevamo un mucchio di risate. Ai vecchi tempi ci davano delle enormi suite negli alberghi, un piano intero, e noi quattro finivamo nello stesso bagno solo per il piacere di stare insieme. Perché eravamo sempre sotto pressione. C’era sempre qualcuno che voleva qualcosa: un’intervista, un ciao, un autografo, essere visto con noi, qualsiasi cosa. Eravamo gli unici ad aver fatto l’esperienza di essere i Beatles: nessun altro sa che cosa significhi. Anche oggi, quando noi tre ci troviamo, Paul e George sono gli unici che mi guardano per quello che sono, non pensando: lui è questo ed è un Beatle. Tutti gli altri lo fanno” (AA. VV., 2000).
LETTURE
— AA.VV., Anthology, Rizzoli, Milano, 2000.
— Calvisi Angelo e Caserza Guido, Amavamo i Beatles o i Rolling Stones?, Theoria, Roma, 1997.
— Giuliano Geoffrey, Giuliano Brenda, The lost Beatles interviews, Virgin Books, Londra, 1994.
— Hoffman Dezo, The Beatles conquer America, Virgin, Londra, 1984.
— Kogler Ilse, L’anelito verso il Più. Musica rock, gioventù e religione, S.E.I., Torino, 1995.
— Lefcowitz Eric, Tomorrow never knows. The Beatles last concert, Terrafirma Books, San Francisco, 1987.
— Lewisohn Mark, The complete Beatles chronicle, Pyramid Books, Londra, 1992.
— Lewisohn Mark, Strawberry Fields, Firenze, Giunti, 1995.
— Mandel William, John Lennon. Pace, Amore e musica, Blues Brothers, Milano, 1996.
— Mellers Wilfrid, Twilight of the Gods, The Beatles in retrospect, Faber & Faber, Londra, 1976.
— Norman Philip, Shout! La vera storia dei Beatles, Mondadori, Milano, 1981.
— Perniola Mario, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino, 1996.
— Pettinato Salvatore, Nel nome dei Beatles, Rusconi, Milano, 1997.
— Scaduto Anthony, The Beatles, Signet Books, New York, 1968.
— Schaumburg Ron, Growing up with The Beatles, Perigee Book, New York, 1976.
— Schaffner Nicholas, The Beatles forever, The McGraw-Hill Book Company, New York, 1978.
— Wenner Jann S., Lennon remembers, Straight Arrow, New York, 1971.
VISIONI
— Antonioni Michelangelo, Blow up, Warner Home Video, 2011.
— Lester Richard, Help!, Emi, 2007.
— Parascandolo Renato, La storia siamo noi, Teche Rai.
— Zemeckis Robert, I Wanna Hold Your Hand, Universal Studios, 2004.