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La morte degli idoli è il compimento della loro gloria. Se poi si ostinano a restare in vita, allora verranno uccisi a suon di indizi. È il caso di Paul McCartney, il primo dei Fab Four a essere deceduto ma, nel suo caso senza che ve ne sia prova certa. La leggenda è nota come PID, ovvero Paul Is Dead. La presunta morte di McCartney resiste da oltre quarant’anni, da quando un disk jockey di una radio di Detroit, Russell Gibb, annunciò di essere certo dell’accaduto. Le cose stanno così: Paul sarebbe deceduto in un incidente automobilistico nei primi giorni del novembre 1966 (probabilmente il 9) e da allora sarebbe stato rimpiazzato da un sosia, un certo William Campbell. Tutto sarebbe stato celato ad arte, ma le prove esisterebbero, eccome. Centinaia e centinaia e continuano ad aumentare. Giusto qualche indizio: “Nella foto interna di Sgt. Pepper’s sulla giacca di Paul compare un distintivo con la scritta OPD che sta per «Officialy Pronounced Dead » (dichiarato ufficialmente morto). Sul retro, invece, Paul è ripreso di spalle, quasi a indicare la sua assenza.
Sulla copertina di Magical Mistery Tour appare una figura con la maschera scura, da tricheco, in una postura che rimanda alla crocifissione: si tratta di Apul e in alcune culture il tricheco è simbolo di morte. Ma è tutta la canzone I’m The Walrus che risulterebbe fitta di riferimenti. Quello più clamoroso giunge negli ultimi secondi del brano dove i coretti di costruzione onomatopeica, sentiti alla rovescia, farebbero intendere una specie di litania: «Paul is dead, Paul is dead» (Paul è morto, Paul è morto). Carica di simboli anche la foto di Abbey Road in cui Paul è a piedi scalzi, occhi chiusi, con il passo diverso dagli altri, raffigurazione ideale di una processione funebre” (Buttafava e Gentile, 2007).
Solo per restare in Italia, poi, negli ultimi anni si segnala la pubblicazione del libro Il caso del doppio Beatle – Il dossier completo sulla “morte” di Paul McCartney, di Glauco Cartocci (2005) e l’uscita, nel 2009, di un dossier su Wired Italia a cura di Fabio Andriola e Alessandra Gigante, una coppia di curatori di documentari storici per la Tv. I due coinvolgono Gabriella Carlesi, anatomopatologa, e Francesco Gavazzeni, informatico, sottoponendo loro del materiale fotografico dal quale sarebbe possibile dimostrare scientificamente, che il Paul McCartney del 1966 e il Paul McCartney del 1967 sono due persone diverse.
Infine, a inizio 2012, Carlo Lucarelli ha dedicato una puntata del suo mockumentary, Almost true, alla faccenda, proponendo una variante: la morte presunta di Paul, non sarebbe avvenuta a causa di un incidente automobilistico, ma il decesso sarebbe dovuto a soffocamento (per via di un salatino!!!).

 

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Ma se McCartney è vivo e vegeto, salvo inconfutabile prova contraria, George Harrison davvero non è più tra noi. Inesorabile, un cancro ha posto fine alla sua esistenza il 29 novembre 2001. 
Circa due anni prima, però, il 30 novembre 1999, qualcun altro aveva tentato di eliminare il più giovane degli ex Beatles: Michael Abram, nato a Liverpool (si noti) e all’epoca trentatreenne. Il tentato omicidio di Harrison è il secondo anello della catena di morte e di esaltazione che circonda i Fab Four anche a decenni di distanza dal loro scioglimento, potente rumore di fondo di quel gigantesco Big Bang scatenato dalla loro irruzione sulla scena. L’attentato fallì e in seguito Abram venne assolto per incapacità di intendere e di volere, ma l’episodio possiede un che di tragico comunque. I fatti in breve. Abram si introdusse nella villa di Harrison a Henley on Thames, nella contea di Oxford.
Harrison, allora cinquantaseienne, riportò una coltellata al torace. Con lui c’era la moglie Olivia Arias, colpita alla testa. Entrambi vennero ricoverati al Royal Berkshire Hospital, nei pressi di Reading. Dalle prime informazioni giunte il giorno successivo all’aggressione, risultò che Harrison e la moglie fossero riusciti ad immobilizzare l’aggressore e a tenerlo sotto controllo fino all’arrivo della polizia. Anche Abram, rimasto ferito nella colluttazione, venne ricoverato in ospedale e una volta dimesso affidato alla custodia della polizia. Perché Abrams cercò di uccidere Harrison?
Abram era ossessionato dai Beatles e li considerava tutti e quattro stregoni dediti alla magia nera. A detta dello stesso Abram, che da dieci anni almeno soffriva di una grave forma di schizofrenia paranoide, a spingerlo fu Dio stesso. 
Si considerava infatti l’incarnazione dell’arcangelo Michele, inviato in missione sulla Terra proprio per eliminare Harrison, da lui definito un “extraterrestre venuto dall’Inferno” per compiere il Male; anzi, per meglio dire, la “minaccia fantasma”, misteriosa entità demoniaca citata nelle profezie di Nostradamus. 
Inoltre, era convinto che la sua intera esistenza fosse preordinata a condurlo a una sorta di confronto finale proprio con il chitarrista solista del quartetto di Liverpool, “uno stregone” che immaginava addirittura volare sulla classica scopa. 

 

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La grande tragedia in effetti era già avvenuta circa vent’anni prima. L’eroe che venne immolato fu John Lennon, l’autore del rito sanguinario si chiamava Mark David Chapman. L’uccisione di John Lennon è l’apogeo ma anche il crollo della Beatlemania, ed  esige una ricostruzione più documentata.
Mark David Chapman, nasce a Fort Worth, Texas, nel 1955. Conosce i Beatles a nove anni, quando suonano per la prima volta negli Stati Uniti. Da questo momento John Lennon diventa il suo eroe: si fa crescere i capelli come lui e impara a suonare la chitarra. Chapman, un classico killer nerd, l’ego nano che avrebbe pagato qualsiasi prezzo per la notorietà, non appena fu incarcerato ad Attica, dopo l’otto dicembre dell’Ottanta, giorno dell’omicidio di John Lennon, cominciò a prendere accordi per libri, film e interviste (Viaggi, 1989).
La cosa più straordinaria di Chapman non era la sua personalità ma il modo in cui l’aveva tenuta nascosta fino all’età di venticinque anni. Secondo i test psicologici standard, era estremamente pervaso da un senso di ostilità, tuttavia fino all’anno in cui assassinò Lennon, non diede mai segni di quella rabbia che covava in lui fin da bambino. “Mark era un ragazzo che non sapeva cosa fosse l’odio, raccontò uno dei suoi ex datori di lavoro alla Ymca, nei cui campi Chapman lavorò per anni come apprezzato collaboratore” (Coleman, 1989). Chapman non era solo impegnato a difendere la gioventù, era anche un fervente cristiano, che aveva rinunciato allo stile di vita hippy (incluso l’uso di anfetamine, barbiturici, marijuana e Lsd) già all’età di diciassette anni, quando si avvicinò per la prima volta alla vita di cristiano modello. Andò in giro per un anno con una Bibbia sottobraccio cercando di convertire la gente. Poi prese a fantasticare di fare il missionario in terre lontane.
Non c’è da meravigliarsi se gli amici, i colleghi e la famiglia Chapman rimasero sconcertati quando appresero del suo crimine. Come poteva Mark Chapman avere commesso il terribile peccato di uccidere?
Il responso che diedero nove tra psichiatri e psicologi fu che Chapman soffriva di narcisismo patologico, caratterizzato da “un grandioso senso di autoimportanza, da fantasie di successo, di potere, di amore ideale, da indifferenza per i sentimenti altrui, da un bisogno costante d’attenzione e ammirazione, da sentimenti di rabbia, vergogna, umiliazione e inferiorità, in risposta alle critiche è convinto di aver diritto a speciali privilegi” più “una tendenza a gesta suicide manipolate” (Goldman, 1991). Nonostante la causa dell’omicidio fosse la notorietà immediata, quest’ambizione non esaurisce la lista di incentivi di Chapman. 

 

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Un altro fattore molto importante nel processo che ha portato Chapman a scegliere, avvicinare e uccidere John Lennon era la profonda identificazione che lo legava alla figura di Holden Caufield (Salinger, 2004). Dopo aver ammazzato Lennon, Chapman posò la pistola e prese in mano una copia de Il giovane Holden. Prese a leggere tranquillamente davanti all’ingresso del Dakota Building, come un giovane missionario che legge la Bibbia in attesa del martirio.
Goldman asserisce: “Come Tommaso da Kempis aveva intitolato la sua opera religiosa Imitazione di Cristo, Chapman avrebbe potuto intitolare la sua autobiografia “Imitazione di Holden”, tante erano le similitudini che aveva trovato tra la sua vita e quella di Holden da quando, a diciotto anni, aveva scoperto quel famoso libro” (Goldman, 1991). A prima vista il parallelismo tra quell’immaginario wasp e Chapman (figlio di un sergente dell’esercito e di un ex infermiera) non è così evidente. Ma se ci si concentra sull’essenza delle due personalità e sugli episodi salienti delle loro biografie, si arriva presto a capire perché Il giovane Holden era diventato la Bibbia di Chapman.
Holden e Mark sono entrambi ai poli critici dell’amore (per i bambini e per l’idea del mondo dei bambini) e dell’odio (per tutto il mondo degli adulti, specialmente per quelli famosi e importanti che Holden ama eliminare con la sua parola killer: “Falsi!”).
Fu per portare a compimento una “missione di estrema importanza” che Chapman, arrivato a considerarsi come “l’Holden della sua generazione”, decise di uccidere Lennon, simbolo dei falsi profeti del mondo, e promuovere la lettura del Giovane Holden, “lo straordinario libro che contiene tante risposte” (Viaggi, 1989).
L’input finale ai pensieri distorti di Chapman lo diede la sua primitiva convinzione manichea che il mondo fosse il campo di battaglia per le forze del bene e del male, una convinzione che in lui era vivida in modo terrificante perché credeva che il suo cervello ricevesse ordini da Dio e dal maligno. Gli ordini allucinatori ebbero un’importanza preminente sia nell’uccisione di Lennon (“La mia mente continuava a dirmi «Fallo! Fallo!»”) sia nella decisione di dichiararsi colpevole (“Dio mi ha visitato in carcere e mi ha detto con voce bassa e virile di dichiararmi colpevole”). Per la stessa ragione, Chapman sapeva che non sarebbe mai stato capace di compiere la sua missione, così, alla vigilia del crimine, pregò Satana affinché gli facesse avere la mano ferma e permettendogli di uccidere quello che lui considerava l’Anticristo.
La vita di Chapman fu sicuramente segnata dalla sua famiglia, dalla quale si allontanò sin da piccolo e dalla quale non ebbe alcun aiuto. L’unica persona che gli offrì un po’ d’aiuto fu Dana Reeves, che stava cominciano la carriera nella polizia. Consigliò Chapman di diventare una guardia di sicurezza, un lavoro che non comportava altro che un breve corso e un po’ d’esercitazione con la pistola, cosa in cui Chapman si mostrò molto portato. Andare in giro con la pistola era un ben misero surrogato alla protezione dei bimbi innocenti, il compito principale del giovane Holden, così Chapman fece un ultimo tentativo al college. Fallì di nuovo. Provò una tale umiliazione che la sua unica consolazione fu il pensiero del suicidio. Prima di morire, comunque, voleva soddisfare un ultimo agognato desiderio: visitare le Hawaii, che gli avevano descritto come un paradiso terrestre. Dopo sei mesi alle Hawaii, nel giugno 1977, Chapman cercò di suicidarsi con i gas di scarico della sua auto. Fallì, come aveva fallito in tante altre cose. Finì in ospedale dove, per due settimane, fu tenuto in cura per “una grave forma di depressione nervosa”. Quando fu dimesso e diventò un paziente esterno, si aggrappò all’istituto ottenendo un lavoro come inserviente e svolgendo altre mansioni di volontariato nell’unità psichiatrica. Poi, improvvisamente, decise di compiere un viaggio intorno al mondo della durata di tre mesi, aiutato da una ragazza giapponese, Gloria Abe, che lavorava nell’agenzia viaggi Waters World. Nel corso del viaggio, a Tokyo, incrociò Lennon e Yoko Ono. Gloria Abe e Chapman erano sicuramente una strana coppia: lui era di quattro anni più giovane di lei, un sudista devoto di Gesù; lei era figlia di un facoltoso fornaio giapponese, buddista e seguace di tarocchi, dell’astrologia e dell’occulto. Dopo che i due si furono sposati, Chapman cominciò a mettere in mostra una nuova personalità. L’ossequioso inserviente d’ospedale diventò autoritario e aggressivo e rese la vita di sua moglie un inferno di assurde richieste e restrizioni. Si mise inoltre a sperperare i soldi della moglie collezionando pezzi d’arte, tra cui un’incisione d’oro di Salvador Dalì, la Lincoln in Dalivision, che rappresentava l’assassinio di Lincoln sovrapposto alla crocifissione di Cristo. Il commerciante che aveva il pezzo in esposizione raccontò che Chapman stava sempre da lui a parlare di assassinii e crocifissioni, temi che avevano assunto la stessa valenza nella sua testa così come l’avevano assunta nella testa di John Lennon. Nel dicembre 1979, non avendo ottenuto promozioni, Chapman lasciò il suo lavoro all’ospedale e tornò a lavorare come guardia di sicurezza, ma stavolta senza pistola. Questo passo all’indietro fu accompagnato da una serie di comportamenti inusuali. Un conoscente di Chapman lo descrisse a quell’epoca come “un tipo sgradevole, negativo, freddo”. Un ministro della chiesa di Scientology, che stava sul marciapiede opposto a dove lavorava Chapman, definì la giovane guardia come “un tipico caso di ostilità nascosta”. “Camminava avanti e indietro di fronte al nostro edificio, prendendo a calci i sassi e borbottando minacce. Per tre mesi ricevemmo anche quaranta telefonate minatorie al giorno. Una voce bisbigliava «Bang, bang, siete morti!»”. Chapman confessò in seguito di essere l’autore di quelle telefonate (Goldman, 1991). Il 17 ottobre, dopo aver letto su Esquire un articolo su John Lennon, il futuro killer iniziò a lamentarsi del fatto che questi fosse una persona falsa, che predicasse sempre l’amore e la pace vivendo, invece, da miliardario.

Chapman sicuramente pensava di uccidere Lennon già prima di leggere l’articolo su Esquire (Bresler, 1989), questo gli servì solo a confermare la sua determinazione, fornendogli una motivazione ancora più forte per liberare il mondo da quell’Anticristo, simbolo di ipocrisia e falsità. L’annuncio dell’imminente uscita dell’album di Lennon-Ono, Double Fantasy, deve aver contribuito a motivarlo ulteriormente: era il segnale che il corruttore della gioventù era nuovamente in procinto di corrompere i giovani, proprio come aveva fatto in passato quando aveva detto che i Beatles erano più famosi di Gesù.

 

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Nonostante Chapman avesse pensato all’ipotesi di uccidere altre celebrità, tra cui Ronald Regan, Elizabeth Taylor, David Bowie ed altri (oltre a suo padre), una volta fissatosi su Lennon, si mosse con prontezza. Tentò una prima volta, ma il progetto, per vari motivi, fallì. L’undici novembre chiamò Gloria Abe e le annunciò che andare a New York era stato uno sbaglio. Per la prima volta le svelò che era andato in città per uccidere John Lennon ma che il suo amore per lei l’aveva fermato. “Ho riportato una grande vittoria” dichiarò. “Torno a casa”.
Ma dopo qualche tempo si recò di nuovo a New York, fece un lungo appostamento davanti al Dakota, durante il quale pregò alternativamente Dio e il diavolo: l’uno per la salvezza dalla tentazione del crimine, l’altro per avere la forza di commettere la sua missione. Ora, nel momento critico sentì una voce che gli disse: “Fallo… fallo… fallo”. Estrasse la pistola e uccise con cinque colpi, davanti agli occhi di Yoko Ono e del portiere dello stabile, John Lennon (Goldman, 1991). 
Dopo l’arresto, Chapman, in un’intervista rilasciata al New York Times (11 dicembre 1980), dichiarò: “Most of me didn’t want to do it, but a little of me did. I couldn’t help my self”. In un articolo del 23 giugno del 1981, ancora del New York Times, compaiono le seguenti dichiarazioni: “Asked in the court why he used hollow bullets Chapman replied, - To ensure Lennon’s death”. Nove anni dopo l’omicidio, Mark David Chapman ha raccontato alla stampa le motivazioni che l’hanno spinto ad uccidere Lennon. In Italia, l’intervista è stata pubblicata in esclusiva dal mensile Max (Jones, 1991). Ecco, di seguito, le dichiarazioni salienti di questa intervista.

Perché quindi ha ucciso John Lennon?

Sentivo di doverlo uccidere per le cose che io avevo permesso di diventare ripugnanti in me. Io non lo consideravo più come una persona, un essere umano, ma come la causa che creava così tanti problemi a me stesso. Io ho proiettato i miei problemi sull’immagine elettronica di Lennon, perché non avevo il coraggio di risolverli. Ero sinceramente furioso con lui, non inventavo la rabbia e l’odio che mi arrivavano da dentro. L’uccisione è stata una valvola di scarico per le mie paure, le mie insicurezze e i miei fallimenti. Io ho proiettato tutte queste cose su di lui e ucciderlo fu come una specie di suicidio… ho scelto di autodistruggermi, trascinando anche un altro uomo in questo processo di autodistruzione.

Che cos’è, se c’è stato, che ha incanalato la tua rabbia verso Lennon?

È stato quando non ho più accettato il fallimento della mia vita. Mi ricordo che ero in biblioteca ad Honolulu: mi sono imbattuto in un libro di Lennon e ho cominciato a leggerlo. Mi è sembrato subito terribilmente ipocrita e sleale. Viveva nel lusso e non considerava minimamente coloro che soffrono e quelli che vivono in povertà. Cominciai ad ascoltare con attenzione tutti i dischi dei Beatles e gli album solistici di Lennon. Mi annotavo tutte le parole; poi registrati i suoi brani, sovrapposi i miei urli e le mie poesie alla sua musica. Una sera, a casa da solo, mi spogliai completamente e, nudo, cominciai a pregare Satana di darmi la forza di uccidere Lennon. E intanto cantavo “John Lennon è un ipocrita, John Lennon deve morire” sulla musica di God e di Strawberry Fields Forever.

In passato hai parlato di un gruppo di omuncoli nella tua testa che hanno sempre organizzato la tua vita e preso decisioni al tuo posto sin dall’infanzia. Sono stati coinvolti anche nell’uccisione di Lennon, questi omuncoli?

Gli omuncoli sono stati l’unica forma di raziocinio che ho avuto all’interno della mia mente schizofrenica. Quando scoprirono che cosa avevo in testa ne furono terrorizzati e mi abbandonarono.

Com’erano questi omuncoli?

Erano proprio come dei nanetti. Mi chiamavano ed io li raggiungevo nella loro sala riunioni, parlavo con loro e mi davano consigli su come gestire le mie finanze, o avvertirmi su una persona che frequentavo troppo […]. Quando il tuo mondo interiore è fuori dal tuo controllo, cerchi di fare tutto quello che puoi per mettere ordine nel tuo mondo: ebbene gli omuncoli erano i miei aiutanti, erano l’ultima risorsa per la mia salute mentale […].

Perché proprio John Lennon?

Sono cresciuto con i Beatles fin da quando avevo dieci anni, li amavo forsennatamente: nei momenti difficili della mia vita sono sempre stati un grande conforto per me […]. Mi hanno sempre affascinato l’idealismo e le verità espresse da Lennon, mi sono sempre abbeverato ad esse e quando sono arrivato al punto in cui la mia vita stava crollando, ho cercato di afferrarlo e portarlo giù con me […].

Nel gennaio 2000 Yoko Ono ha inviato un audiomessaggio, il cui testo è stato pubblicato su Musica!, alla divisione dello Stato di New York per la Libertà sulla Parola, con riferimento alla proposta di scarcerazione di Chapman, dal quale traiamo i passi più significativi: “Mio marito era un uomo molto speciale. Uomo di umili origini, ha portato luce e speranza al mondo intero con le sue parole e la sua musica. Ha tentato di essere una forza buona per il mondo, e ci è riuscito. Ha dato incoraggiamento e sogni alla gente, indipendentemente dalla razza, dalla religione o dal genere. Per me e per nostro figlio Sean era il mondo […]. Quel mondo è andato in frantumi quando «il soggetto», ha premuto il grilletto. Con un solo atto di violenza e in pochi secondi, «il soggetto» è riuscito a cambiare tutta la mia vita, a devastare i suoi figli e a portare immenso cordoglio e paura al mondo. […] John sarebbe stato così contento di cambiare la sua posizione con quella del «soggetto» e vivere la vita di protezione di cui il «soggetto» gode oggi. Perfino da recluso a mio marito sarebbe piaciuto ascoltare le voci delle persone che amava, avrebbe provato piacere nel comporre canzoni e apprezzato il semplice volgere delle stagioni. Oggi John non può far nulla di tutto ciò.
Se oggi venisse rilasciato sarebbe come dare un segnale di «via libera» a chiunque volesse seguire le orme del «soggetto» per ricevere le attenzioni del mondo. Temo che riporterebbe nuovamente, l’incubo, il caos e la confusione. Io e i due figli di John non ci sentiremmo più al sicuro per il resto delle nostre vite […]. Infine non sarebbe più sicuro per lo stesso «soggetto». Non avrebbe più la sicurezza garantitagli dallo Stato. Mi pare di capire che sia stato isolato dagli altri prigionieri per timore che gli potesse esser fatto del male. Ebbene, nel mondo esterno ci sono molte più persone che sono fortemente più turbate da ciò che ha fatto. Troverebbero ingiusto che il «soggetto» venisse premiato con una vita normale mentre John ha perso la sua. La violenza genera violenza. Se mai possibile, vorrei che evitassimo di creare una situazione che potrebbe portare ulteriormente follia e tragedia al nostro mondo” (Ono, 2000).
Il 26 ottobre 2000, a una settimana dall’udienza in cui si deciderà della sua libertà provvisoria, Chapman rilascia al tabloid inglese Daily Express, un’intervista raccontando che suo padre non gli aveva mai dimostrato affetto. “Penso che il rapporto con mio padre sia un punto fondamentale in tutta questa vicenda, il fatto per esempio che lui non mi abbia mai parlato della vita e delle difficoltà che questa comporta. Più guardo indietro e più mi rendo conto di non aver mai amato mio padre. Forse uccidendo Lennon cercavo di farlo tornare, senza capire che allo stesso tempo rovinavo la mia vita”. Chapman è convinto di non essere più un pericolo per la società. “Oggi non potrei più fare del male a nessuno. Non potrebbe accadere di nuovo e non accadrà […]. Lennon approverebbe il mio rilascio, penso si mostrerebbe molto liberale al riguardo e penso anche che gli interesserebbero le mie vicende. Voglio dire penso che probabilmente vorrebbe vedermi libero”.
Il testo della sentenza, relativa al processo tenutosi davanti alla New York State Division of Parole il 3 ottobre 2000, così stabilisce:

“La libertà sulla parola viene negata. Lei ha assassinato la vittima, John Lennon, quando ha sparato con la sua 38 special, caricata con proiettili esplosivi. Lei ha colpito il signor Lennon quattro volte. Il signor Lennon stava ritornando presso la sua residenza ed era in compagnia della moglie quando lei commise l’assassinio. Questo atto era stato calcolato e premeditato. Lei aveva progettato questo piano per un lungo periodo e risulta evidente che era ossessionato dall’idea di causare questo crimine. Oltre ad essere una celebrità internazionale, il sig. Lennon era marito e padre di due figli. Durante la sua incarcerazione lei ha mantenuto una condotta esemplare, si metta agli atti che la corte ne ha tenuto debito conto. Questa corte riconosce inoltre che, visto il particolare stato di sorveglianza al quale dovrebbe essere sottoposto, sarebbe incapace di proteggere la sua persona da propositi violenti nei suoi confronti. I suoi atti violenti sono stati palesemente motivati dalla sua smania di egocentrismo. Durante il processo la corte ha notato che lei ha perseverato nell’intento di mantenere la sua notorietà […]. In aggiunta, crediamo fermamente che il suo rilascio sulla parola, comprometterebbe la serietà del crimine commesso e getterebbe discredito sulla legge” (New York State Division of Parole, 2000).

 


 

LETTURE

AA.VV., Bresler Fenton, Who killed John Lennon?, St. Martin’s Press, New York, 1989.
Buttafava Umberto e Gentile Enzo (a cura di) Arrivano i Beatles, Skira, Milano, 2007.
Cartocci Glauco, Il caso del doppio Beatle. Il più completo dossier sulla “morte” di Paul McCartney, Robin, Roma, 2005.
Coleman Ray, John Lennon: un mito, un uomo, Sperling, Milano, 1989.
Goldman Albert, John Lennon, Mondadori, Milano, 1991.
Jones Jack, Perché ho ucciso John Lennon, in Max, anno 7, n.1, gennaio 1991.
New York State division of Parole, The Associated Press, 3 ottobre 2000.
Ono Yoko, Musica!, 19 ottobre 2000.
Salinger Jerome D., Il giovane Holden, Einaudi, Torino, 2004.
Viaggi Angelo, John Lennon, Targa Italiana, Milano, 1989.