Cronache del tempo veloce (Prima parte) - Identità mutanti
di
Adolfo Fattori

 


L’ultimo ventennio del Novecento è l’epoca della maturazione dei vecchi e dei new media: del cellulare e del computer, del walkman, di una televisione che grazie al moltiplicarsi dei canali, al videoregistratore e al telecomando, permettono di essere ovunque e in nessun luogo, tutti e nessuno, rompendo il tradizionale nesso fra identità e unità di luogo e di tempo. Un universo nuovo, inesplorato dagli adulti, difficile da comprendere e da cartografare. In una società che peraltro disorienta anche gli adulti, per i mutamenti e le trasformazioni continue che si producono e che noi stessi non riusciamo a cogliere con tempestività. In una ricerca condotta a metà degli anni 90 a Napoli si prova a verificare proprio questo.

Il lavoro, pubblicato col titolo La memoria consumata,[5] riflette sulla percezione del tempo da parte delle giovani generazioni degli anni 80 – 90.

Si aggiungono anche le considerazioni scaturite da una serie di interviste somministrate a un campione di studenti universitari (avvertono gli autori, almeno in teoria, persone dotate di un grado di cultura medio superiore, e le cui risposte confermano i dati emersi da ricerche più consistenti condotte dallo IARD).

Dalla ricerca emerge come i giovani di allora abbiano perso - in parte o del tutto - il senso dello scorrere del tempo: il futuro non esiste, il passato non è più percepibile...

Tornano in mente le parole scritte da J. Baudrillard in L’illusione della fine: “In un momento imprecisato degli anni Ottanta del XX secolo, la storia ha fatto un’inversione di rotta... E’ la fine della linearità... il futuro non esiste più.”[6] 

E’ come se i giovani di quegli anni vivessero in un eterno presente, come – e questo è inquietante – gli psicotici osservati negli anni 30 da E. Minkowski e da lui descritti in Il tempo vissuto.[7]

Allora mi capitò di scrivere: "È indubbio che i nostri giovani - i nostri figli, i nostri alunni e studenti - vivano un disagio, uno scollamento - almeno questa è la percezione che spesso abbiamo noi adulti, e che è solo confermata dalle ricerche che citavo. Possiamo non darlo per scontato, ma possiamo nello stesso tempo ipotizzarlo e in questo caso provare a immaginarne le cause.  

Possiamo intanto riflettere sulle profonde trasformazioni che hanno investito la struttura della nostra vita quotidiana: l’allargamento delle aree metropolitane, e le modifiche nella destinazioni d’uso dei centri cittadini e metropolitani, che hanno costretto le coppie giovani a cercare casa in provincia e quindi a staccarsi dalle famiglie d’origine; oppure l’aumento dell’occupazione femminile, per cui in molte famiglie lavorano ambedue i genitori; ancora, l’urbanizzazione e il degrado della vita cittadina, che induce a tenere i bambini in casa, e a non farli uscire; il calo delle nascite, e la conseguente riduzione delle dimensioni dei nuclei familiari.

Bambini sempre più soli, sempre più assorbiti, in mancanza di meglio, dall’altro fondamentale elemento del transito verso la società postindustriale: la televisione.

Bambini che percepiscono gli adulti a loro vicini come esseri sempre più distanti, indifferenti, sconosciuti - e che, per forza di cose, finiscono per confondersi con i vari modelli esibiti dai media.

Senza voler assumere posizioni da “apocalittici”, e tanto meno da “integrati”, dobbiamo accettare il fatto di essere di fronte - grazie ai media basati sull’immagine - ad una profonda trasformazione antropologica, che si abbatte sulle strutture della conoscenza: sul nostro modo di esperire il mondo, di concepirlo, di descriverlo".[8]

In questo scritto, e in quelli che lo accompagnavano nel volume, l’attenzione era posta sui bambini e sugli adolescenti di allora. Siamo nel 1997. Si scriveva degli adolescenti e dei giovani adulti di oggi. Quando l’avanzare della tardomodernità e il passaggio all’era postindustriale erano in pieno sviluppo. E la divaricazione fra i gruppi sociali e fra i prevedibili destini era ancora in una dimensione, se si vuole, tradizionale, e riceveva risposte “classiche”.

A riprova di quella lentezza – fisiologica, sia chiaro – di istituzioni e ricerca nel cogliere le trasformazioni degli scenari sociali, specie in tempo di accelerazione del mutamento.

Ma se arriviamo all’oggi, cosa troviamo?

Abbiamo strumenti per decifrare la situazione per così dire “in diretta”, senza aspettare che sia cambiata ancora?

 


[5] A. Cavicchia Scalamonti G. Pecchinenda, La memoria consumata, Ipermedium, Napoli, 1996.

[6] J. Baudrillard, L’illusione della fine, Anabasi, Milano, 1993.

[7] E. Minkowski, Il tempo vissuto, Einaudi, Torino, 1971.

[8] Cfr.: A. Fattori, Il lamento degli innocenti, in G. Armellini, (a cura di), Differenze e scambi fra generazioni come differenze e scambi fra culture, CLUEB, Bologna, 1997. Mi scuso per aver citato me stesso, ma questa diventa anche un’occasione per verificare se – a distanza di anni – certe considerazioni tengano ancora, e quanto siano da attualizzare. Lascio ai lettori questo compito.


 

 

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