Cronache del tempo veloce (Prima parte) - Identità mutanti
di
Adolfo Fattori

 


Proverò a proporre quindi indizi, tracce, stimoli che spero ci permettano di orientarci in questo nuovo mondo nato dallo sviluppo della comunicazione e della connessione, e dalle conseguenze della globalizzazione.

In sostanza, l’insieme dei fenomeni che hanno portato ad indicare la nostra epoca come quella della virtualizzazione del reale, dell’individualizzazione estrema, della deresponsabilizzazione, come effetti dell’espansione delle comunicazioni di massa, della fine dell’economia fondata sulla fabbrica, della crescita degli hinterland metropolitani, di una nuova definizione della mobilità territoriale e sociale.

Tutti fenomeni che si abbattono sulla struttura delle singole identità, che sono sempre frutto della dialettica fra pulsioni e bisogni individuali e influenze della collettività di cui si fa parte.

D’altra parte, il solo fatto che si discuta ancora del problema negli stessi termini di qualche anno fa, è il primo elemento della mia discussione.

Non è mai immediata la comprensione dei fenomeni sociali. Da parte dei singoli, perché, essendone coinvolti, troviamo difficoltà a porci idealmente al di fuori del processo e ad osservarlo dall’esterno per capirne le implicazioni. Da parte delle istituzioni, perché per la loro natura di organismi complessi e articolati, richiedono tempo per spiegarsi le catene di eventi e cercare soluzioni ai problemi.

E quindi, ci troviamo molto spesso ad arrancare dietro il cambiamento e, in epoche di mutamento veloce come la nostra, arriviamo a descriverci e a spiegarci le novità del mondo quando queste già non sono più novità, quando sono già superate.

Succede nella ricerca e nella letteratura politica, come in quella filosofica e sociologica. Costruire teorie non è immediato, né semplice.

Non dovremmo far fatica a ricordare come già negli anni 50 si fece più evidente lo scarto fra la cultura dei giovani e degli adulti di allora. Anzi, possiamo affermare che proprio in quegli anni – a partire dagli Stati Uniti  e dalla diffusione dell’american way of life nell’Occidente sviluppato – nascono i giovani come categoria sociale. Il benessere diffuso, l’imporsi di nuovi valori e nuove opportunità permette la gestione di una vita scolastica più lunga, di una frazione maggiore  di tempo libero, lo sviluppo di una vera e propria cultura giovanile fatta di abbigliamento, di musica, di letture – di consumi, insomma – e di un linguaggio specifici. Nell’incomprensione e nel rifiuto reciproci con gli adulti.

Ma – al di sotto di questi fenomeni, estremamente evidenti – un terreno comune fra le generazioni rimaneva. La memoria collettiva resisteva,in termini di valori, aspettative, modelli, probabilmente garantita dalle attese socialmente condivise di un futuro ricco e positivo, di prospettive ottimistiche e rassicuranti. Lo sviluppo, la promozione sociale, il successo – almeno in Occidente – erano possibilità evidenti e aperte a tutti, sotto la spinta del progresso scientifico e tecnologico.

Comincia il tempo della televisione, ottimista, progressivo e alla portata di tutti. E infatti, questi giovani, una volta diventati adulti, si reinseriranno nel flusso della “responsabilità”, dimenticheranno le trasgressioni giovanili, e riscopriranno per molti versi valori e abitudini dei propri genitori, salvando così la continuità della memoria collettiva, rimanendo negli anni 70 a loro volta disorientati quanto i loro genitori dalla “ribellione” dei propri figli.[4]

E la storia si ripeterà negli anni 80–90 del secolo scorso.

Senza le esplosioni e la portata del 1968 e dei movimenti di massa, ma in maniera sotterranea e sommessa, attraverso un distacco che procede lento ma costante, una presa di distanza, per molti versi inconsapevole, fatta di incomunicabilità, di intraducibilità di un mondo – quello giovanile – nell’altro.

Non si tratta più di rivendicare “altri mondi possibili”, a partire dagli stessi valori e dagli stessi linguaggi: qui si tratta di un allontanamento legato ad un abitare un mondo differente.

Se infatti, come accennavo più sopra, l’identità è frutto di un processo dialettico di riconoscimento e negoziazione di significati, di sensi da dare al reale, che avviene attraverso i processi di socializzazione, primaria e secondaria, in questi anni si è ormai introdotto un “terzo incomodo”: prima la televisione, poi i primi computer. Mezzi di informazione e di conoscenza, che diventano potenti strumenti di socializzazione, rendendo letterale la metafora del rispecchiamento continuo fra giovani e adulti, fra destinatari e artefici della socializzazione.


[4] Teniamo conto in questo ragionamento di una “regola”, di una consegna cui dobbiamo attenerci: pensiamo alle abitudini quotidiane e ai costumi, non tanto ai valori assoluti e alle grandi scelte, nel provare a individuare le tracce del “conflitto generazionale”.


 

 

    [1] (2) [3]