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Questa
duplicità è intimamente inerente alla percezione
che abbiamo del nostro
satellite, da sempre, un “… astro allo stesso
tempo propizio e
nefasto.” (Durand, pag. 290) Una
duplicità che ne spiega la natura
ineffabile, spiazzante, irriducibile. Un luogo – cosmico e
dell’immaginario – che esemplifica perfettamente il
nostro modo di
costruire la realtà, il mondo, i significati. Un simbolo, un
“segno
senza referente”, in fondo, come avrebbe detto Jean
Baudrillard (1976). |
Siamo
poi così sicuri della sua esistenza? E del fatto che
l’uomo vi sia
sbarcato? E che le foto del Lunik 3 siano vere, e non fotomontaggi? Il
disincanto di oggi sul ruolo dei media, sulle modalità del
loro
funzionamento, i fondati sospetti sulle loro capacità di costruire
“artificialmente”
il reale potrebbero legittimare gli eventuali dubbi. Il
disincanto nei
confronti delle imprese spaziali potrebbe voler bilanciare il
“disincanto del mondo” di cui scriveva Max Weber
(1920-1921). Ma poi,
ha senso domandarsi se la “conquista” della Luna
è frutto di un
inganno? O piuttosto è più produttivo porsi una
domanda “meta”: il
sorgere e il circolare di dubbi simili non nasconde qualcosa di
più
profondo?
Una
pulsione analoga – per difetto, piuttosto che per eccesso
– a quella che fa giurare ogni tanto a qualcuno di aver
riconosciuto
Elvis Presley per strada? In tutti e due i casi, siamo nel mondo del
mito: in tutti e due i casi, perché si conservi. Incrociandolo
casualmente lungo una qualsiasi strada americana, il Re;
negandone l’avvenuta conquista, la Luna. Solo così
si nutrono i due
miti: Elvis, scomparso, deve riapparire; la Luna, violata, deve
ritrovare la sua intangibilità. Vogliamo credere
che Presley
sia ancora vivo. E che la Luna non sia una pietra morta che rotola
nello spazio: solo così sarebbe ancora viva nei luoghi
dell’immaginazione, spazi ben più profondi e
antichi di quelli scanditi
dai telescopi e dai radiofari. E
cinema e letteratura si sono fatti portavoce più volte di
questa
pulsione. A volte ironicamente, altre volte in tono serio. Come
Joe R. Lansdale, ad esempio, che in Bubba Ho-Tep (2003)
prende allegramente in giro la leggenda americana che vuole Elvis
ancora vivo collocandolo, moribondo, disperato e vittima di una
imbarazzante infezione, in un gerontocomio, dove si risveglia una
mummia egiziana, quella dello stregone Bubba Ho-Tep che minaccia il
mondo di distruzione – e per giunta, più
prosaicamente, vorrebbe
sodomizzare il vecchio re del rock ‘n roll. In Capricorn
One (1978),
la pellicola di Peter Hyams, invece, la cornice è
decisamente
drammatica. Nel film si ipotizza che la prima spedizione
organizzata
dalla NASA su Marte all’ultimo momento debba essere annullata
per un
guasto, e che venga semplicemente simulata, in apparenza per non
deludere le aspettative del mondo intero, in realtà per non
perdere
finanziamenti, potere, credibilità. È vero che la
storia messa in scena
non tratta della Luna ma del “Pianeta rosso”, ma il
senso è chiaro: una
declinazione della “teoria del complotto” dei
potenti della Terra, dei
media, delle agenzie governative contro l’opinione pubblica.
O almeno
tale è la cornice prevalente per inquadrare questa categoria
di dubbi
su alcuni eventi. Una delle leggende metropolitane più
tenaci dei
nostri tempi.
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