Franz Kafka, o quando la fantasia non consola di Daniela Fabro | ||
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forza visionaria con cui uno scrittore come Franz Kafka ha creato un
mondo fantastico allucinante non è molto diversa dal lavoro
introspettivo della costruzione dell’io da parte della
coscienza. Ma la
consapevolezza di sé si esaurisce nella coscienza del
cervello di se
stesso e del corpo in cui è ospitato, o non rimanda
piuttosto a
un’istanza superiore, quella che di solito si indica con la
parola
anima? È evidente che tale quesito è uno degli
interrogativi più
impegnativi dell’umanità. E al quale nemmeno
l’ipotizzata identità tra
mente e cervello della scienza odierna riesce a rispondere. Nondimeno
deve essere stato alla base delle domande che si facevano due autori
distanti nel tempo e nei generi narrativi, ma non nello spirito,
appunto, come Kafka e Philip K. Dick. Il potere della loro fantasia
è
utile a capire la realtà non solo nel senso generale che
accomuna tutti
i grandi artisti, ma anche in quello di una sensibilità
niente affatto
comune che li fa guardare più in là. E che li
rende capaci non solo di
vedere oltre la vita di tutti i giorni e i sacrifici che le persone
sono costrette a fare per sopravvivere costruendosi una
verità
risarcitoria e consolatoria. Ma anche di trasfigurare gli accadimenti,
e i rapporti che questi accadimenti determinano tra gli
individui-personaggi, per cogliere in modo simbolico
“ciò che non si
sapeva, credeva o ammetteva di essere”. Parafrasando un
articolo del Corriere della Sera sul Don
Chisciotte
di Carlo Sini, docente di filosofia teoretica alla Statale di Milano,
potremmo osservare che “quanta saggia consapevolezza sta al
fondo delle
nostre idealizzate fantasie”, tanta è la
capacità dell’arte di Franz
Kafka di “rendere visibile l’oscura trama e la
nascosta realtà delle
nostre vite” (Sini, 2008). E se
“una grande immaginazione genera
l’evento”, questo vecchio adagio reso famoso da
Montaigne è vero anche
per Kafka e per l’inquietante apparente immobilismo privo di
eventi
delle lunghe attese dei suoi romanzi, dove, anche se accade
più di una
cosa, come ne Il castello, si tratta evidentemente
di pretesti
per ragionarci sopra. E per argomentarci su, rendendo assurda la
normalità, con una chiaroveggenza ai limiti della paranoia.
Qualità, o
difetto, ma solo in quanto rese tormentata la sua vita, dello
scrittore, che carica l’atmosfera di inquietudine e paura per
il
pericolo incombente. Un’inquietudine sottile e angosciante
circa il
proprio destino: la più alta espressione della nostra
modernità cinica
e spaventata. Con una fantasia direttamente proporzionale
all’impegno di sfiorare i confini ultimi
dell’immaginazione, diventare
quello che non si è, oltre i limiti biologici, anagrafici e
sociali,
senza scadere nella banalità dello sliding doors,
Kafka esplora
i territori di pensiero ed esperienza con una sensibilità
particolarmente acuta. Che punta le antenne dritto al cuore
del
problema: il rapporto con gli altri. Le vite degli altri sono
inesorabilmente intrecciate alla nostra.
L’identità di ciascuno si
definisce a partire dal dialogo con parenti, insegnanti, amici,
colleghi. Senza di ciò sarebbe impossibile avere proprie
opinioni né
una definita personalità. E, apparentemente, queste
relazioni si
svolgono nella più completa normalità. Ma
l’incapacità di essere
accettati per se stessi è una brutta bestia, quasi come lo
scarafaggio
della Metamorfosi (1916). Che difatti fa odiare a
Gregor Samsa,
svegliatosi una mattina trasformato in insetto, se stesso talmente
tanto, da accettare di essere perseguitato da genitori, sorella e
perfino donna di servizio, fino a lasciarsi morire in seguito alla
ferita provocata sulla corazza dal lancio di una mela da parte del
padre. In
effetti, non occorre trasformarsi in un insetto,
s’intende
metaforicamente, e nemmeno essere coinvolti in un processo che non ha
capi di imputazione, come avverrà per un altro immortale
personaggio
dello scrittore praghese, Joseph K. de Il processo,
per vivere
simili situazioni senza via di scampo. Nella società
attuale, ma non
solo, è proprio questo tipo di evento eccezionale generato
dall’immaginazione kafkiana ad angosciare la maggior parte
delle
persone. Kafka concepì le sue fantasie agli albori
dell’età
contemporanea. Nacque a Praga nel 1883, figlio di una coppia di ebrei
di lingua tedesca, più umile figlio di macellaio lui,
più agiata erede
di commercianti lei, che insieme aprirono un negozio di
“galanterie”,
guanti, bigiotterie, cappelli, attività capace di renderli
sufficientemente benestanti da sognare per Franz quella laurea in
giurisprudenza che apriva le porte ai funzionari
dell’Impero. | ||
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