Gli
studi, sgraditissimi a Kafka, lo portarono ad assumere un impiego
presso la compagnia di assicurazioni triestina delle Generali (nel 1908
Trieste era ancora parte dell’Impero austro-ungarico) e poi,
nel 1917,
in un istituto di assicurazioni per infortuni sul lavoro, costituito
anche per dissuadere gli operai dal votare per la socialdemocrazia. Fu
proprio per questa sua attività - che in seguito dovette
lasciare per i
sanatori dove curare una tubercolosi che lo stroncò nel 1924
a Kirling,
presso Vienna - che lo scrittore, caso quasi unico all’epoca,
conobbe
la realtà delle prime fabbriche, visitate per catalogare i
rischi di
invalidità che correva la manodopera nello svolgere le
proprie mansioni. Gran parte della sua produzione
letteraria, costituita soprattutto da racconti, tra cui La
metamorfosi,
fu scritta proprio tra il 1910 e il 1922, e pubblicata postuma
dall’amico Max Brod che fortunatamente ignorò le
disposizioni
dell’autore di distruggere i manoscritti. La
metamorfosi, scritta nel 1915, uscì nel 1916,
insieme a La condanna e prima di Nella
colonia penale (1919), Il medico di campagna
(1919, ed. it. 1981), e dell’autobiografica Lettera
al padre (1919, ed. it. 1959). I tre romanzi, Il
processo (1914-1915), Il castello
(1921-1922) e America,
(iniziato nel 1910 e più volte ripreso), non furono invece
mai
definitivamente licenziati dall’autore e uscirono tutti e tre
postumi. Kafka,
che aveva anche visitato Parigi e viaggiato in Germania e
nell’Italia
settentrionale, pur essendo, anche da questo punto di vista, un
intellettuale completo, non provò mai a rendere la sua prosa
in lingua
tedesca molto più ricca lessicalmente del tedesco parlato in
Boemia. Ma
fu proprio il suo linguaggio conciso e freddo, e per certi versi anche
spietatamente umoristico, e a volte anche cinico, a rendere
così bene
l’idea dello spaesamento psichico della vittima innocente:
una
condizione esistenziale prima ancora che storica in cui molti
però
hanno visto una profezia dell’Olocausto.
Morire senza sapere
perché, ma
anche senza che i carnefici lo sappiano, è infatti quanto
accadde a sei
milioni di ebrei appena vent’anni dopo, durante la Seconda
guerra
mondiale. Capitolare e non difendersi, ma divenendo anzi complici dei
persecutori, e annullando la propria identità, è
il destino dei tanti
Joseph K. che, anche senza essere le vittime di un odio razziale eretto
a sistema di governo come quello della Germania hitleriana, subiscono
intolleranze e ingiustizie oggi come ieri. Interpretazione in cui molti
hanno visto la rappresentazione della parabola
dell’alienazione
dell’individuo nell’epoca dell’ascesa del
capitalismo. Ma tra le righe
di Kafka si legge anche un’originale messa in scena
dell’ eterna
tensione verso la libertà: sono altro da me e quindi posso
inventarmi
una vita diversa; Gregor immaginava infatti di poter lasciare
l’odiato
impiego una volta pagati i debiti del padre. L’agrimensore
protagonista
del Castello cercava la promozione sociale
attraverso
l’incarico presso il conte. Peccato che la vita immaginata si
riveli un
incubo peggiore della realtà, e da cui si esce unicamente
morendo, o
con un esaurimento nervoso.
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