Come
se fosse già
avvertito il precipitare
della fine, il tema dell’ossessione amorosa, con le sue
pulsioni
vissute segretamente, lanciata, come il treno del romanzo 2046,
verso una notte insondabile e un avvenire nebuloso, evoca, nelle due
opere, le rovine del tempo, o meglio, il tempo delle rovine, che ha
perduto la storia o che la storia ha perduto, e che, forse, solo
l’arte, salvando quanto vi è di più
prezioso nelle opere del passato,
talvolta riesce a ritrovare (cfr. Augé, pp. 135-139).
Aleggia dunque un
senso del tempo che è “coscienza della mancanza,
espressione
dell’assenza, puro desiderio” (ibidem,
p. 100), e che proviene dal paesaggio delle rovine (cfr. ibidem,
p. 97), così come è insistentemente rappresentato
in entrambi i film,
amalgama di natura e cultura, emerso nel presente come un segno di
ciò
che trascorre e insieme permane. La contemplazione della
fatiscenza
offre allo spettatore la possibilità di fare non un viaggio
nella
storia, ma un’esperienza del tempo puro
(cfr. ibidem, p.
36), un tempo non databile, lontano dai simulacri, dalle ricostruzioni
e dall’interminabile produzione virtuale di oggetti,
ideologie, segni,
ideali, immagini, sogni, dispiegata nella simulazione indefinita (cfr.
Baudrillard, pp. 9-10) che attualmente abitiamo. La coscienza che si ha
della decadenza inquadrata dalla macchina da presa è quella
di una
lunghissima durata, che fa percepire, per contrasto, il carattere
transeunte dei destini dei personaggi. Contro
l’arroganza del
presente, il suo, il nostro, quello del signor Chow, il regista afferma
la presenza ancora avvertibile di un passato smarrito e al contempo la
possibilità di qualche istante, raro e fragile, sottratto
alla
prepotenza dell’hic et nunc, pensando alla
vita con “l’irrealizzabile desiderio di ritrovare,
di fermare o di inaugurare il tempo” (ibidem,
pp. 67-68), e riconfermando che la narrazione, a differenza della
ricostruzione storica, capace di spiegare il passato attraverso le
conseguenze sortite, astrae da tutto quanto è realmente
avvenuto e
recupera nelle finzioni trascorse le molteplici potenzialità
di cui è
fatto l’attuale.
Il sogno, affiorato in In
the Mood for Love,
di una gioia probabile ha lasciato delineare i propri contorni dallo
sguardo severo di una moralità convenzionale,
tradizionalista e
pettegola, riconfermando che l’arte della
felicità, anche se cosa
rancida, è pur sempre un’arte, un raffinato
esercizio, che comporta
delle scelte coraggiose. Lasciando esplodere la volontà di
vivere,
primordiale e irresistibile impulso all’azione, e non
trasformando la
virtualità dell’amore unicamente in ricordo, e
dunque in rovina, sono
proprio quelle scelte, infatti, a render viva
l’esistenza.
Dunque,
quell’orologio ripetutamente inquadrato forse solo
ingannevolmente voleva ricordarci che siamo creature di Kronos,
il tempo che lascia scorrere il presente e conserva il passato, il
tempo corporeo, delle azioni cioè che i corpi compiono,
snodato sulla
linea retta degli accadimenti successivi. In quanto capaci di
assecondare ritmi inusitati e di solcare tragitti inediti, non
necessariamente predefiniti, ci sentiamo infatti più
abitanti di Aiôn,
“popolato da effetti che lo frequentano senza mai
riempirlo” (Deleuze,
p. 147), il tempo del mero divenire, degli eventi in cui
l’atto del
compiersi non si completa mai fino in fondo, il tempo sempre
già
trascorso e perpetuamente ancora da venire, sul quale insistono e
sussistono passato e futuro, che suddividono ad ogni istante il
presente. La coscienza della mancanza, nel finale di 2046,
dischiuso al ricordo, ma anche all’attesa, sposta dunque il
suo centro
di gravità, e smette di agitarsi nel tempo ordinario, per
non
riguardare più un senso perduto, dissolto definitivamente
nel passato,
quanto un significato da dover ritrovare, fortemente presente in un non
luogo dell’avvenire, il 2046 appunto, abitato dal rimpianto
di ciò che
avrebbe potuto essere, ma anche dalla bellezza di ciò che
esiste
ancora, e soprattutto dal desiderio di ciò che un giorno,
forse, ci
sarà.
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