La felicità tra desiderio e ricordo in Wong Kar-wai | di Linda de Feo | |
Il
gioco sapiente degli specchi sembra voler dare disperatamente corpo ai
sogni, riflettere la tensione dolorosa degli amanti e alludere alla
dialettica tra due diversi modi di essere della realtà:
l’effettività
materiale, la presenza tangibile, l’attualità e la
probabile
apparizione differita, la potenzialità del non avvenuto, la
virtualità,
che rivela l’autenticità della propria essenza
solo quando acquisisce
le sembianze del ricordo. Gli specchi si impossessano dei personaggi,
ne fagocitano ogni attualità, e le ombre popolano una storia
articolata
sulle forme del desiderio e sui modi della speranza, nello scambio
perpetuo tra i protagonisti e la loro immagine virtuale, suggerendo che
l’autentica bellezza non sta in ciò che
è, né in ciò che è stato,
ma in
ciò che potrebbe o avrebbe potuto essere. L’amore,
alimentato da
impalpabili esperienze, impercettibili sfioramenti, timide esitazioni,
vestitissimi sguardi, “una volta dichiarato e divenuto
definitivamente
impossibile, diventa quel che [forse] ha sempre voluto essere: puro
godimento dell’inattuale” (Augé, p. 45),
un’inattualità che si
contempla a distanza, nel momento in cui, trasformatasi in rovina, non
è più una virtualità (cfr. ibidem,
p. 46). Gli eventi del film
si stemperano irrimediabilmente nella forza distruttrice del tempo, che
trasforma il desiderio in un più meditato sentire della
vita,
obbligando il futuro a rifugiarsi nel passato e lasciandogli
possibilità di esistenza come speranza sorta nel tempo
trascorso, come
ricordo di un’attesa. |
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