2046
è il nome di un luogo arcano ed è il titolo del
romanzo di
fantascienza scritto dal protagonista, ma è anche il numero
di una
camera d’albergo e l’anno in cui la
città-stato semindipendente Hong
Kong passerà definitivamente dalla sovranità
britannica a quella
cinese. Wong Kar-wai lascia dunque che gli avvenimenti della Storia si
insinuino nel minimalismo delle vicissitudini ordinarie raccontate da
un film pensato nel 1997- anno della restituzione di Hong Kong alla
Cina-, che, interiorizzando quell’immutabilità
promessa dal governo
cinese per il cinquantennio a venire, la trasforma nel timore di
dimenticare il vissuto sia individuale sia collettivo, misto
all’attesa
del cambiamento, che dovrà fatalmente realizzarsi
allo scadere del
termine, il 2046. Lo scrittore pensa di aver
raccontato il futuro
attraverso il libro, ma, in realtà, rievocando i propri
amori, narra un
passato in cui far trovare dimora al proprio spaesamento affettivo.
Nella sua storia, un treno mitologico attraversa città
luminosissime,
partendo di tanto in tanto per una destinazione misteriosa, 2046, mondo
dell’avvenire in cui tutto rimane immutato, anche i ricordi
perduti, e
in cui l’identità vagabonda, attraverso
l’anamnesi, la perdita
dell’amnesia, il recupero della reminiscenza, ritrova se
stessa nei
tempi e negli spazi della memoria. Nella
fantascientifica
dimensione ventura, descritta come sarebbe stata immaginata negli anni
Sessanta, le inquadrature incorniciano particolari frantumando la
realtà o l’irrealtà rappresentata, fino
alla dispersione di ogni punto
di riferimento. I piani temporali slittano l’uno
sull’altro,
sovrapponendosi, e le identità si confondono, in particolare
i volti
dei personaggi femminili, accostati, infine, al viso della signora
Chan, che resta protagonista anche nel sequel, rappresentata nella
modalità dell’assenza e della memoria allucinata
che ne ha lo
scrittore. Nello spasimante desiderio dell’amata lontana si
fa rivivere
lo struggimento di un sentimento, oscillante tra l’estasi e
il
tormento, costruito su attimi di eternità, su un continuo
morire e
rinascere ad altro, ad ogni inaspettato incontro, ad ogni perdente
tentativo di imporre l’immaginario all’esistente. Wong
Kar-wai
costruisce una metafisica dell’assenza, non assolutizzando un
unico
aspetto della temporalità, ma rovesciando il presente da
orizzonte
della stabilità a incatturabile dimensione di velamento e
sottrazione.
Il protagonista ricomporrà quel che resta del perduto e
finirà per
imparare ad apprezzare il valore dell’effimero, annidato
nelle torbide
passioni destinate all’inevitabile agonia, tra i ricordi
bagnati di
lacrime e il racconto di un amore senza futuro nutrito per una
seducente androide, deteriorabile reflex machine dalle emozioni
differite, tentata ricreazione
dell’intreccio tra istinto e ragione, tra eros
e tanatos,
anche lei, come gli umani che incontra, incapace di affrancarsi dalla
propria tristissima programmazione. Con questa suggestiva metafora, che
allude impietosamente alla transitorietà degli affetti, lo
scrittore
sembra però richiamare un tempo che più che
logorare i ricordi e
seppellirli li sminuzza, per poi costruire, con i loro frammenti, un
nuovo, provvisorio percorso (cfr. Lévi-Strauss, p. 42) e una
nuova,
temporanea identità.
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