Per Robert Emmons (2005, t.d.a.), ad esempio,
esso è “una creazione di scienza, tecnologia, psicologia, rivoluzione,
sessualità, valori, credenze e così via, dunque cos’è il supereroe se
non un’immagine della nostra [statunitense] psiche collettiva?”. Emmons
e altri autori cercano di spiegare o almeno di descrivere l’esistenza
della narrativa supereroica nel contesto americano, ponendola in
comunicazione con le origini mitiche, e le continue riscritture di tali
miti, che caratterizzano la narrativa popolare, partendo spesso e
volentieri dal classico studio di Joseph Campbell (1991) sulle versioni
mitiche dell’Eroe. Il rifarsi a Campbell e l’applicare la sua
trattazione ai racconti di supereroi è un lavoro interessante e utile
per delineare i meccanismi della narrativa popolare e la “morfologia”
del mito nella sua migrazione nei mass media contemporanei; tuttavia
questo tipo di strategie argomentative non ci paiono cogliere un punto
che in realtà era stato afferrato, in Italia, già da Roberto Giammanco
nel 1964. La filosofia della storia che anima lo spirito della
nazione americana, come noto fin dalle analisi più classiche (cfr.
Tocqueville 1835), è quella di un popolo che si ritiene obbligato a
farsi guida del mondo. La teleologia su cui si fonda il ruolo che
l’America s’è autoassegnato è poi giocata su una struttura binaria:
noi/loro, bene/male, molto di più di quanto non sia per la civiltà
europea. Inoltre, la società americana e la sua politica sono dominate,
a un livello molto profondo, dalla paura dell’altro e dell’alterità, e
ciò è in evidente paradosso con la realtà dell’America, terra di
contraddizioni e di estrema varietà etnica e culturale. Infine, la
presunta universalità dei valori della nazione americana – sanciti da
documenti che per gli statunitensi sono ammantati di sacro, quali la
Dichiarazione d’Indipendenza e la Costituzione – e l’aura mitica di cui
sono oggi rivestiti i primi Padri Pellegrini che partirono dall’Europa
per raggiungere un nuovo mondo, hanno assunto un valore che
correttamente Giammanco definisce metastorico. Non è difficile
collegare quanto scritto sopra con i supereroi e l’ideologia alla loro
base.
L’amore per la bandiera vige pienamente per molti supereroi, i quali
la difendono muovendosi su un livello che non tiene conto delle leggi
internazionali: questo tipo di azione è spesso giustificata,
nell’economia delle storie, dall’arruolamento dell’eroe o in servizi
segreti ipertecnologici o nei consueti “supergruppi”, che non di rado
sono sostenuti a livello governativo, rafforzando così l’immagine di un
sistema politico e di difesa che, nel salvaguardare il proprio
territorio e il proprio ordine sociale, non esita a mettere all’opera
soggetti tecnicamente entro la legge, ma moralmente ambigui. E, com’è
evidente in Watchmen, tale rappresentazione idealizzata del
supereroe “filogovernativo” si trasforma nella sua brutta e realistica
copia, cioè nel Comico, un ex vigilante privo di coscienza, violento,
un pluriomicida e stupratore che svolge operazioni militari “sporche”
per il governo. Jeffrey Lang e Patrick Trimble (1988) interpretano
il supereroe come rappresentativo del carattere nazionale americano.
Vedono gli elementi “super” degli eroi in costume come allegoria del
fatto che all’alba del XX secolo gli Usa stavano diventando una
superpotenza, caratterizzata dalla giovinezza, dal vigore, sostenuta
(per lo più) da saldi principi morali, dalla supremazia tecnologica ed
economica, da un sistema sociale teoricamente in grado di fornire a
tutti adeguate opportunità per portare a compimento i propri progetti
di autorealizzazione. Si tratta di una lettura gioiosa ma incompleta.
Uno sguardo più critico potrebbe facilmente integrare il quadro con
alcuni elementi della psicologia del supereroe o, meglio, di quella del
suo lettore-tipo, che anche in questo caso, come già rilevato a
proposito delle aporie fra gli ideali statunitensi e la loro messa in
pratica, si ritrova vittima di una colossale contraddizione
esistenziale circa la sua ricerca del raggiungimento dell’American Dream. La
narrativa supereroica potrebbe allora fungere da sostegno, almeno in
piccola parte, a certe frustrazioni dell’americano contemporaneo (o
quantomeno di chi ancora legge i supereroi), come rilevato già molti
anni fa da Arthur Asa Berger (1973). “Viene da pensare che le esigenze
che avevano motivato la nascita dei supereroi non siano ancora
tramontate. Se anche, col tempo, la dipendenza dell’uomo dalla macchina
è stata ridimensionata (ma non eliminata), tuttavia altre forme di
schiavitù, più o meno evidenti, si sono fatte strada nella società. In
un mondo dove ogni individuo è almeno un po’ consapevole del suo
status, caratterizzato dalla mancanza di autonomia e dall’assorbimento
in una società caotica e nei suoi ritmi e valori sempre più mutevoli,
l’essere superiore che da questa mediocrità si innalza è un mito
destinato a durare” (Semprini 2006, Cap. IV). Sembra di leggere fra le
inquietudini di Dan Dreiberg, il Gufo Notturno, l’ex vigilante che in Watchmen
ha messo su pancia, si è rintanato nella sua sola identità civile di
uomo di mezza età, solo e frustrato, ma che ancora sogna di poter
condurre una vita meno monotona. |