Lei sostiene che esista una sorta di
necessità sociale del crimine, dal momento che “il
crimine e le sue punizioni sono una parte fondamentale dei rituali che
sostengono ogni struttura sociale”, che il crimine
è utile per affermare le norme e le credenze sociali, vale a
dire le norme e gli ideali che legittimano la gerarchia sociale ed il
potere dei gruppi dominanti. Ci può spiegare il suo pensiero
in maniera più dettagliata? E quale può essere,
secondo lei, il ruolo svolto dai prodotti narrativi (film, romanzi,
ecc.) in questa sorta di “processo ideologico”? Veramente
qui ci si riferisce alla teoria classica di Durkheim sul crimine. Egli
sosteneva che la punizione dei criminali è un rituale. Di
solito aiuta poco a controllare i delinquenti o a limitare i crimini,
ma i cittadini normali si sentono molto soddisfatti quando sanno di
queste punizioni, e si sentono moralmente scandalizzati quando un
criminale non è punito. La ricerca criminologica sulle forme
di punizione è vasta, e naturalmente sono venute alla luce
diverse complessità. Ma, secondo me, si può dire
che c'è un forte elemento ritualistico nelle punizioni.
Inoltre, Durkheim parla della necessità sociale del
crimine, nel senso che la società inventa sempre nuovi
crimini, perché ha bisogno di compiere questi riti
punitivi. La società vuole sempre qualcuno da
punire. È possibile scorgere tutto ciò nei vari
tipi di divieti criminali – prima l'alcool, ora la droga, e
sempre di più il tabacco; e in qualche caso, anche scandali
di sesso che coinvolgono politici e prostitute negli Usa. Naturalmente,
i diversi paesi sono differenti in tal senso, perché hanno
diverse storie di repressione o liberalizzazione. Che
c'entra la finzione in tutto questo? Tale questione
non è stata studiata molto. La mia idea
è che la finzione non sia tanto
un’esperienza vicaria quanto una cornice sociale che
rappresenta una realtà a cui i fruitori partecipano pur
sapendo che non fa parte della vita quotidiana. L'esistenza stessa del
televisore, lo schermo al cinema e le pagine fisiche di un libro
rappresentano una diversa cornice esperienziale, che distingue i suoi
contenuti da quello che ci succede nella vita quotidiana.
Così i crimini e la punizione (o la mancanza di punizione,
il farla franca, ecc.) vengono rappresentati principalmente attraverso
un’azione drammatica all'interno di una cornice
irreale. Per rendere interessante la finzione, c’è
bisogno di tensione narrativa, di azioni drammatizzate, e i conflitti
rappresentano la forma d’azione più drammatica. Ad
un basso livello culturale, si tratta solo di azione fisica e di
violenza – come ho già detto, molto inaccurata se
la paragoniamo alla violenza reale. D'altro canto la violenza vera non
è divertente se la osserviamo per come essa è
effettivamente. Ad un livello culturale più elevato, il
dramma si sposta verso conflitti di tipo più emozionale.
È importante notare come le differenze tra le classi sociali
siano legate al livello di finezza o sofisticazione del tipo di
tensione drammatica che esse vogliono consumare.
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Uno dei punti centrali della sua teoria è
l’idea del rituale come fondamento della
solidarietà e della compattezza dei differenti gruppi
sociali. Lo schema formale del rituale prevede che un gruppo di persone
condivida lo stesso luogo fisico (una chiesa, un convegno politico,
ecc.), un focus d’attenzione, un’energia emotiva
armonica e degli oggetti o dei simboli. Ogni individuo si carica
dell’energia e dei simboli d’appartenenza che poi
porta con sé nella sua quotidianità. Come si
concilia la centralità del rituale sociale, che prevede nel
suo modello formale l’importanza della riunione fisica, con
il fatto che una buona parte delle nostre esperienze sia oggi mediata
dai mezzi di comunicazione (TV, Internet, ecc.) che creano forme
particolari di condivisione di esperienze e partecipazione collettiva
anche se si è fisicamente distanti o disgiunti?
L’impatto dei media, creando nuove situazioni sociali,
può modificare la definizione dei gruppi o fornisce solo
esperienze sussidiarie? E che ruolo può giocare, secondo
lei, la diversa proprietà dei mezzi di produzione simbolica
rispetto ai vari media, come la Tv o Internet, anche nella definizione
del potere e della stratificazione? Questo aspetto
della mia teoria è stato ultimamente discusso molto da vari
studiosi. Stiamo vivendo una rivoluzione tecnica che rende le
esperienze mediali e riesce ad allontanarci dal contatto fisico
diretto. Richard Ling ha appena pubblicato un libro intitolato Mediated
Ritual Experience, dove espone la sua ricerca sui giovani e
su come essi usano i telefonini. Ling sostiene che la
solidarietà rituale è possibile attraverso questi
mezzi di comunicazione, sebbene questi giovani vogliano incontrarsi
anche faccia a faccia, e usino i telefonini soprattutto per fissare
appuntamenti. Perciò, i mezzi di comunicazione e l'incontro
faccia a faccia tendono a formare una catena, e si aiutano a vicenda
nella sua realizzazione. Questa ricerca tende anche a
dimostrare che questi rituali mediati sono meno intensi degli
incontri faccia a faccia; è una questione di grado, non una
differenza assoluta. In un altro libro che ho scritto, The
Sociology of Philosophies (1998), ho dimostrato che
importanti intellettuali, in tutte le epoche, sono stati legati molto
intensamente tra di loro attraverso reti sociali. E queste reti sociali
sono sempre uguali, dai tempi antichi quando tali intellettuali
dibattevano tra di loro, fino allo sviluppo dei libri e della stampa.
La mia conclusione è che, pur con l'avvento di Internet, gli
intellettuali che hanno contatti tra loro solo attraverso Internet sono
svantaggiati in confronto a quelli che hanno contatti faccia a faccia.
L'interazione personale è un modo molto più forte
per convogliare un’emozione, e ciò
influisce sul modo di interiorizzare le idee, dal momento che le idee
viaggiano con più forza quando sono accompagnate dalle
emozioni. Insegnanti famosi continueranno ad avere allievi famosi che
apprenderanno da loro ascoltandoli di persona, anche se molta altra
gente può scovare le loro idee su Internet.
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