La mia conclusione
è che gli esseri umani, quando si trovano a compiere atti di
violenza contro un’altra persona, si scontrano con una
barriera creata dal confronto fisico, fatta non solo di tensione ma
anche di paura. Questa barriera emotiva impedisce che ci sia effettiva
violenza, oppure porta a un atto violento davvero inefficace.
Ciò è dimostrato dal fatto che gli stessi
poliziotti o soldati colpiscono molto bene i bersagli durante
l'addestramento, ma poi mancano i bersagli, sparano più del
necessario e dimostrano altri segni di grande tensione emotiva
quando affrontano una vera situazione di violenza. Qual
è l'origine di questa barriera emotiva? Non si
può dire che essa faccia parte della cultura moderna, la
quale inibirebbe la violenza. Nei documentari antropologici
è possibile vedere che le persone si comportano allo stesso
modo in un combattimento tribale: alcuni uomini si staccano dalla
moltitudine di membri armati di una tribù e si lanciano
verso il nemico, scagliano una lancia – di solito senza
colpire il bersaglio – e si allontanano velocemente mentre
gli altri non fanno altro che gridare. Tuttavia, queste sono le stesse
persone che esprimono grande soddisfazione, supportata culturalmente,
quando uno dei nemici viene ucciso. La mia conclusione è che
la barriera di tensione creata dal confronto sia più
profonda, ed essa è il risultato di caratteristiche di base
dell’interazione reciproca tra gli esseri umani. Nel mio
libro precedente, Interaction Ritual Chains (2004),
dimostro attraverso dettagliate prove micro-sociologiche che quando le
persone sono fisicamente vicine e focalizzano la loro
attenzione sullo stesso oggetto, di solito tendono ad armonizzare
ritmicamente i propri gesti. Il ritmo del discorso e dei movimenti
corporali assumerà lo stesso andamento, la loro vicinanza
emotiva assumerà toni più forti. Saranno
coinvolti in ritmi emotivi e corporali condivisi vicendevolmente. Io lo
definisco come un modello di sincronizzazione centrato su un focus ed
emozioni condivise. È questa l’evoluzione di una
teoria – ora supportata da recenti prove micro-empiriche
– che fu formulata in origine da sociologi classici come
Émile Durkheim, con la sua teoria delle cerimonie religiose,
e Erving Goffman, con la sua teoria dei rituali della vita quotidiana.
I rituali dell’interazione che hanno successo producono
solidarietà sociale, e sono molto allettanti per gli
individui perché danno loro energie emotive –
fiducia, entusiasmo, sentimenti di forza. Possiamo dunque
vedere come le due forme di interazione – i rituali
dell’interazione che producono solidarietà e gli
scontri violenti – siano antitetici. Naturalmente,
le persone possono avere molti motivi per scontrarsi con altra
gente, e possono arrabbiarsi sul serio e voler usare violenza. Ma,
quando si confrontano da vicino con la controparte, seguono la tendenza
umana a sincronizzarsi con l'altra persona. Per questo esse provano
emozioni contraddittorie, e tendenze letteralmente contraddittorie
all’interno dei loro corpi. È appunto questo
auto-conflitto corporale che porta alla tensione. Siccome le persone
che si trovano a scontrarsi provano entrambe più o meno lo
stesso carico di tensione, quasi sempre esse evitano di lottare e
cercano di porre fine al conflitto molto presto. Se guardiamo i video
di simili risse – che ormai si trovano in Internet
– possiamo osservare come esse siano molto brevi, e le
persone dopo poco tempo trovano subito una scusa per porvi
fine. Quando si tratta di uno scontro armato, nella maggior parte dei
casi gli spari non colpiscono il bersaglio, anche quando si
è molto vicini. È la forte tensione che porta a
questo risultato. Affinché la violenza possa avere successo,
c’è bisogno che la situazione sia in grado di
offrire la possibilità di aggirare la barriera della
tensione creata dal confronto. Nel mio libro fornisco molteplici esempi
di scappatoie. La più importante tra queste sta nel trovare
una vittima debole – ovvero, nella specifica situazione
immediata, una vittima che sia emotivamente debole.
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Lei afferma, anche in un suo articolo su
“Foreign Policy”, che gli attentatori suicidi,
appartenenti al terrorismo islamico, provengono dalla classe media che
socializza i suoi membri a condotte e disposizioni (come il
self-control, l’insospettabile morfologia fisica, ecc)
più idonee ad eseguire atti di violenza suicida. Ci
può spiegare meglio il rapporto tra questa forma di violenza
e la cultura della classe media? Le motivazioni di un attentatore
suicida sono sganciate dagli interessi di classe? Se sì,
fino a che punto?
Uno dei modi più
insoliti per aggirare la barriera della tensione creata dal confronto
è quello di far finta che non ci sia il conflitto, fino
all'istante in cui la violenza si scatena. La maggior parte della
violenza inizia con gesti, minacce, voci di rabbia, oppure altri modi
per segnalare il pericolo. Di fatto, queste segnalazioni rappresentano
principalmente un tentativo per intimorire il nemico, per far
sì che egli eviti il conflitto. I kamikaze islamici seguono
un altro metodo. Fingono di essere cittadini normali in una situazione
abituale. Questo metodo è insolitamente efficace per
arrivare allo scopo finale, cioè quello della violenza, dal
momento che un kamikaze islamico arriva fino al bersaglio e non sbaglia
– contrariamente a quello che succede per altri tipi di
violenza. Perciò un kamikaze islamico è simile a
un killer professionista – un killer a pagamento, che usa la
stessa tecnica per non dare nell'occhio mantenendo uno stile di
clandestina normalità, fino a quando non riesce a puntare la
pistola alla testa della vittima posta a pochi centimetri di distanza. In
tal senso, l'approccio clandestino non è tanto una parte
intrinseca della cultura della classe media quanto una tecnica
sofisticata che fu inventata e si è diffusa attraverso le
reti sociali. Possiamo notare che il killer professionista usa una
tecnica simile, sebbene non appartenga alla classe media; ma lui fa
molto meglio il suo lavoro, a differenza del solito guappo della classe
operaia, il quale si distingue per il suo atteggiamento che
è minaccioso ma non molto efficace, dal momento che riesce
solo ad impaurire gli altri. Una volta che i gruppi politici hanno
compreso una simile tecnica, essi hanno capito che le persone della
classe media sono le migliori per portare a termine tali atti di
violenza, e più sono persone rispettate meglio è.
Ecco perché le donne sono apprezzate come kamikaze. Qui non
si tratta di interessi di classe, ma solo di stili
di interazione di classe. La maggior parte delle persone
della classe media non è ideologicamente favorevole
ai kamikaze, così come non lo è per gli altri
tipi di violenza (eccezion fatta forse per i film che allestiscono una
rappresentazione fantasiosa della violenza). I movimenti ideologici non
sono strettamente collegati agli interessi di classe, e i movimenti
più efficaci – per esempio i
militanti islamici – riescono facilmente a reclutare
persone in ogni classe sociale.
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