Il culto del suono. In memoria di Karlheinz Stockhausen di Filippo Morelli |
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n un epoca liquida come quella in cui
viviamo, mobile per sua natura, il suono si propaga con incessante
continuità. Laddove altre arti in cui la fissità
di intenti diviene condizione indispensabile per uno sviluppo
significativo, la musica ha saputo trovare sviluppo nel fungere da
culla ad una epoca dominata dalla confusione di idee, di intenti e
quant’altro. Chi ha buona memoria, ricorderà che
qualcuno diversi anni or sono cantava: “Confusion will be my
epitaph1”. La musica, arte dionisiaca per eccellenza, deve
forse a questa sua qualità la capacità di
convivere così bene con la liquidità dei nostri
tempi. La durata di una composizione è componente variabile,
essa può dilatarsi e ritrarsi, assumendo sempre significati
nuovi e diversi. Come potremmo dire, infatti, se è
più valida l’opera di Richard Wagner nel suo
riflettere in maniera vorticosa e ampia nello sviluppo della sua
tetralogia, o se sono più intensi gli aforismi chopiniani
che in meno di due o tre minuti ci procurano emozioni intensissime? Ma
se dovessimo individuare la componente musicale che le ha permesso di
avere in sé questa qualità cangiante ma anche
inesauribile, dovremmo occuparci del timbro o meglio del suono
in senso assoluto. Infatti, soprattutto a partire dal secondo
dopoguerra, ma già dalla fine dell’Ottocento, la
nostra arte ha iniziato a svilupparsi coltivando in maniera
determinante l’aspetto puramente sonoro di fronte anche ad
una saturazione della struttura tonale. | ||
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1. King Crimson,
Epitaph, dall’album In the Court Of The Crimson King, Island, 1969. |
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