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È certo, però, che la concezione
del fare esperienza non è
assolutamente semplice da definire. Già McLuhan sosteneva in una delle sue tesi
principali che la sola presenza di un determinato prodotto culturale causerebbe
una serie di modificazioni, nel modo di vedere il mondo, di percepire la
realtà, in altri termini nel modo di esperire. Ma questo già dall’invenzione
dell’alfabeto. C’è anche chi, probabilmente a
giusta ragione, asserisce che qualsiasi esperienza, affinché si determini,
necessita di una mediazione tecnica. Essa
ha bisogno per essere acquisita o comunicata di essere tradotta; in
quest’ottica risulta dunque discutibile la tesi secondo cui l’affermazione
delle tecnologie contemporanee avrebbe causato una riduzione dell’esperienza,
tutt’al più le tecnologie conferirebbero nuove possibilità all’esperire nella
realtà odierna.[11]
Comunque, dato che nella nostra
vita sempre più raramente ci troviamo di fronte a quelle situazioni nelle quali
abbiamo fatto “realmente” le nostre esperienze e poiché il futuro arriverà
sempre più velocemente e conseguentemente, quanto ci è familiare diverrà sempre
più velocemente vecchio, e noi, anziché diventare autonomi, cioè adulti proprio
attraverso la crescita costante dell’esperienza e della cognizione del mondo,
finiremo per scivolare piuttosto nuovamente
indietro nella condizione di coloro per i quali il mondo è in prevalenza,
ignoto, nuovo, estraneo e impenetrabile, la condizione in altri termini, dei
bambini.[12] Dunque anche per quanto riguarda
il concetto di infantilizzazione Debord si esprime altrettanto chiaramente,
definendo l’individuo come incapace di farsi uomo, di accettare le sue
responsabilità, costretto subdolamente dalla macchina spettacolare a una condizione
di fragilità, soprattutto pscichica-emozionale, peculiarità che, per l’appunto,
notoriamente contraddistingue l’età puerile. Ed è in quest’ottica che la società
spettacolare, secondo il francese, culla, in un universo dorato dall’abbondanza
delle merci e dalla sovraesposizione alle immagini il proprio prodotto: uno
spettatore passivo, manipolabile e inconsapevole. Così anche il concetto di reincanto del mondo è, trattato da
Debord, seppure non esplicitamente. Nonostante non utilizzi questo
termine, egli afferma che lo spettacolo sostituisce il potere detenuto
storicamente dalla religione e in seguito dalla scienza, custodendo in sé, come
grazie ad un incantesimo, possibilità salvifiche per l’umanità, vendendo il
proprio mondo, quello spettacolare appunto, come una dimensione superiore,
fatata, in grado di esaudire i desideri. Anche le dichiarazioni di
Bruckner[13] che
parla di animismo degli oggetti come culmine del consumismo e di una sorta di
magia universale che impregna gli oggetti che da dietro le vetrine finiscono
con l’avere una vita propria, un’anima, coincidono, attraverso il concetto di
feticismo delle merci di Marx, al pensiero di Debord. Se alcuni studiosi asseriscono
oggi che l’immagine non può più
immaginare il reale poiché coincide con esso[14] e
dunque che un’immagine mediata dallo schermo possa divenire, infine, più
“reale” dell’oggetto rappresentato, ci accorgiamo di come Guy Debord abbia
veramente centrato, con anni d’anticipo, alcuni dei temi della discussione
sociologica attuale. E gliene siamo debitori.
[8] G. Anders, L'uomo è antiquato. La terza
rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pag. 73.
[9] G. Agamben, Infanzia e storia, Einaudi,
Torino 2001, pag. 128.
[10] G. Debord, cit., pag. 156.
[11] L. Caramiello,
Il medium nucleare, culture,
comportamenti, immaginario nell’età atomica, Edizioni Lavoro, 1987, pag.
69.
[12] O. Marquard, cit., Cfr. pag. 124
[13] P. Bruckner, La tentazione dell'innocenza,
Ipermedium libri, Napoli 2001, pag. 123
[14] J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso
la realtà?, Cortina, 1996, pag.
75.
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