Per noi uomini della
postmodernità, la dimensione tardomoderna che abitiamo appare naturale, logica
continuità del passato. Un ambiente che si è diffuso e si è sostituito alla
Modernità lentamente ma sistematicamente, invadendola e sostituendola un po’
alla volta.
Ce ne accorgiamo ogni tanto,
guardandoci alle spalle, e rimaniamo a volte, sorpresi, sconcertati, di fronte
alle sue propaggini e ai suoi effetti, la perdita della prospettiva, l’avanzare
della virtualità e della simulazione, il trionfo del tempo reale.
C’è stato però qualcuno che
aveva avvertito il procedere del cambiamento, in maniera magari troppo urgente
e disturbante, sicuramente radicale e lucidamente beffarda: Guy Debord.
Se indaghiamo la sua opera in
un’ottica preminentemente sociologica, cioè guardando ai suoi lavori spogliati
dalla forte carica ideologica che certamente li rivestiva, sicuramente
troveremo il segno di questa lucida consapevolezza.
Il francese, che potremmo
definire un teorico rivoluzionario, anche se lui amava definirsi “dottore in
niente”, nasce nel 1931 in Francia e vive la sua vita in un periodo storico
densissimo, quello delle avanguardie artistiche: i movimenti surrealisti, il
dadaismo, il lettrismo, la seconda guerra mondiale, la nascita e l’affermazione
dei grandi movimenti di massa che in qualche modo cercavano di mettere in
discussione il paradigma sociale dominante, la nascita dei due grandi blocchi
contrapposti, Stati Uniti e Unione Sovietica, i moti generazionali.
Ed è in quest’orbita che la
corrente Situazionista e il suo fondatore Guy Debord, s’inscrivono.
L’Internazionale Situazionista
viene fondata nel 1957 e si pone come obiettivo principale il rovesciamento
dell’ordine dominante. Altro suo interesse prioritario è il superamento
dell’arte.
Il Situazionismo intende
perseguire questi obiettivi attraverso delle direzioni di ricerca come ad
esempio il dètournement, processo di risignificazione di un oggetto culturale
(il procedimento che utilizza anche Blob: Enrico Ghezzi per sua stessa
ammissione deve parecchio ai situazionisti), vale a dire un montaggio di
elementi preesistenti che assemblati in maniera differente dall’originale
producono un significato nuovo; la
situazione, che dà il nome alla corrente, è una pianificazione individuale
dell’esperienza, attraverso la cui costruzione si volevano destrutturare i
contesti precostituiti figli dell’ordine dominante; ed infine il cinema,
anch’esso mezzo per il superamento dell’arte e strumento di propaganda atto a
diffondere le tesi situazioniste.
Ognuna di queste direzioni di
ricerca è volta alla distruzione dei modelli imposti dal Potere.
Tutta l’opera di Debord, sia
quella teorica che quella filmica, è di prospettiva dichiaratamente marxista,
ma il carattere di originalità delle tesi debordiane è data dall’introduzione
del concetto di Spettacolo.
La descrizione di quest’idea si
ritrova nelle due opere teoriche maggiori di Debord: La società dello Spettacolo del 1967 che ebbe una vasta eco
mondiale soprattutto dopo il maggio francese del 1968, e i Commentari alla società dello spettacolo del 1988 che integrano
l’opera precedente.
Per Debord lo spettacolo non è
la semplice tirannia dei mass-media, quest’aspetto è sicuramente la sua
manifestazione sociale più opprimente, ma non è l’unica né la più importante.
La televisione come gli altri
media è solo l’espressione della struttura delle società spettacolari e uno
degli strumenti di controllo e persuasione della classe dominante.
Per Debord lo spettacolo è la
struttura profonda della società moderna ed è il risultato del progresso
consumistico del capitalismo degenerato nel feticismo delle merci.
Debord afferma che i paesi
capitalisti si stanno evolvendo verso una società in cui gli individui sono
meri spettatori passivi di un flusso d’immagini, giustificatrici dell’assetto
costituito, che si sostituiscono completamente alla realtà.
Una parte significativa del
lavoro di Debord è costituita dalla sua produzione filmica. Essa si compone di
tre cortometraggi e di tre lungometraggi. Egli intendeva proporre degli anti-film atti al superamento dell’arte,
e alla distruzione stessa del mezzo. Il prodotto di questo principio non poteva
essere certo un film come lo intendiamo noi adesso, ma bensì egli si pone
nell’ottica di creare nel fruitore un totale senso di straniamento che gli
risvegli una capacità critica.
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