Guy Debord, il dottore in niente di Antonio Camorrino

 


Con i suoi anti-film Debord intendeva liberare l’individuo dal ruolo di mero spettatore e dunque dalla sua condizione di passività.

Sinteticamente il francese afferma che i detentori dei mezzi spettacolari hanno il potere di dirigere, di orientare l’azione degli individui.

In un regime, quello spettacolare appunto, dove si confonde la sovranità del consumatore con la democrazia, l’individuo si trova a compiere scelte che in realtà non lo sono ma che risultano essere il prodotto di un’imposizione finalizzata al rendere l’individuo mero consumatore e non più protagonista di una vita appassionante.

La produzione di falsi bisogni rende impossibile la reale soddisfazione creando, in una rincorsa sfrenata al prossimo prodotto, un individuo alienato.

La volontà dei situazionisti è quella di destrutturare l’ordine dominante attraverso le direzioni di ricerca sopra citate, ma anche con vere e proprie azioni, volte per esempio alla distruzione delle macchine, rispolverando le pratiche del luddismo.

Per Debord il ruolo dell’intellettuale è quello di essere un’avanguardia che crei i presupposti per la rivoluzione e che riesca a sfuggire al sistema spettacolare, sovvertendolo.

Tutte le produzioni filtrate dal meccanismo spettacolare, divenivano false ed ingannevoli, giustificatrici dell’ordine costituito, da qui la volontà del superamento dell’arte, intesa come espressione della sfera borghese.

Debord, cerca di sfuggire, questa volta in maniera impacciata, a quella che lui definisce trappola spettacolare: una volta realizzati i suoi anti-film decide di non distribuirli onde evitare di entrare in quel sistema che tanto critica.

Qui si produce il rischio di entrare in un cortocircuito. La domanda cruciale è: la critica a un sistema può essere effettuata con i mezzi criticati?

Fatte le debite distinzioni, viene da chiedersi se combattere la società dello spettacolo con il cinema assuma la stessa dimensione paradossale (e situazionista?), delle posizioni di chi crede sia giusta l’applicazione della pena di morte per gli assassini.

In ogni caso, nei lavori di Debord sono presenti, allo stato embrionale, molte riflessioni che animeranno in seguito la discussione sui tratti caratterizzanti dell’identità dell’individuo postmoderno.

Egli affronta senza dubbio le trasformazioni del senso dell’esperienza, quando afferma: tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione,[2] dice in sostanza che è cambiato il modo di esperire, che quando lo si fa si tratta di mera contemplazione, dove il vero è un momento del falso.

Si avvicina non poco alla condizione che Marquard ha definito come tachiestranietà[3] al mondo, in sostanza l’impossibilità di vivere direttamente le proprie esperienze.

Nei suoi lavori afferma che l’individuo non ha storia, dunque memoria, perché travolto dal flusso d’immagini (dall’iconorrea[4]) che condanna all’oblio, relega l’individuo a una condizione di presentificazione, laddove lo spettacolo, con i suoi meccanismi vorticosi, non concede spazio né al passato né al futuro, ma solo ad un confuso, se vogliamo onirico, presente.

Per dirla con Lyon le tecnologie della comunicazione e il consumismo stanno contribuendo allo sconvolgimento del tempo costruendo il mondo postmoderno, dove preservare una memoria vivente come fonte di significato per il presente e di speranza per il futuro è a dir poco difficile.[5]

Proprio a causa di questa particolare forma di temporalizzazione è cresciuta la distanza, o come la chiama Koselleck, l’abisso fra l’esperienza da una parte e l’attesa dall’altra. Cresce cioè, e progressivamente, l’erosione dell’esperienza.[6]

C’è, sempre a questo riguardo, un passaggio del linguista Raffaele Simone che riporto per intero data la sua sbalorditiva somiglianza con le tesi debordiane; egli dice che c’è stata una grande trasformazione dei fatti in spettacoli e delle persone in spettatori, dopodichè, cito testualmente, tra la realtà e noi si è frapposto lo schermo, non importa se del calcolatore o della televisione. Si vede il mondo essenzialmente attraverso lo schermo. Lo schermo ci dà la varietà di rappresentazioni di qualcosa che ci sembra il mondo, ma il mondo che vediamo potrebbe non esserci affatto. Cosa comporta questo per la mente? Che non distinguiamo più tra reale e virtuale. La percezione è andata in malora, con il senso di realtà, con la ricchezza degli oggetti “veri” e tutto il resto. La gente comune si è arresa.[7]

 


[2] G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, 1967, pag. 53.

[3] O. Marquard, Apologia del caso, Il Mulino, Bologna, 1991, pag. 118.

[4] J. Candau, cit., pagg. 135-145.

[5] D. Lyon, Gesù a Disneyland. La religione nell'era postmoderna, Editori Riuniti, Roma 2002, pag. 112.

[6] A. Cavicchia Scalamonti G. Pecchinenda, La memoria consumata, Ipermedium Libri, 1996, Cfr. pag. 52.

[7] R. Simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, Roma-Bari 2002, pag. 93.

 

    [1] (2) [3]