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Sinteticamente il francese
afferma che i detentori dei mezzi spettacolari hanno il potere di dirigere, di
orientare l’azione degli individui. In un regime, quello
spettacolare appunto, dove si confonde la sovranità del consumatore con la
democrazia, l’individuo si trova a compiere scelte che in realtà non lo sono ma
che risultano essere il prodotto di un’imposizione finalizzata al rendere
l’individuo mero consumatore e non più protagonista di una vita appassionante. La produzione di falsi bisogni
rende impossibile la reale soddisfazione creando, in una rincorsa sfrenata al
prossimo prodotto, un individuo alienato. La volontà dei situazionisti è
quella di destrutturare l’ordine dominante attraverso le direzioni di ricerca
sopra citate, ma anche con vere e proprie azioni, volte per esempio alla distruzione
delle macchine, rispolverando le pratiche del luddismo. Per Debord il ruolo
dell’intellettuale è quello di essere un’avanguardia che crei i presupposti per
la rivoluzione e che riesca a sfuggire al sistema spettacolare, sovvertendolo. Tutte le produzioni filtrate dal
meccanismo spettacolare, divenivano false ed ingannevoli, giustificatrici
dell’ordine costituito, da qui la volontà del superamento dell’arte, intesa
come espressione della sfera borghese. Debord, cerca di sfuggire,
questa volta in maniera impacciata, a quella che lui definisce trappola
spettacolare: una volta realizzati i suoi anti-film
decide di non distribuirli onde evitare di entrare in quel sistema che tanto
critica. Qui si produce il rischio di
entrare in un cortocircuito. La domanda cruciale è: la critica a un sistema può
essere effettuata con i mezzi criticati? Fatte le debite distinzioni,
viene da chiedersi se combattere la società dello spettacolo con il cinema
assuma la stessa dimensione paradossale (e situazionista?),
delle posizioni di chi crede sia giusta l’applicazione della pena di morte per
gli assassini. In ogni caso, nei lavori di
Debord sono presenti, allo stato embrionale, molte riflessioni che animeranno
in seguito la discussione sui tratti caratterizzanti dell’identità
dell’individuo postmoderno.
Egli affronta senza dubbio le
trasformazioni del senso dell’esperienza, quando afferma: tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una
rappresentazione,[2] dice in
sostanza che è cambiato il modo di esperire, che quando lo si fa si tratta di
mera contemplazione, dove il vero è un momento del falso. Si avvicina non poco alla
condizione che Marquard ha definito come tachiestranietà[3] al
mondo, in sostanza l’impossibilità di vivere direttamente le proprie esperienze. Nei suoi lavori afferma che
l’individuo non ha storia, dunque memoria, perché travolto dal flusso
d’immagini (dall’iconorrea[4]) che
condanna all’oblio, relega l’individuo a una condizione di presentificazione,
laddove lo spettacolo, con i suoi meccanismi vorticosi, non concede spazio né
al passato né al futuro, ma solo ad un confuso, se vogliamo onirico, presente. Per dirla con Lyon le tecnologie
della comunicazione e il consumismo stanno contribuendo allo sconvolgimento del
tempo costruendo il mondo postmoderno, dove preservare
una memoria vivente come fonte di significato per il presente e di speranza per
il futuro è a dir poco difficile.[5] Proprio a causa di questa
particolare forma di temporalizzazione
è cresciuta la distanza, o come la chiama Koselleck, l’abisso fra l’esperienza
da una parte e l’attesa dall’altra. Cresce cioè, e progressivamente, l’erosione dell’esperienza.[6] C’è, sempre a questo riguardo,
un passaggio del linguista Raffaele Simone che riporto per intero data la sua
sbalorditiva somiglianza con le tesi debordiane; egli dice che c’è stata una
grande trasformazione dei fatti in spettacoli
e delle persone in spettatori,
dopodichè, cito testualmente, tra la
realtà e noi si è frapposto lo schermo, non importa se del calcolatore o della
televisione. Si vede il mondo essenzialmente attraverso lo schermo. Lo schermo
ci dà la varietà di rappresentazioni di qualcosa che ci sembra il mondo, ma il
mondo che vediamo potrebbe non esserci affatto. Cosa comporta questo per la
mente? Che non distinguiamo più tra reale e virtuale. La percezione è andata in
malora, con il senso di realtà, con la ricchezza degli oggetti “veri” e tutto
il resto. La gente comune si è arresa.[7]
[2] G. Debord, La
società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, 1967, pag. 53.
[3] O. Marquard, Apologia
del caso, Il Mulino, Bologna, 1991, pag. 118.
[4] J. Candau, cit., pagg. 135-145.
[5] D. Lyon, Gesù a Disneyland. La religione
nell'era postmoderna, Editori Riuniti, Roma 2002, pag. 112.
[6] A. Cavicchia Scalamonti G. Pecchinenda, La memoria consumata, Ipermedium Libri,
1996, Cfr. pag. 52.
[7] R. Simone, La terza fase. Forme di sapere che
stiamo perdendo, Laterza,
Roma-Bari 2002, pag. 93.
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