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Teatro e psicologia si è scritto
all’inizio, due elementi che sono fortemente collegati alla società: nella
propria vita l’essere umano – per dirla à la Goffman[5] –
recita un ruolo, anzi più di uno, e la sua vita si svolge su quell’enorme palco
che è il mondo; agisce in risposta alle azioni altrui, viste o previste, e
adegua il proprio comportamento alle situazioni che via via si trova a dover
affrontare. Il processo comincia sin dall’infanzia quando il bambino fantastica
di essere qualcun altro, dal proprio genitore a un personaggio famoso che ha
visto in tv o letto nei libri. Oggi i giovani, termine che negli anni ha
incluso sempre più fasce d’età sino ad includere dalla fase pre-adolescenziale
all’età di trentacinque anni[6], si
immedesimano in un personaggio che vedono in uno schermo e che possono gestire
come fosse il proprio corpo o, per dirla con McLuhan[7],
estensioni del proprio corpo. L’immedesimazione in un personaggio, ora visibile
e non più immaginato, con la sua storia e le sue caratteristiche: si affrontano
quelle che appaiono essere le sue paure (ma che in verità sono le nostre), lo
si guida in un’avventura che porterà a sviluppare le sue (nostre) abilità di
azione e relazione, grazie alla possibilità di sperimentare varie reazioni alle
alternative che il God, il programmatore, ha predisposto o, ancora, in risposta
alle azioni che gli altri giocatori, attori virtuali che agiscono
contemporaneamente a noi, eseguono. Si ricreano società reali nel
mondo virtuale che sempre più cerca di riplasmare un nuovo mondo reale:
l’allievo che supera il maestro. Sono luoghi in cui si convive e si socializza,
nei quali si apprendono regole e norme che non si discostano da quelle che un
tempo spettava a famiglia e a scuola insegnare. Un processo di educazione che
si è migliorato in quanto maggiore è la sensibilità all’ascolto da parte dei
soggetti. Se consideriamo che il processo di socializzazione, sulla base della
nota suddivisione di Berger e Luckmann, oltre a non terminare mai è diviso
inizialmente in due fasi, una primaria e una secondaria, possiamo domandarci se
un videogioco può incidere sull’educazione dell’essere umano. Se nella
primaria, rappresentata dalle relazioni con la famiglia, si inserisce un nuovo
elemento, il computer, lo schermo, il videogioco, è evidente come le nuove
generazioni, rispetto alle precedenti, sviluppino un rapporto di confronto e di
socializzazione con queste nuove tecnologie sin da subito, (volendo dare un
quadro cronologico, potremmo considerare che questa nuova socializzazione ha
iniziato a verificarsi in questi ultimi anni). Ed è altresì supponibile una
forte influenza sui processi mentali e culturali del bambino. Questi si trova
già a relazionarsi con dinamiche di gioco e di conoscenza dell’altro diverse da
quelle di decenni fa: giocando online conosce nuove persone (bambini o adulti),
che può vedere nel loro aspetto reale o rappresentati da un’immagine, un
disegno, un corpo animato tridimensionale. È senz’altro auspicabile che una
relazione a distanza di questo tipo consenta più facilmente di comprendere le
culture diverse dalla propria, confrontarsi con esse, accettarle. L’era della
glocalizzazione può divenire concreta passando magari proprio attraverso queste
dinamiche relazionali. Il gioco come educazione? I
prodotti edutainment sono diffusi, in alcuni casi usati in vere aule
scolastiche. Il rapporto con lo schermo, come abbiamo descritto nella prima
parte, è ormai onnipresente. Alla luce di giochi come American’s Army,
sviluppato dall’esercito americano, ci si domanda però quale sia il confine tra
educazione e addestramento. Sappiamo che il secondo termine indica una sorta di
educazione al rispetto del comando: essere addestrati a qualcosa vuol dire
eseguire un’azione senza riflettere sull’ordine ricevuto. Se un soldato dovesse
ogni volta soffermarsi a decidere se il comando che ha ricevuto è giusto o
meno, non agirebbe più. L’addestramento tende ad evitare l’incertezza.
American’s Army nasce come videogioco di addestramento per i soldati americani:
poi si è deciso di diffonderlo alla comunità di giocatori di tutto il mondo che
avevano ora la possibilità di cimentarsi nelle operazioni di addestramento di
un vero esercito. Questo passaggio, dal privato al pubblico, non è certamente
nuovo: gli stessi simulatori di volo sono nati prima come strumenti di
addestramento per i piloti e poi come strumento di intrattenimento ludico per
il vasto pubblico. Ma ci sono anche giochi educativi, di impegno umanitario,
come FoodForce: “se la fame nel mondo
resta un mostro difficile da debellare, si può almeno provare a sensibilizzare
le coscienze dell'Occidente: per farlo anche
un videogame può andare bene. È un gioco del Programma Alimentare
Mondiale delle Nazioni Unite (PAM), l'organizzazione delle Nazioni Unite per
l'alimentazione e l'agricoltura, ideato per educare i più giovani ad una delle
più gravi emergenze del pianeta”[8]. Lo
ripetiamo, la possibilità, attraverso il gioco, di comprendere il mondo e
provare a risolvere i suoi problemi: parafrasando Beck potremmo dire che si
tenta un processo di socializzazione al rischio[9]. Sul video-gioco Si tirino le somme: lo schermo
dinamico – come lo ha definito Manovich[10] –
consente di vedere ciò che avviene a enormi distanze da noi, in tempo reale. Il
gioco al computer, consente di sperimentare nuovi processi di riflessione,
azione e reazione, ai movimenti altrui. Entrambi, il video e il gioco,
consentono di relazionarsi con persone appartenenti a contesti culturali
diversi dal nostro. Il videogioco è quindi la chiave di accesso al multiculturalismo?
Sicuramente, lo abbiamo scritto, entrambi sono ormai accessibili all’uomo sin
dai suoi primi anni di vita: oltre ai genitori, il bambino conosce i parenti
che vivono in un’altra nazione; fa la loro conoscenza attraverso uno schermo e
una webcam. Fisicamente non li può toccare ma li può vedere e sentire. Viene
socializzato alle nuove tecnologie e quando sarà cresciuto saprà già
utilizzarle, faranno parte delle sue routine mentali. Non dovrà farsi spiegare
da nessuno come si cambia suoneria al cellulare, come si mette un dvd, come ci
si collega ad internet. Certo, probabilmente non saprà neppure più come si
riavvolge una videocassetta e ragionerà in termini di liquidità più che di
materialità: concepirà la musica, le immagini, i video, come prodotti senza
supporti fisici (non una VHS, non un DVD, non una musicassetta), solo dei
files; insieme di bit e di informazioni trasferibili a distanza[11].
Dopotutto noi stessi non riflettiamo quotidianamente su come era la vita un
paio di secoli fa quando per trasmettere una notizia era necessario recarsi
fisicamente dall’emittente al destinatario. Oggi premiamo un tasto e il nostro
messaggio arriva a destinazione; attendiamo qualche minuto e abbiamo una
risposta. Il feedback è immediato. I videogiochi online si muovono
pressoché sulla stessa linea: non si gioca più con un personaggio
preprogrammato che effettua sempre le stesse azioni (e quindi prevedibile); si
gioca con un altro essere umano, anzi con molti esseri umani. Si confronta la
propria intelligenza, si costruiscono strategie, si mettono a punto azioni di
gruppo; si allargano le proprie reti sociali e relativo capitale sociale[12]. Si
crea una conoscenza e una coscienza collettiva[13]; non
più locale ma globale, non più solo oltre il senso del luogo[14] ma
glocale. Tutto il mondo attorno a noi … attraverso uno schermo.
[5] E. Goffmann, Espressione
e identità. Gioco, ruoli, teatralità, Il Mulino, Bologna, 2003.
[6] Secondo i recenti rapporti IARD
[7] M. McLuhan, Gli
strumenti del comunicare. mass media e società moderna, Net, Milano, 2003.
[8] Tratto da: http://www.calshop.biz/food_force.html
[9] U. Beck, La
società del rischio: verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2000.
[10] L. Manovich, Il
Linguaggio dei Nuovi Media, Olivares, Segrate, 2005.
[11] W. Mitchell, La
città dei bits: spazi, luoghi e autostrade informatiche, a cura di S.
Polano, Electa, Milano, 1997.
[12] P. Bourdieu, Le capital social. Notes provisoires, in
Actes de
[13] P. Lévy, L’intelligenza
collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, 2002. [14] J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L'impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, Baskerville, Bologna, 1995.
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