Le relazioni non pericolose tra video e gioco, probabilmente di Dario De Notaris

 

Teatro e psicologia si è scritto all’inizio, due elementi che sono fortemente collegati alla società: nella propria vita l’essere umano – per dirla à la Goffman[5] – recita un ruolo, anzi più di uno, e la sua vita si svolge su quell’enorme palco che è il mondo; agisce in risposta alle azioni altrui, viste o previste, e adegua il proprio comportamento alle situazioni che via via si trova a dover affrontare. Il processo comincia sin dall’infanzia quando il bambino fantastica di essere qualcun altro, dal proprio genitore a un personaggio famoso che ha visto in tv o letto nei libri. Oggi i giovani, termine che negli anni ha incluso sempre più fasce d’età sino ad includere dalla fase pre-adolescenziale all’età di trentacinque anni[6], si immedesimano in un personaggio che vedono in uno schermo e che possono gestire come fosse il proprio corpo o, per dirla con McLuhan[7], estensioni del proprio corpo. L’immedesimazione in un personaggio, ora visibile e non più immaginato, con la sua storia e le sue caratteristiche: si affrontano quelle che appaiono essere le sue paure (ma che in verità sono le nostre), lo si guida in un’avventura che porterà a sviluppare le sue (nostre) abilità di azione e relazione, grazie alla possibilità di sperimentare varie reazioni alle alternative che il God, il programmatore, ha predisposto o, ancora, in risposta alle azioni che gli altri giocatori, attori virtuali che agiscono contemporaneamente a noi, eseguono.

Si ricreano società reali nel mondo virtuale che sempre più cerca di riplasmare un nuovo mondo reale: l’allievo che supera il maestro. Sono luoghi in cui si convive e si socializza, nei quali si apprendono regole e norme che non si discostano da quelle che un tempo spettava a famiglia e a scuola insegnare. Un processo di educazione che si è migliorato in quanto maggiore è la sensibilità all’ascolto da parte dei soggetti. Se consideriamo che il processo di socializzazione, sulla base della nota suddivisione di Berger e Luckmann, oltre a non terminare mai è diviso inizialmente in due fasi, una primaria e una secondaria, possiamo domandarci se un videogioco può incidere sull’educazione dell’essere umano. Se nella primaria, rappresentata dalle relazioni con la famiglia, si inserisce un nuovo elemento, il computer, lo schermo, il videogioco, è evidente come le nuove generazioni, rispetto alle precedenti, sviluppino un rapporto di confronto e di socializzazione con queste nuove tecnologie sin da subito, (volendo dare un quadro cronologico, potremmo considerare che questa nuova socializzazione ha iniziato a verificarsi in questi ultimi anni). Ed è altresì supponibile una forte influenza sui processi mentali e culturali del bambino. Questi si trova già a relazionarsi con dinamiche di gioco e di conoscenza dell’altro diverse da quelle di decenni fa: giocando online conosce nuove persone (bambini o adulti), che può vedere nel loro aspetto reale o rappresentati da un’immagine, un disegno, un corpo animato tridimensionale. È senz’altro auspicabile che una relazione a distanza di questo tipo consenta più facilmente di comprendere le culture diverse dalla propria, confrontarsi con esse, accettarle. L’era della glocalizzazione può divenire concreta passando magari proprio attraverso queste dinamiche relazionali.

Il gioco come educazione? I prodotti edutainment sono diffusi, in alcuni casi usati in vere aule scolastiche. Il rapporto con lo schermo, come abbiamo descritto nella prima parte, è ormai onnipresente. Alla luce di giochi come American’s Army, sviluppato dall’esercito americano, ci si domanda però quale sia il confine tra educazione e addestramento. Sappiamo che il secondo termine indica una sorta di educazione al rispetto del comando: essere addestrati a qualcosa vuol dire eseguire un’azione senza riflettere sull’ordine ricevuto. Se un soldato dovesse ogni volta soffermarsi a decidere se il comando che ha ricevuto è giusto o meno, non agirebbe più. L’addestramento tende ad evitare l’incertezza. American’s Army nasce come videogioco di addestramento per i soldati americani: poi si è deciso di diffonderlo alla comunità di giocatori di tutto il mondo che avevano ora la possibilità di cimentarsi nelle operazioni di addestramento di un vero esercito. Questo passaggio, dal privato al pubblico, non è certamente nuovo: gli stessi simulatori di volo sono nati prima come strumenti di addestramento per i piloti e poi come strumento di intrattenimento ludico per il vasto pubblico. Ma ci sono anche giochi educativi, di impegno umanitario, come FoodForce: “se la  fame nel mondo resta un mostro difficile da debellare, si può almeno provare a sensibilizzare le coscienze dell'Occidente: per farlo anche  un videogame può andare bene. È un gioco del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (PAM), l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura, ideato per educare i più giovani ad una delle più gravi emergenze del pianeta”[8]. Lo ripetiamo, la possibilità, attraverso il gioco, di comprendere il mondo e provare a risolvere i suoi problemi: parafrasando Beck potremmo dire che si tenta un processo di socializzazione al rischio[9].

Sul video-gioco

Si tirino le somme: lo schermo dinamico – come lo ha definito Manovich[10] – consente di vedere ciò che avviene a enormi distanze da noi, in tempo reale. Il gioco al computer, consente di sperimentare nuovi processi di riflessione, azione e reazione, ai movimenti altrui. Entrambi, il video e il gioco, consentono di relazionarsi con persone appartenenti a contesti culturali diversi dal nostro. Il videogioco è quindi la chiave di accesso al multiculturalismo? Sicuramente, lo abbiamo scritto, entrambi sono ormai accessibili all’uomo sin dai suoi primi anni di vita: oltre ai genitori, il bambino conosce i parenti che vivono in un’altra nazione; fa la loro conoscenza attraverso uno schermo e una webcam. Fisicamente non li può toccare ma li può vedere e sentire. Viene socializzato alle nuove tecnologie e quando sarà cresciuto saprà già utilizzarle, faranno parte delle sue routine mentali. Non dovrà farsi spiegare da nessuno come si cambia suoneria al cellulare, come si mette un dvd, come ci si collega ad internet. Certo, probabilmente non saprà neppure più come si riavvolge una videocassetta e ragionerà in termini di liquidità più che di materialità: concepirà la musica, le immagini, i video, come prodotti senza supporti fisici (non una VHS, non un DVD, non una musicassetta), solo dei files; insieme di bit e di informazioni trasferibili a distanza[11]. Dopotutto noi stessi non riflettiamo quotidianamente su come era la vita un paio di secoli fa quando per trasmettere una notizia era necessario recarsi fisicamente dall’emittente al destinatario. Oggi premiamo un tasto e il nostro messaggio arriva a destinazione; attendiamo qualche minuto e abbiamo una risposta. Il feedback è immediato.

I videogiochi online si muovono pressoché sulla stessa linea: non si gioca più con un personaggio preprogrammato che effettua sempre le stesse azioni (e quindi prevedibile); si gioca con un altro essere umano, anzi con molti esseri umani. Si confronta la propria intelligenza, si costruiscono strategie, si mettono a punto azioni di gruppo; si allargano le proprie reti sociali e relativo capitale sociale[12]. Si crea una conoscenza e una coscienza collettiva[13]; non più locale ma globale, non più solo oltre il senso del luogo[14] ma glocale. Tutto il mondo attorno a noi … attraverso uno schermo.


[5] E. Goffmann, Espressione e identità. Gioco, ruoli, teatralità, Il Mulino, Bologna, 2003.

[6] Secondo i recenti rapporti IARD

[7] M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare. mass media e società moderna, Net, Milano, 2003.

[8] Tratto da: http://www.calshop.biz/food_force.html

[9] U. Beck, La società del rischio: verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2000.

[10] L. Manovich, Il Linguaggio dei Nuovi Media, Olivares, Segrate, 2005.

[11] W. Mitchell, La città dei bits: spazi, luoghi e autostrade informatiche, a cura di S. Polano, Electa, Milano, 1997.

[12] P. Bourdieu, Le capital social. Notes provisoires, in Actes de la Recherche en Sciences Sociales, 3, 31, 1980.

[13] P. Lévy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, 2002.

[14] J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L'impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, Baskerville, Bologna, 1995.

 

    [1] [2] (3)