Oltreumano, troppo oltreumano

 

di Gianluca Attademo



 

La diade bioetica e futuro si può declinare nel segno degli irenici scenari di una tecnologia che libera l’uomo dalle catene della necessità? O in quelli apocalittici di una umanità asservita alle sue produzioni materiali?

L’umanità che discute del futuro anzitutto dovrebbe chiederci se ci sarà… Lo ha detto Hans Jonas che proponeva di uscire dall’appiattimento sul presente dell’interrogazione etica classica proiettando la domanda bioetica sulle generazioni future… Nel 1979 il filosofo ebreo-tedesco proponeva l’idea che l’unica massima veramente universalizzabile è quella che assume come principio ispiratore la conservazione della vita umana così come la conosciamo.

Dopo trent’anni uno degli aspetti più paradossali del dibattito bioetico è che, accomunati nell’ansia per il futuro, ritroviamo il mirmecologo che ha segnato i nostri manuali di sociologia con l’ipotesi neopositivista di una etica determinata in maniera preponderante dai fattori ereditari, e il maestro francofortese che ci ha insegnato la dialettica tra pluralità legittima dei mondi di vita e l’universalità normativa dei principi morali. Edward Wilson e Jürgen Habermas (oltre ad essere nati ad otto giorni di distanza nel giugno del 1929) hanno dedicato due lavori recenti l’uno al Futuro della Vita (Codice Edizioni – Torino 2002), l’altro al Futuro della Natura Umana (Einaudi – Torino 2002) che, a partire da differenti prospettive e metodologie di indagine, pervengono a un monito analogo: l’umanità deve decidersi per se stessa, prima che sia troppo tardi!

“Possiamo considerare l’autotrasformazione genetica della specie come un mezzo per accrescere l’autonomia individuale, oppure questa strada metterà a repentaglio l’autocomprensione normativa di persone che conducono la vita portandosi mutuo ed eguale rispetto?”.

La questione così come la ha impostata Jürgen Habermas è relativamente semplice: nel diffondersi progressivo di tecnologie che intervengono, prima della nascita ed in maniera irreversibile, sui fattori ereditari, si cela un modello d’azione che sottrae l’uomo alla dimensione costitutivamente intersoggettiva dell’agire e, come nei modelli eugenetici, lo destina ad un mondo dove la libertà individuale non è più pensabile.

Diventa allora fondamentale individuare gli eventuali passi già compiuti lungo questa strada ed individuare gli eventuali percorsi alternativi per prevenire questa uscita dell’umanità da se stessa. La posizione di Habermas è riconducibile alla retorica tecnofoba che soffoca il dibattito bioetico quando questo prova ad uscire dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori e a incontrare i reali destinatari della rivoluzione biotecnologica, cioè noi tutti?

Senza difficoltà possiamo rispondere di no perché come tutti i grandi testi questo lavoro di Habermas insegna a pensare, insegna a impostare i problemi, insegna a interrogarsi.“Un uomo geneticamente programmato deve vivere nella consapevolezza che il suo patrimonio ereditario -  nell’intento di modificare la struttura del suo fenotipo - è stato fatto oggetto di manipolazione. Prima di poter esprimere giudizi normativi su questa situazione di fatto, dobbiamo cercare di capire quali criteri potrebbero essere compromessi da questa strumentalizzazione…siccome l’integrità dei singoli individui viene anzitutto a dipendere dalla modalità rispettosa con cui essi si mettono reciprocamente in rapporto.” (Habermas 2002, p. 56).

 

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