Hic sunt canales TV

 

di Maria D'Ambrosio

 

Il mito e il suo racconto. Il libro. Il telescopio. La fotografia. Il cinema. La televisione. E poi Internet. E Google hearth. Tutto, e da sempre, al servizio di una forte spinta alla conoscenza dell’altro, di luoghi lontani. Ignoti. Tutto come un grande veicolo per il kibernetes (il pilota, il timoniere) di ogni tempo, il cui desiderio di esplorazione (e di dominio) si è fatto conquista, rito di passaggio, fuga, sconfinamento e poi viaggio. Movimento fisico e immaginario che ha generato spostamenti e passaggi epocali. Allargato gli orizzonti e ridefinito la mappa del mondo.

Hic sunt leones. Compariva sulle carte geografiche dell’antica Roma per indicare territori non ancora esplorati o comunque ritenuti particolarmente pericolosi. Ma, attualmente, crediamo tutto sia mappato, almeno se riferito al pianeta Terra, e, soprattutto, raggiungibile e percorribile. Fatte salve le tante e troppe zone del mondo in cui i leones sono rappresentati da guerre civili, etniche o religiose, si può ben dire che ‘nessun luogo è lontano’! Soprattutto nessun luogo è lontano allo sguardo umano se di continuo siamo sollecitati da immagini e informazioni che si riferiscono a paesi, città, territori, isole, mari e oceani cui dobbiamo una grande produzione di immaginario sull’oltre e sull’altrove. E proprio rispetto a quest’immaginario, si può ripensare alle forme di viaggio possibili e quindi alla ricca e vasta fenomenologia del viaggiatore, e in particolare del viaggiatore ‘globale’. Gli immaginari si mescolano e il viaggiatore assume anche qualcosa dell’esule, del nomade, del migrante, esibendo un’identità ibrida e più aperta delle altre al dialogo tra culture e ai loro possibili rimescolamenti e passaggi di confine. Insieme ai confini (territoriali, nazionali, politici) segnati da antiche carte geografiche, sembra svanire e dissolversi qualsiasi forma di limite alla deriva  esotica, e a tratti ancora imperialista, del cittadino globe trotter.

Lost e Lost in Translation[1] – oltre che il titolo della serie TV americana di culto l’uno e titolo del film di Sofia Coppola (2004) l’altro – sembrano un monito oppure un invito per quanti si dichiarano cosmopoliti e sostenitori del processo di deterritorializzazione (insieme a quello di de-nazionalizzazione) e però non si accorgono della forza e della deriva omologante esercitate dallo sguardo e pure dalla smania di conoscenza, che lascia ognuno riflettere il proprio mondo, o le proprie paure, sull’altro, vanificando le infinite possibilità di incontro e di traduzione, appunto. La fabbrica dei sogni esprime forte parentela con Le invasioni barbariche[2] e sfodera il suo armamentario voluttuario per meglio orientare gusti e consumi in modo da sembrare la più opportuna risposta alla necessità diffusa di andare oltre e di rompere con l’ordinario e con l’ovvio.

La voce ‘viaggi’ è una costante dei palinsesti TV, delle rubriche di riviste più o meno patinate e di reportage giornalistici, così come di annunci e spam pubblicitari che arrivano via Internet. Il marketing territoriale è sempre più un’importante voce delle agende politiche e orienta investimenti in direzione dell’industria del turismo e del divertimento, che sforna ‘pacchetti’ a basso costo oppure veri paradisi del lusso per soli vip. Esempio ne sia l’uscita, nella collana ‘Luxury’ dell’editore Teneues, del volume Luxury Private Islands in cui compaiono circa 200 isole paradisiache in vendita o in affitto per chi è alla ricerca di qualcosa di veramente unico, non importa se naturale o artificiale, che restituisca il sapore di meraviglia e di straordinario a chi, senza badare a spese, pensa così di poter rompere con il già visto e con la noia del quotidiano.

 


 

[1] S. Coppola, Lost in Translation, USA, 2003.

[2] D. Arcand, Le invasioni barbariche, Canada/Francia, 2002.

 

 

 

 

    (1) [2] [3]