Il pianeta delle ceneri e quello di celluloide: Auschwitz e il fantacinema di Guido Vitiello

 

 

Le eccezioni sono blande e sporadiche: i campi di concentramento sono tra gli antefatti della saga di X-Men – che nasce dai fumetti della Marvel e approda al cinema con il mediocre film di Bryan Singer. L’antieroe della saga, Magneto, ha subìto la mutazione destinata a conferirgli poteri paranormali nel momento in cui la Selektion nazista lo ha strappato ai genitori: la forza della disperazione ha fatto scaturire dalle sue mani campi magnetici in grado di riaprire per un attimo i cancelli del Lager, anche se invano. Sfogliando i due tomi dello Holocaust Film Sourcebook di Caroline J. Picart – a tutt’oggi il più ambizioso censimento dei film sull’Olocausto – ci si imbatte in altri incontri occasionali tra Auschwitz e la fantascienza, in film come Frankenstein - 1970 di Howard Koch o Anna to the Infinite Power di Robert Wiemer. E c’è poi il selvaggiamente brutto La fortezza di Michael Mann, che pure la Picart non menziona. In chiave didattica, un registro lato sensu “fantastico” è adottato in film come The Devil’s Arithmetic di Donna Deitch – dove Kirsten Dunst si trova a rivivere la storia di una sua antenata finita nei campi di concentramento – o nell’episodio firmato da John Landis nel film Ai confini della realtà.

Provo a chiedere a Marc, che ho messo a parte di questi pensieri vaganti, se conosce qualche altro film che mi possa essere sfuggito. Mi stupisce suggerendomi di rivedere in chiave concentrazionaria Soylent Green di Richard Fleischer, e si illumina quando gli faccio notare che l’edizione italiana si intitola 2022: i sopravvissuti. Per Marc, l’idea chiave del film – quella di uno spaventoso mondo futuro in cui i cadaveri umani sono utilizzati per produrre cibo sintetico – richiama lampantemente gli orrori nazisti. Sono come forni crematori alla rovescia, assicura. Non a caso, mi fa ancora notare, nel film il grande oppositore del nuovo mondo è l’anziano ebreo Solomon Roth, interpretato da Edward G. Robinson. Perbacco, potrebbe aver ragione. Vien quasi da pensare al celebre sproposito di Heidegger, l’amico dei nazisti che intervistato dallo Spiegel molti anni dopo la guerra si arrischiò ad accostare Auschwitz all’agricoltura meccanizzata. Ma questa tra Soylent Green e Auschwitz è una parentela ancora troppo blanda – e Andrea, il mio amico conoscitore di Fleischer che ho consultato al mio ritorno a Roma, esclude che potesse far parte della intentio auctoris.

A conti fatti, ho un solo esempio convincente di fantascienza concentrazionaria: è Death’s Head Revisited, episodio della leggendaria serie televisiva americana degli anni Cinquanta e Sessanta The Twilight Zone, in Italia uscita come Ai confini della realtà. Ciascun episodio di questa serie narra l’ingresso in una dimensione parallela, in una zona crepuscolare sospesa tra realtà e immaginazione. Nell’episodio in questione un ex gerarca nazista, il capitano Lutze, fa ritorno a Dachau dopo anni vissuti in Sudamerica sotto falso nome, e si decide a visitare il campo di concentramento dove ha servito il Terzo Reich spadroneggiando su prigionieri inermi e innocenti: la sua intenzione è quella di rievocare nostalgicamente i “bei tempi” del dominio assoluto. I cancelli del Lager, però, si chiudono attorno a lui, e le anime di quanti ha messo a morte si levano dalla polvere per processarlo; il loro verdetto suonerà beffardo: La sentenza unanime di questa corte è che da questo momento tu diventerai pazzo. In esergo all’episodio, la voce fuori campo sottolinea che un luogo come Dachau non esiste solo in Baviera. Per la sua particolare natura deve trovarsi in una delle aree popolate che stanno ai confini della realtà. In fondo, ce lo avevano già detto David Rousset e Primo Levi, Robert Antelme e Piotr Rawicz.

Mentre penso a tutto questo si è fatta sera, la nostra guida si è congedata e ci ha lasciati a passeggiare per Birkenau, la “piana delle betulle”. Tra i resti di questo sito per metà archeologico e per metà fantascientifico, sconfinato e silenziosissimo deposito di “rovine dal futuro” che ricorda Pompei quanto la Luna – tutto fuorché un monumento storico o un lieu de mémoire – mi capita di pensare che Andrej Tarkovskij avrebbe potuto girare qui il suo capolavoro Stalker. Ma a conti fatti i vagabondaggi dello “stalker” Claude Lanzmann nelle nove e più ore di Shoah sono impresa della stessa natura.

Ormai siamo fuori dai cancelli, si torna sul pullman come da una qualunque escursione o scampagnata, il finestrino imperlato dalla pioggia confonde filo spinato, torrette e baracche in una visione nebbiosa, illanguidita. Mi siede accanto un ortodosso in kippà, un filosofo che insegna in Israele. Parliamo di tante cose, o forse di una sola: di Margarete Susman e del suo libro su Giobbe, di quell’artista israeliano che ha manipolato la voce di Hitler per farlo parlare in ebraico, dei film italiani che hanno rappresentato il nazismo in chiave erotica. La conversazione mi distoglie dalle impressioni della giornata, che d’altronde non hanno avuto tempo per depositarsi in me.

Quando torno, a sera, nella foresteria dell’Università, mi trovo a chiedermi dove davvero sono stato durante il giorno; e se per caso anch’io, varcato quel cancello, mi sono ritrovato per qualche ora in una delle aree popolate che stanno ai confini della realtà.

 

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