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Giunti alla meta, ci assale
subito un’evidenza lampante: è impossibile, ormai, vedere Auschwitz per la
prima volta, con occhi vergini. Nemmeno facciamo a tempo a varcare l’ingresso
che già ci si affollano davanti agli occhi, quasi a interporsi tra noi e la
percezione del momento presente, le mille immagini già viste in film,
documentari, fotografie, le mille descrizioni lette in tanti romanzi, diari,
testimonianze, opere storiche. Ma il cartello Arbeit macht frei era davvero così piccolo? Perché allora nei film
sembra così imponente? E le latrine, a Birkenau? Com’è possibile che in Schindler’s List i bambini vi si
calassero per usarle come nascondigli, con questi fori così angusti? Auschwitz è ai nostri occhi un
luogo sinistramente familiare. Non recupereremo mai nemmeno un briciolo di
quella sensazione così ricorrente nei resoconti dei sopravvissuti: la
sensazione di esser stati balestrati in un altro mondo, alieno e irreale, un
mondo retto da leggi proprie e indecifrabili, un mondo affatto irriducibile a
quello dell’esperienza ordinaria. Stranieri
in terra straniera, per citare il maestro della fantascienza Robert A.
Heinlein. Quando a Gerusalemme, durante il
processo contro il supremo burocrate dello sterminio Adolf Eichmann, mostrarono
a Yahiel De-Nur il pigiama grigioazzurro degli internati, questi non ebbe
tentennamenti: È la divisa del pianeta
Auschwitz. L’ex deportato, divenuto poi scrittore con il non-nome di
Ka-Tzetnik 135633 (il suo numero identificativo ad Auschwitz), proseguì con una
speculazione cosmologica che è insolito trovare tra gli atti di un processo: Credo con assoluta certezza che, proprio
come in astrologia le stelle influenzano il nostro destino, così questo pianeta
delle ceneri, Auschwitz, è in opposizione al nostro pianeta terra, e lo
influenza. Dobbiamo al romanziere
israeliano David Grossman una notazione finissima: Ho notato che quando gli ebrei
parlano della Shoah, dicono quello che è
successo laggiù, in qualsiasi lingua si esprimano. Quando a parlare
dell’olocausto sono i non-ebrei, essi dicono quello che successe allora, in quei giorni. Penso che questa
differenza sia importante e significativa perché per noi, stranamente, è come
se quel periodo e quel luogo esistessero ancora, laggiù, in modo simultaneo e parallelo rispetto alla nostra realtà
odierna e quotidiana.[1] Un mondo parallelo, che
interferisce con il nostro e da cui promanano radiazioni letali. Dunque
l’equivoco La grande letteratura sui campi
– fin dal David Rousset dell’Universo concentrazionario,
forse – ha una parentela con i modi del fantastico e della fantascienza più
larga di quel che si creda. Non altrettanto si può dire del cinema. Certo, gli
anni Sessanta e Settanta hanno visto fiorire molti incubi fantapolitici
popolati di nazisti – basti pensare al leggendario (e oggi comicissimo) B-Movie
They Saved Hitler’s Brain di David
Bradley o a I ragazzi venuti dal Brasile
di Franklin J. Schaffner, o perché no all’Ingmar Bergman dell’Uovo del serpente. Ma quasi mai i Lager
sono stati riletti in chiave apertamente fantastica o fantascientifica. Persino
i comici, dal Jerry Lewis di The Day the
Clown Cried al Benigni di La vita è
bella, hanno varcato i cancelli di Auschwitz: non i maestri della
fantascienza.
[1] D. Grossman, La
memoria della Shoah. Intervista di Matteo Bellinelli, Casagrande 2000,
pagg. 19-20.
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