Il pianeta delle ceneri e quello di celluloide: Auschwitz e il fantacinema* | |
di Guido Vitiello | |
Are you a Gentile? Avrò risposto mille volte a
questa domanda: a quanto pare, che un non ebreo dedichi tanta parte dei suoi
studi alla Shoah è per alcuni circostanza a tal punto insolita da doverne
chiedere espressamente ragione. Stavolta la curiosità ha colto Yvonne, una
donna israeliana minuta quanto energica che insegna cinema a due passi dalla
Striscia di Gaza, in aule universitarie lambite quasi ogni giorno dai
rudimentali razzi assemblati negli arsenali palestinesi. Faccio cenno di aprir
bocca per dare anche a lei la risposta di prammatica, ma l’altro che passeggia
insieme a noi per le vie di Kazimierz – malinconico vestigio di quel che fu il
quartiere ebraico di Cracovia, popolato oggi dal “piccolo resto” degli scampati
alla furia nazista e dai loro eredi – sembra non aver inteso bene la domanda. Are you a what? A Jedi? Gentile, Jedi:
non ci avevo fatto caso, nella pronuncia inglese le due parole hanno quasi lo
stesso suono, soprattutto se chi le ascolta ha le orecchie fasciate dallo
sferzante e ostinato vento polacco. Ma è certo che un’associazione di idee così
stravagante poteva scoccare solo nella mente di un cinefilo un po’ nerd e cultore della fantascienza –
quale è per l’appunto Marc, il giovane ebreo di Milwaukee e studioso di arti
grafiche che cammina al nostro fianco. L’associazione è bislacca, ma è
fuor di dubbio che agli occhi di molti Gentili, tra gli anni Trenta e Quaranta
del secolo scorso, gli ebrei dovettero apparire davvero come degli alieni,
delle creature da un altro mondo. Ripenso a una pagina terribile di Primo Levi,
quella che descrive l’incontro con il Doktor Ingenieur Pannwitz del Reparto
Polimerizzazione di Auschwitz. Davanti alla scrivania del dottore che lo ha
convocato per accertare le sue competenze di chimico, Levi si sente trapassato
da parte a parte da uno sguardo indecifrabile, mai incontrato nella vita
precedente, scambiato come attraverso la
parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi.
Agli occhi di Pannwitz e di tanti come lui, appannati dal delirio razzista del
Terzo Reich, Levi è letteralmente un alieno, originario di chissà quale
pianeta: Il cervello che sovrintendeva a
quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: “Questo qualcosa davanti
a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso
particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento
utilizzabile”. Mentre la nostra passeggiata
prosegue fino alla Sinagoga Vecchia, mi affiora alla memoria, per lampi, la
sequenza finale di Incontri ravvicinati
del terzo tipo di Steven Spielberg. Quelle sagome ischeletrite, gracili,
che sotto sguardi allibiti escono quasi barcollando dalla grande astronave, nella
memoria iconografica profonda dell’Occidente non possono che richiamare i pochi
scampati ai Lager in cui gli Alleati e i russi s’imbatterono nei giorni della
Liberazione. La radicale estraneità dei loro sguardi, quasi lanciati da un
altro mondo eppure tanto prossimi e inaggirabili, il loro contegno inerme
quanto oscuramente giudicatore: tutto questo è documentato in centinaia di foto
e di filmati.
Non ho seguito il filo di queste
associazioni né vi ho dato molto peso, tanto più che si era in quel clima di
mondanità e goliardìa tipico dei convegni accademici – solo un poco smorzato
dalla gravità del tema: Legacy of the
Holocaust. The World Before, the World After. Nel pomeriggio, alla
Università Jagellonica che ospitava la conferenza, Yvonne aveva parlato del
modo in cui i primi filmati girati dopo la liberazione hanno plasmato
l’immaginario cinematografico, e a seguire io avevo tenuto un breve intervento
sull’importanza dei generi cinematografici come criterio per studiare la
filmografia della Shoah. Il giorno dopo, al mattino, ci
aspettava il luogo intorno al quale da anni orbitavano le nostre ossessioni
condivise: Oswiecim, la località che i tedeschi ribattezzarono,
irrevocabilmente e per l’eternità, Auschwitz. Meglio andarci in pullman che in treno,
scherza Marc. Lui, figlio di sopravvissuti, può permettersi questo umor nero. O
forse no? Non lo sa nemmeno lui, e nel dubbio si scusa. Poi aggiunge, quasi a
rincarare la dose: Speriamo solo che sul
muso del pullman non ci sia scritto “Auschwitz”. Questa è ben più di una
battuta, però. È l’ironia atroce, stridente, che è quasi connaturale al far
“turismo” in quello che fu il massimo centro di sterminio nazista.
* L’articolo prende spunto da un
viaggio realmente compiuto dall’Autore in Polonia.
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