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È qui il senso dell’idea di modularità,[5] secondo cui ogni individuo prova di continuo a forgiarsi
autonomamente, assumendo senza sosta un aspetto differente, trasformandosi
ininterrottamente, per aprirsi alla novità costante, per indossare maschere,
per assumere ruoli variegati, temporanei, perfino in disaccordo tra loro. In un
mondo in cui anche le idee, le istituzioni, i saperi sembrano a molti avere
vita breve e contraddittoria.[6] Pur non essendo consumatori incalliti, Kit e Port
in quanto viaggiatori, visti come
metafore dell’uomo contemporaneo, sembrano personaggi del tutto baumaniani. Nel
loro magari involontario ossequio alla caducità, all’esperienza effimera,
all’assenza di legami durevoli, ecco che ripercorrono itinerari simili a parte
dell’immaginario sociologico attuale: sono allora anche flâneur, in un mondo di estranei che rappresentano volta per volta
attori inconsapevoli delle loro rappresentazioni fittizie, nel loro distacco
artificioso dal mondo opprimente ed esigente; sono vagabondi incapaci di adattarsi, smaniosi di muoversi e fuggire;
sono, loro malgrado, turisti – almeno
nel senso precedentemente descritto – sempre alla ricerca di nuove ed energiche
sensazioni, ormai inespressivi ed impassibili, difficilmente colpiti
emotivamente. Una casa in effetti ce l’hanno, almeno così parrebbe, e ciò gli
dà sicurezza, ma tornare o meno ha pochissima importanza, praticamente nulla;
sono in ultimo giocatori, preda della
casualità più confusa. I due coniugi vivono, per esplicita ammissione,
senza programmi. La loro vita, è lampante, si concentra esclusivamente sul
presente. Semplicemente un insieme di episodi sconnessi, forse in cerca dei
sempre innovativi piaceri dell’istante, sebbene con un’apatica incapacità di
goderne appieno la sostanza. In quanto espressione traslata dell’individuo tardomoderno – almeno della sua rappresentazione – essi sono fautori di
un’identità che si rinnova di continuo, all’insegna dell’abbandono del
consolidato, che però non riesce a stabilizzarsi ed a contrastare la precarietà
dilagante. Un’identità che naviga a vista in un mondo considerato spesso come liquido, ossia senza una forma stabile e
duratura.[7]
L’immagine di se stessi può così dare corpo ad un’auto-percezione frammentaria
e sinistra, perché non può giovarsi della continuità sensata degli eventi nella
costruzione di personalità coerenti, seppur modificabili, lungo l’arco di
un’intera e salubre biografia. E Kit e Port vivono nello stato di inquieto
abbandono tipico di questa rappresentazione. Sembrano innanzitutto privi di
legami con una memoria dispensatrice di senso. Il passato in quanto tale sembra
inutile, perfino quello strettamente personale, in quanto non incide
minimamente sull’essere presente. Anche il futuro non conferisce quei modelli
di riferimento prospettici cui tentare di adeguare il proprio agire, appunto
perché non ci si aspetta niente dalla vita. Solo, in ambigua contraddizione,
attesa del nulla e fuga dal nulla stesso. Una condizione narrata in molti
contributi sociologici sull’epoca contemporanea. Ma, ci si può chiedere, la nostra è davvero un’età
senza alcuna rotta come un sentire diffuso lascia presagire? Questa weltanshauung non può forse
marginalizzare il suo tetro nichilismo e aiutare nuove progettualità e nuove
immagini della storia?
[4] Ibidem,
p. 111.
[5] Z. Bauman, La
solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 159 e segg.
[6] Per un’analisi d’ampio raggio del pensiero
relativo alla post-modernità, si rimanda a K. Kumar, Le nuove teorie del mondo contemporaneo. Dalla società post-industriale
alla società post-moderna, Einaudi, Torino 2000.
[7] Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002; Id, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2006.
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