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Così viaggiò Fitzcarraldo | |
di
Alfonso Amendola | |
“Chi sogna può muovere le montagne” è questa la centralità del Fitzcarraldo di Werner Herzog[1] (il film dell’estremo
viaggiare del 1981 e Palma d’oro a Cannes nel 1982). Film in cui il tema del
viaggio si unisce alle profondità del desiderio, del sogno, della volontà di
potenza, della passione, dell’estremo come modo d’essere al mondo. Film per
visionari e per chi sa che il “dato reale” è soltanto un’opinione parziale. Nel
passaggio tra la fine Ottocento (quel secolo che Baudelaire volle definire
“secolo a lutto”) e l’inizio del
Lucida anomalia il cinema di Herzog, riuscita unione tra realtà e
finzione che lo porterà a scalare l’Himalaya e a sorvolare i pozzi di petrolio
in fiamme nell’Iraq del dopoguerra. E che in qualche modo distanzia il regista
natio di Monaco di Baviera dalla grande scuola della Neue Welle tedesca dove anche per differente tensione politica
possiamo, giustamente, parlare di un “appartato Herzog”[3]. Artefice di un cinema a matrice anarchica che nel suo andare filmico
predilige l’estremo come taglio dell’esistenza. In Aguirre, furore di Dio (1972) la guida è un estremo nulla verso un
atroce Eldorado; Cuore di vetro
(1976) l’estremo è nella costruzione d’immagini e nello stato di trance che
abita l’intero film, parabola sulla follia e sul disastro atomico; Dove sognano le formiche verdi (1984) l’estremo è la lotta del popolo degli aborigeni
contro la violenza dell’Occidente; con Cobra verde (1987) Herzog “traduce” in chiave estrema il romanzo di
Bruce Chatwin riscrivendolo con vigore onirico, allucinato, convulso e dal
ritmo volutamente a-narrativo. L’elenco dell’estremo nell’opera cinematografica
di Herzog potrebbe continuare (riflettendo anche sul nodale rapporto con il
“suo” Klaus Kinski[4]), ma voglio solo aggiungere che nel suo cinema c’è un ulteriore,
potentissima, amplificazione: l’estrema musica dei Popol Vuh (il gruppo fondato
in Germania nel 1969 da Florian Fricke e che è sodale colonna sonora di quasi
tutto il cinema di Herzog[5]). Ma ritorniamo al nostro Brian Sweeny Fitzgerald e al suo titanico
volere. Per Fitzcarraldo l’idea del suo viaggio estremo è cercare di far
trionfare una passione totale. Ma è anche – nel suo rigoroso bianco vestito –
sporcarsi gli occhi con il miraggio, guardare oltre la grana del possibile
delle cose, sentire dentro di sé tutta la pienezza del mondo. Quasi in preda ad
una cecità, che banalmente qualcuno potrebbe definire folle, Fitzcarraldo è un
viaggiatore guidato dalla passione, una passione che graffia, urla, esplode,
delira ed è quello statuto di passioni estreme che ciclicamente troviamo nel
cinema del “mistico e poetico”[6] di Herzog. Per lui (lo diciamo con consapevolezza critica e senza
cadere in facili psicologismi autore/opera) Fitzcarraldo è decisa metafora di
se stesso e della propria arte cinematografica. Del Fitzcarraldo realmente
esistito, che fu un importante industriale della gomma che per raggiungere una
collina veramente smontò una nave, Herzog predilige la componente estremistica.
In sostanza, quello che al regista urge raccontare non è la cronistoria di una
grande intrapresa, bensì suo obiettivo è raccontare con potenza immaginativa,
la volontà del viaggio, accecante e visionario al contempo[7]. Un viaggio che
[1] Cfr. Werner Herzog, La conquista dell’inutile, a cura di Monica Pesetti e Anna Ruchat,
Mondadori, Milano, 2007. Il testo raccoglie il diario che Herzog scrisse
durante la lavorazione del film che durò dal 1979 al 1981, testo vitalistico, potente
e decisamente fondamentale per comprendere il film e l’ansia visionaria del
regista. Per una ricostruzione della sceneggiatura cfr. Werner Herzog, Fitzcarraldo, Guanda, Milano, 1982. Per
una prima bibliografia sul regista cfr. Fabrizio Grosoli e Elfi Reiter, Werner
Herzog, Editrice Il Castoro, Milano, 1994. Ma si vedano anche Luisa Ceretto
e Alberto Morsiani (a cura di), Il limite estremo: i documentari di Werner
Herzog, Edizioni di Cineforum, Bergamo, 2006.
[2] Gilles Deleuze, “Le figure o la trasformazione
delle forme” in Id., L’immagine movimento,
Ubulibri, Milano, 1984, p. 212.
[3] Guido Vitiello, “L’autunno tedesco e l’ombra lunga
di Hitler. Cinema e terrorismo in Germania”, in Christian Uva (a cura di), Schermi di piombo. Il terrorismo nel cinema
italiano, Rubbettino, Catanzaro, 2007, p.189.
[4] Grande rapporto quello tra il regista tedesco e
l’attore di Danzica (uniti da 5 estremi film oltre ai citati Aguirre, Fitzcarraldo, Cobra verde, ricordiamo
il Nosteratu del 1978 e il Woyzeck dell’anno successivo). Per
cogliere la tensione (anche questa, estrema) che li univa ed allontanava si
veda il documentario Kinski il mio nemico
più caro grandioso affresco d’amicizia, rabbia e sregolatezza firmato da
Herzog nel 1999.
[5] Per chi voglia avvicinare l’estrema “musica senza
ritmo, di origini ancestrali” (Piero Scaruffi) dei Popol Vuh rimando al denso e
prezioso:
www.popolvuh.it/index.asp,
dove poter anche ritrovare un’ulteriore anima espressiva del nostro Werner Herzog.
[6] Alfonso Amendola e Gino Frezza, “Dramma. Forza e
squilibri di un trans-genere”, in Gino Frezza (a cura di), Fino all’ultimo film. L’evoluzione dei generi nel cinema, Editori
Riuniti, Roma, 2001, p. 192.
[7] Burden of
Dreams di Les Blank (1982) con rigorosa attenzione il documentario ricostruisce
l’epopea del film dove arte e vita voluttuosamente si rincorrono e si
contaminano. Il regista americano già nel 1980 aveva ritratto Herzog con un
insolito cortometraggio, nato da una “scommessa” del regista tedesco Werner
Herzog eats his Shoe, con un
divertito omaggio a Charlie Chaplin. In questa sede indico altri due
documentari (tedeschi) dedicati al regista di Fitzcarraldo per
rintracciare il suo modo e stile di lavoro (e vita): - Was ich bin
sind meine Filme (1978) di Christian
Weisenborn e Erwin Keuch; Bis ans Ende...und dann noch weiter.
Die ekstatische
Welt des Filmemachers Werner Herzog
di
Peter Buchka (1988).
[8] “La propria singolarità si costruisce solo sugli
abissi, tra blocchi di miseria scagliati a grande velocità nel nulla” Michel
Onfray, La scultura di sé. Per una morale
estetica, Fazi, Roma, 2007, p.29.
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