Così viaggiò Fitzcarraldo | |
di
Alfonso Amendola | |
“Chi sogna può muovere le montagne” è questa la centralità del Fitzcarraldo di Werner Herzog[1] (il film dell’estremo
viaggiare del 1981 e Palma d’oro a Cannes nel 1982). Film in cui il tema del
viaggio si unisce alle profondità del desiderio, del sogno, della volontà di
potenza, della passione, dell’estremo come modo d’essere al mondo. Film per
visionari e per chi sa che il “dato reale” è soltanto un’opinione parziale. Nel
passaggio tra la fine Ottocento (quel secolo che Baudelaire volle definire
“secolo a lutto”) e l’inizio del
Novecento (secolo di “brevità” ed elettronica)
Brian Sweeny Fitzgerald (il cui nome viene storpiato in Fitzcarraldo dagli
amazzoni) ha un sogno. Un sogno che si chiama lirica e che lo spinge a voler
realizzare a Manaus un grande Teatro dell’Opera dove poter ascoltare le
principali voci del bel canto (Enrico Caruso su tutti). Il suo è un sogno ricco
di desiderio, ma povero da un punto di vista economico. E la sua fama di
imprese fallimentari di certo non lo aiuta (una ferrovia transandina lasciata a
metà, una complessa macchina per fare il ghiaccio…). Ma lui è un viaggiatore
estremo e così in vascello risale la giungla, attraversa fiumi perché la sua
volontà titanica lo ha spinto a comprare un pezzo della terra amazzonica dove
costruire il suo teatro. La sua nave, successivamente, viene trasportata da
numerosi indios sopra tronchi e con ingegnosi argani e corde attraversa la
foresta (per volontà del regista tale trasporto fu davvero operato, in totale
dispregio della finzione filmica e creando non poche devastazioni a tutto il
cast tecnico ed artistico presente nella fase realizzativa di questo capolavoro
che ebbe due morti e numerosi feriti). Dalla volontà di potenza di Fitzcarraldo
nasce una dimensione di viaggio estremo, totale, inarrestabile, simbolo di
tutti i viaggiatori (folli, necessari) con tanto di nave trasportata tra le
montagne con un misto di sublime ed eroismo. Nel cinema di Werner Herzog,
infatti, “l’azione si sdoppia: c’è l’azione sublime, sempre al di là, ma essa
stessa genera un’altra azione, un’azione eroica che si confronta per conto suo
con l’ambiente, penetrando l’impenetrabile, sormontando l’insormontabile. C’è
dunque al contempo una dimensione allucinatoria in cui lo spirito agente
s’innalza fino all’illimitato nella Natura, e una dimensione ipnotica, in cui
lo spirito affronta i limiti che Lucida anomalia il cinema di Herzog, riuscita unione tra realtà e
finzione che lo porterà a scalare l’Himalaya e a sorvolare i pozzi di petrolio
in fiamme nell’Iraq del dopoguerra. E che in qualche modo distanzia il regista
natio di Monaco di Baviera dalla grande scuola della Neue Welle tedesca dove anche per differente tensione politica
possiamo, giustamente, parlare di un “appartato Herzog”[3]. Artefice di un cinema a matrice anarchica che nel suo andare filmico
predilige l’estremo come taglio dell’esistenza. In Aguirre, furore di Dio (1972) la guida è un estremo nulla verso un
atroce Eldorado; Cuore di vetro
(1976) l’estremo è nella costruzione d’immagini e nello stato di trance che
abita l’intero film, parabola sulla follia e sul disastro atomico; Dove sognano le formiche verdi (1984) l’estremo è la lotta del popolo degli aborigeni
contro la violenza dell’Occidente; con Cobra verde (1987) Herzog “traduce” in chiave estrema il romanzo di
Bruce Chatwin riscrivendolo con vigore onirico, allucinato, convulso e dal
ritmo volutamente a-narrativo. L’elenco dell’estremo nell’opera cinematografica
di Herzog potrebbe continuare (riflettendo anche sul nodale rapporto con il
“suo” Klaus Kinski[4]), ma voglio solo aggiungere che nel suo cinema c’è un ulteriore,
potentissima, amplificazione: l’estrema musica dei Popol Vuh (il gruppo fondato
in Germania nel 1969 da Florian Fricke e che è sodale colonna sonora di quasi
tutto il cinema di Herzog[5]). Ma ritorniamo al nostro Brian Sweeny Fitzgerald e al suo titanico
volere. Per Fitzcarraldo l’idea del suo viaggio estremo è cercare di far
trionfare una passione totale. Ma è anche – nel suo rigoroso bianco vestito –
sporcarsi gli occhi con il miraggio, guardare oltre la grana del possibile
delle cose, sentire dentro di sé tutta la pienezza del mondo. Quasi in preda ad
una cecità, che banalmente qualcuno potrebbe definire folle, Fitzcarraldo è un
viaggiatore guidato dalla passione, una passione che graffia, urla, esplode,
delira ed è quello statuto di passioni estreme che ciclicamente troviamo nel
cinema del “mistico e poetico”[6] di Herzog. Per lui (lo diciamo con consapevolezza critica e senza
cadere in facili psicologismi autore/opera) Fitzcarraldo è decisa metafora di
se stesso e della propria arte cinematografica. Del Fitzcarraldo realmente
esistito, che fu un importante industriale della gomma che per raggiungere una
collina veramente smontò una nave, Herzog predilige la componente estremistica.
In sostanza, quello che al regista urge raccontare non è la cronistoria di una
grande intrapresa, bensì suo obiettivo è raccontare con potenza immaginativa,
la volontà del viaggio, accecante e visionario al contempo[7]. Un viaggio che toglie le ombre al destino, che cancella le immagini
del razionale per spingere quelle profonde e laceranti del sogno e che nella
ricerca di un canto lirico vuole appropriarsi di tutta la foresta che lo
circonda. Una foresta (bella e feroce) che è lo scenario del viaggio di Fitzcarraldo, dove tutto si confonde e si reinventa (il desiderio, la
sofferenza, il destino, la volontà). Eppure la “sete d’insolito” e la “divina
natura”, cara all’Empedocle di Hölderlin,
saranno profondo alimento del nostro. Perché per lui viaggiare (nella
profanazione delle possibilità) è l’atto finale di sentire le cose. Come un
profeta antico che chiude gli occhi nel parlare – perché la visione del suo
dire lo acceca – così Fitzcarraldo infrange ogni mistica e avanza (con il corpo
e lo sguardo di un magistrale Klaus Kinski perfetto “sostituto” di un fuggito
Mick Jagger che Herzog aveva identificato come primo interprete del suo
viaggiatore estremo). Fitzcarraldo è un viaggiatore che urla, istiga, scrive
nel vento le mute figure delle sue visioni, le ascolta nel canto di Caruso
(presenza costante nel fonografo che accompagna l’impresa), s’innalza (immenso)
nell’attesa di una grandezza che violentemente cerca. Il tutto per cogliere
l’inafferrabile, conquistare l’impossibile, sognare-viaggiando percorrendo il
sogno (qualunque esso sia). Un sogno-viaggio che farà urlare al nicciano
protagonista “io sono l’astratto… io sono l’incanto”. Un temerario cammino
fatto di delirante resistenza, esplosivi imperativi, ossessione del nulla e
consapevole “saggezza tragica”[8].
[1] Cfr. Werner Herzog, La conquista dell’inutile, a cura di Monica Pesetti e Anna Ruchat,
Mondadori, Milano, 2007. Il testo raccoglie il diario che Herzog scrisse
durante la lavorazione del film che durò dal 1979 al 1981, testo vitalistico, potente
e decisamente fondamentale per comprendere il film e l’ansia visionaria del
regista. Per una ricostruzione della sceneggiatura cfr. Werner Herzog, Fitzcarraldo, Guanda, Milano, 1982. Per
una prima bibliografia sul regista cfr. Fabrizio Grosoli e Elfi Reiter, Werner
Herzog, Editrice Il Castoro, Milano, 1994. Ma si vedano anche Luisa Ceretto
e Alberto Morsiani (a cura di), Il limite estremo: i documentari di Werner
Herzog, Edizioni di Cineforum, Bergamo, 2006.
[2] Gilles Deleuze, “Le figure o la trasformazione
delle forme” in Id., L’immagine movimento,
Ubulibri, Milano, 1984, p. 212.
[3] Guido Vitiello, “L’autunno tedesco e l’ombra lunga
di Hitler. Cinema e terrorismo in Germania”, in Christian Uva (a cura di), Schermi di piombo. Il terrorismo nel cinema
italiano, Rubbettino, Catanzaro, 2007, p.189.
[4] Grande rapporto quello tra il regista tedesco e
l’attore di Danzica (uniti da 5 estremi film oltre ai citati Aguirre, Fitzcarraldo, Cobra verde, ricordiamo
il Nosteratu del 1978 e il Woyzeck dell’anno successivo). Per
cogliere la tensione (anche questa, estrema) che li univa ed allontanava si
veda il documentario Kinski il mio nemico
più caro grandioso affresco d’amicizia, rabbia e sregolatezza firmato da
Herzog nel 1999.
[5] Per chi voglia avvicinare l’estrema “musica senza
ritmo, di origini ancestrali” (Piero Scaruffi) dei Popol Vuh rimando al denso e
prezioso:
www.popolvuh.it/index.asp,
dove poter anche ritrovare un’ulteriore anima espressiva del nostro Werner Herzog.
[6] Alfonso Amendola e Gino Frezza, “Dramma. Forza e
squilibri di un trans-genere”, in Gino Frezza (a cura di), Fino all’ultimo film. L’evoluzione dei generi nel cinema, Editori
Riuniti, Roma, 2001, p. 192.
[7] Burden of
Dreams di Les Blank (1982) con rigorosa attenzione il documentario ricostruisce
l’epopea del film dove arte e vita voluttuosamente si rincorrono e si
contaminano. Il regista americano già nel 1980 aveva ritratto Herzog con un
insolito cortometraggio, nato da una “scommessa” del regista tedesco Werner
Herzog eats his Shoe, con un
divertito omaggio a Charlie Chaplin. In questa sede indico altri due
documentari (tedeschi) dedicati al regista di Fitzcarraldo per
rintracciare il suo modo e stile di lavoro (e vita): - Was ich bin
sind meine Filme (1978) di Christian
Weisenborn e Erwin Keuch; Bis ans Ende...und dann noch weiter.
Die ekstatische
Welt des Filmemachers Werner Herzog
di
Peter Buchka (1988).
[8] “La propria singolarità si costruisce solo sugli
abissi, tra blocchi di miseria scagliati a grande velocità nel nulla” Michel
Onfray, La scultura di sé. Per una morale
estetica, Fazi, Roma, 2007, p.29.
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