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Ma tale equilibrio comincia a sgretolarsi già nel
primo Novecento, quando la fiducia nel progresso e nella compartecipazione ad
un universo razionale e dispensatore di senso profondo perde gran parte della
sua credibilità,[2]
quando la sicurezza esistenziale dei legami socialmente solidi cede
definitivamente il passo ad una percezione di precarietà identitaria.
L’equilibrio tra certezza e libertà, che era ancora forse da perfezionare,
sembra poi, in un pensiero alquanto in auge, frantumarsi ulteriormente nella
tarda modernità. È questo il tempo in cui il pellegrino abbandona
definitivamente le sue fiduciose speranze e combatte autonomamente, spesso
sentendosi incapace, privo di prospettive, privo di memoria. Ed è questo
l’immaginario che anche Bertolucci pare traslatamene imbastire. Il mondo tardomoderno non sembra dunque a misura
del pellegrino, che anzi ne risulta tagliato fuori. Il nuovo viaggiatore,
l’individuo contemporaneo di cui Kit e Port presumono di esserne una
rappresentazione, riassume invece in sintesi le figure metaforiche baumaniane
del flâneur, del vagabondo, del turista e
del giocatore, che impersonificano, a
detta del celebre sociologo, l’approccio esistenziale dei nostri tempi.[3] In
prima analisi c’è dunque il flâneur, ossia il fannullone che vive alla giornata,
estraneo in un mondo di estranei. La sua vita si muove tra simulazioni, egli
non gode dell’essenza delle cose, della conoscenza dell’altro, ma si accontenta
di relazioni fittizie, caduche, più che superficiali. L’apparenza, riproduzione
spesso illusoria della pura sostanza, ha invece per lui statuto reale, ed i
suoi incontri sono istantanei, insinceri, per nulla formativi. Vive nella
continua rappresentazione di un universo parziale di cui si sente regista, in
cui egli cerca ricorrenti svaghi effimeri e momentanei. Gli estranei che
incontra divengono cioè inconsapevoli attori di eventi fittizi da lui creati,
in un mondo semplicemente immaginario. Il flâneur ignora punti di vista
dissonanti e ne è indifferente, fugge da ogni tipo di responsabilità o relazione
sincera e coinvolgente, ha un legame pressoché nullo con il proprio passato e
manca in lui qualsiasi prospettiva o intenzione progettuale. Il vagabondo ha molto in comune con il flâneur, nel suo vagare senza meta e
finalità, ma manca in lui la vocazione a creare universi fittizi ed evasioni
immaginarie in microcosmi irreali. Egli è semplicemente un fuggitivo perpetuo
incapace di adattarsi, di mettere radici e di assumersi responsabilità. Può
apparire socialmente pericoloso, in quanto il suo cammino è imprevedibile,
sempre alla ricerca di posti differenti, magari più ospitali. Il suo non
ambientarsi fa parte di un preciso disegno teso a lasciare aperta ogni
possibilità, presumibilmente per paura che le varie costrizioni possano
precludergli miglioramenti. Ma è privo di progetti veri e propri, ed il suo
conflitto con qualsiasi ipotesi di ordine e stabilità lo rende incapace di
costruire alcunché, semplicemente schiavo dell’istante disorganico. Oggi,
sostiene Bauman, il vagabondo è una figura tutto sommato imposta dalla mancanza
nel consorzio sociale tardomoderno di luoghi, saperi, istituti simbolici
chiaramente organizzati a cui percepire di appartenere ed in cui sentirsi
partecipe con sicurezza e costanza.
Il turista, come il vagabondo, si sposta con assiduità,
anche se i suoi trasferimenti insaziabili finiscono come per non portarlo in
nessun luogo, quasi in una bizzarra riedizione contemporanea del paradosso
della freccia di Zenone. Il turista cerca sempre nuove emozioni, sensazioni
ogni volta più forti ed intense che possano placare la sua sete incontentabile
di effimero. Ma le esperienze non si sedimentano mai, finiscono per essere
episodi isolati, privi di legame e di continuità, all’insegna di un’identità
frammentata che non riesce a trovare solidità e sicurezza. Quanto è stato non
viene metabolizzato e non diventa cornice di senso e di stimoli per l’azione.
Proprio come il movimento della freccia di Zenone che, in quanto somma di
immobilità, paradossalmente non la porta da nessuna parte costringendola alla
stasi. Se il turista pensa alla propria dimora come luogo di sicurezza e
stabilità cui poter sempre tornare, nella realtà questa assume uno statuto
chimerico, illusorio. Le paure claustrofobiche del turista, la volizione
pervasa dalla novità, lo porteranno sempre a fuggire, in un’instabile ambiguità
tra desiderio latente di forti legami o rifugi rasserenanti ed esigenza
insopprimibile di vorace cambiamento costante. Il giocatore, infine, vive nel mondo
dell’imprevedibile, in cui fortuna e casualità regnano indiscusse. Come la
percezione – energica pure troppo in alcune analisi sociologiche – del caos tardomoderno, in cui è difficile trovare
appigli sociali condivisi e rassicuranti per l’identità vacillante di un
contemporaneo in preda ad un profondo senso di solitudine senza scopo e ratio. Anche per il giocatore ogni
partita è storia a sé, ha una durata limitata e non ha conseguenze durature sul
futuro, ovvero sulle altre partite. Non permette di progettare, ma implica di
vivere il momento in estasi – che,
come la radice greca ekstasis sembra
suggerire, è un “uscir fuori di sé”, e perdere magari la rotta della propria
individualità – in un’esistenza fugace fatta di puri istanti isolati ed
indipendenti.
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