Mr. Bauman venga a prendere un tè da noi… nel deserto di Luca Bifulco

 



È questo il viaggio del progetto della prima modernità, segnato dalla prospettiva positivista, fiducioso nel progresso e nell’avvenire, orientato al futuro, con la speranza di una salvifica ricompensa in attesa. Un cammino in un mondo che si immagina come retto da logiche causali prevedibili, sostanzialmente migliorabile in virtù del dominio prometeico del divenire. Un mondo cioè ordinato, razionale, non schiavo del caos e dell’imponderabile, in cui è possibile forgiare creativamente la propria identità. Così il pellegrino vive la speranza ed una cornice di valori condivisi che gli possono garantire la sensazione di una certa sicurezza, nella continuità significante del suo essere. Nel cosmo del pellegrino si alimenta l’idea – portante nell’immaginario moderno –  di un discreto equilibrio tra la certezza esistenziale, in un certo qual modo socialmente indicata, e la libertà dell’individuo di definire autonomamente e razionalmente il percorso della propria identità.

Ma tale equilibrio comincia a sgretolarsi già nel primo Novecento, quando la fiducia nel progresso e nella compartecipazione ad un universo razionale e dispensatore di senso profondo perde gran parte della sua credibilità,[2] quando la sicurezza esistenziale dei legami socialmente solidi cede definitivamente il passo ad una percezione di precarietà identitaria. L’equilibrio tra certezza e libertà, che era ancora forse da perfezionare, sembra poi, in un pensiero alquanto in auge, frantumarsi ulteriormente nella tarda modernità. È questo il tempo in cui il pellegrino abbandona definitivamente le sue fiduciose speranze e combatte autonomamente, spesso sentendosi incapace, privo di prospettive, privo di memoria. Ed è questo l’immaginario che anche Bertolucci pare traslatamene imbastire.

Il mondo tardomoderno non sembra dunque a misura del pellegrino, che anzi ne risulta tagliato fuori. Il nuovo viaggiatore, l’individuo contemporaneo di cui Kit e Port presumono di esserne una rappresentazione, riassume invece in sintesi le figure metaforiche baumaniane del flâneur, del vagabondo, del turista e del giocatore, che impersonificano, a detta del celebre sociologo, l’approccio esistenziale dei nostri tempi.[3] In prima analisi c’è dunque il flâneur, ossia il fannullone che vive alla giornata, estraneo in un mondo di estranei. La sua vita si muove tra simulazioni, egli non gode dell’essenza delle cose, della conoscenza dell’altro, ma si accontenta di relazioni fittizie, caduche, più che superficiali. L’apparenza, riproduzione spesso illusoria della pura sostanza, ha invece per lui statuto reale, ed i suoi incontri sono istantanei, insinceri, per nulla formativi. Vive nella continua rappresentazione di un universo parziale di cui si sente regista, in cui egli cerca ricorrenti svaghi effimeri e momentanei. Gli estranei che incontra divengono cioè inconsapevoli attori di eventi fittizi da lui creati, in un mondo semplicemente immaginario. Il flâneur ignora punti di vista dissonanti e ne è indifferente, fugge da ogni tipo di responsabilità o relazione sincera e coinvolgente, ha un legame pressoché nullo con il proprio passato e manca in lui qualsiasi prospettiva o intenzione progettuale.

Il vagabondo ha molto in comune con il flâneur, nel suo vagare senza meta e finalità, ma manca in lui la vocazione a creare universi fittizi ed evasioni immaginarie in microcosmi irreali. Egli è semplicemente un fuggitivo perpetuo incapace di adattarsi, di mettere radici e di assumersi responsabilità. Può apparire socialmente pericoloso, in quanto il suo cammino è imprevedibile, sempre alla ricerca di posti differenti, magari più ospitali. Il suo non ambientarsi fa parte di un preciso disegno teso a lasciare aperta ogni possibilità, presumibilmente per paura che le varie costrizioni possano precludergli miglioramenti. Ma è privo di progetti veri e propri, ed il suo conflitto con qualsiasi ipotesi di ordine e stabilità lo rende incapace di costruire alcunché, semplicemente schiavo dell’istante disorganico. Oggi, sostiene Bauman, il vagabondo è una figura tutto sommato imposta dalla mancanza nel consorzio sociale tardomoderno di luoghi, saperi, istituti simbolici chiaramente organizzati a cui percepire di appartenere ed in cui sentirsi partecipe con sicurezza e costanza.

Il turista, come il vagabondo, si sposta con assiduità, anche se i suoi trasferimenti insaziabili finiscono come per non portarlo in nessun luogo, quasi in una bizzarra riedizione contemporanea del paradosso della freccia di Zenone. Il turista cerca sempre nuove emozioni, sensazioni ogni volta più forti ed intense che possano placare la sua sete incontentabile di effimero. Ma le esperienze non si sedimentano mai, finiscono per essere episodi isolati, privi di legame e di continuità, all’insegna di un’identità frammentata che non riesce a trovare solidità e sicurezza. Quanto è stato non viene metabolizzato e non diventa cornice di senso e di stimoli per l’azione. Proprio come il movimento della freccia di Zenone che, in quanto somma di immobilità, paradossalmente non la porta da nessuna parte costringendola alla stasi. Se il turista pensa alla propria dimora come luogo di sicurezza e stabilità cui poter sempre tornare, nella realtà questa assume uno statuto chimerico, illusorio. Le paure claustrofobiche del turista, la volizione pervasa dalla novità, lo porteranno sempre a fuggire, in un’instabile ambiguità tra desiderio latente di forti legami o rifugi rasserenanti ed esigenza insopprimibile di vorace cambiamento costante.

Il giocatore, infine, vive nel mondo dell’imprevedibile, in cui fortuna e casualità regnano indiscusse. Come la percezione – energica pure troppo in alcune analisi sociologiche – del  caos tardomoderno, in cui è difficile trovare appigli sociali condivisi e rassicuranti per l’identità vacillante di un contemporaneo in preda ad un profondo senso di solitudine senza scopo e ratio. Anche per il giocatore ogni partita è storia a sé, ha una durata limitata e non ha conseguenze durature sul futuro, ovvero sulle altre partite. Non permette di progettare, ma implica di vivere il momento in estasi – che, come la radice greca ekstasis sembra suggerire, è un “uscir fuori di sé”, e perdere magari la rotta della propria individualità – in un’esistenza fugace fatta di puri istanti isolati ed indipendenti.

 

 


 

[2] Sull’argomento, Cfr., tra gli altri, L. Bifulco, I tempi della modernità. Dalla linearità alla frantumazione nelle rappresentazioni sociali e nell’immaginario cinematografico, Ipermedium libri, S. Maria C.V. (Ce) 2007.

[3] Cfr. Z. Bauman, La società dell’incertezza, cit., pp. 39-48

 

    [1] (2) [3]