Mr.Bauman
venga a prendere un tè | |
di Luca Bifulco | |
Il tè nel deserto, film di Bernardo Bertolucci del 1990 tratto dal
romanzo di Paul Bowles
The Sheltering Sky,
può presentarsi come una particolareggiata esemplificazione, elaborata con le
energiche potenzialità espressive ed evocative del linguaggio cinematografico,
di un comune sentire – piuttosto diffuso – relativo all’epoca contemporanea.
L’opera, che per la verità si muove seguendo ritmi piuttosto blandi, in piena
sintonia con le velleità liriche del regista, pur ambientata intorno alla fine
della prima metà del Novecento, pare infatti riverberare un discreto corpus di
quelle apprensioni con cui un certo pensiero sociologico – più o meno condiviso
e discutibile – interpreta i nostri tempi, raffigurando così, lucidamente e con
disarmante immediatezza, un immaginario che spesso accompagna la tarda
modernità. Un immaginario sicuramente parziale e con risacche di opinabilità,
ma che nell’alveo della letteratura sociologica pare oggi riscuotere un corposo
successo. Il film comincia con immagini di repertorio che
illustrano con montaggio piuttosto concitato una New York caotica, tra
grattacieli, traffico cittadino, disorganica quotidianità, operai che si
affaticano. Nell’ordine esteriore, nell’imponenza della metropoli occludente,
pare invece celarsi una terrificante confusione, senza scopo e qualità, priva
di argini, un disordine pervasivo, incontrollabile ed ingestibile. La sequenza
termina con navi che salpano, quasi ad inscenare una salvifica fuga
dall’infernale caos metropolitano, in pratica la fuga che vede protagonisti i
personaggi del racconto. L’azione si sposta dunque in Marocco e lo stile
documentaristico cede il passo alla narrazione vera e propria. In sintesi, il
film narra la storia di due giovani e benestanti coniugi statunitensi sposati
da dieci anni, Port e Kit Moresby, che arrivano a Tangeri e poi viaggiano senza
sosta nel paese. Vagano senza meta nel deserto, un deserto che cancella con le
sue tempeste di sabbia ogni traccia, così come la memoria del percorso
intrapreso, e, nella sua infinità, non lascia presagire alcun punto di arrivo. Questo viaggio illimitato esprime l’impossibilità
per Kit e Port di ritenersi adeguati in un qualsiasi luogo, ma soprattutto la
loro continua ricerca e costruzione di un’identità sentita come labile,
disordinata, lungo un’esistenza incoerente, fatta di istanti isolati ed
edonismo agitato quanto effimero. È questo il senso del loro fuggire e spesso
perdersi per mancanza di orientamento. Tutti gli sforzi di dare senso alle cose
divengono infatti vani quando la rapidità dei cambiamenti, l’inconsistenza
delle esperienze, la loro obsolescenza fulminea non permettono che si possano
sedimentare e calcificare valutazioni, risposte, sentimenti, credenze. L’epilogo
non sarà confortante: Port morirà di tifo e Kit dapprima si unirà ad una
carovana di Tuareg nel Sahara, per poi tornare, alla fine del film, a Tangeri
colma di smarrita inquietudine. Come dicevamo, la loro storia presenta somiglianze
traslate con le interpretazioni della contemporaneità di un pensiero
attualmente molto in voga. Nostro compito è quello di cogliere le analogie,
senza porre in campo più di tanto la questione dell’effettiva ed inoppugnabile
efficacia euristica ed interpretativa delle teorie prese in esame. Ebbene, già le prime battute del racconto sembrano
in tal senso eloquenti. I Moresby palesano la risoluta volontà di definirsi
viaggiatori ripudiando l’etichetta di turisti. Ciò in quanto “un turista è
quello che pensa al ritorno a casa fin dal momento che arriva…”, “laddove un
viaggiatore può anche non tornare affatto”. Questa autodefninizione
rappresenterà il perno simbolico dell’intera opera, arricchendo di senso la
lettura di ogni sequenza successiva. È qui che prende infatti avvio l’impianto
metaforico del film e soprattutto la sua sottesa rappresentazione dell’uomo
contemporaneo. La categoria del viaggiatore che distingue i Moresby, versione forse edulcorata del nomade, sembra infatti racchiudere in sé
l’insieme di figure celebri della tarda modernità delineate da Zygmunt Bauman
(compresa, a dire il vero, quella dello stesso turista) che simboleggiano la
relazione dell’individuo tardomoderno con la sua identità, o meglio con la
ricerca produttiva, inquieta e senza sosta di essa. Secondo il sociologo
d’origini polacche, sarebbe stata superata la condizione moderna del pellegrino in maniera dialettica,
presumibilmente conservandone alcuni aspetti ormai sinteticamente
metabolizzati. In primo luogo è probabilmente rimasta l’idea precipua di
costruzione dell’identità, vale a dire non un qualcosa di ereditato e definito
una volta per tutte, ma da riedificare instancabilmente. Il pellegrino tende ad
intraprendere il suo viaggio, magari lasciandosi alle spalle una parte della
sua eredità di conoscenze, di credenze, di simboli, di valutazione dell’essere
per trovare la terra promessa, la meta che è sempre distante nel tempo e nello
spazio. Ciò impone comunque diversi compiti: stabilire una chiara direttrice
lineare per il proprio cammino, sebbene in un territorio deserto e privo di
relazioni eccessivamente incatenanti e liberticide da cui comunque si fugge;
distinguere il davanti dal dietro; verificare sempre i propri passi e la linea
che hanno tracciato. La propria biografia risulta in ogni caso piuttosto densa
di significato, potendo risalire ad una alquanto valida continuità
spazio-temporale, sebbene ogni gratificazione, nel pieno rispetto di
un’identità in fieri, è rimandata al
futuro che si prospetta, si prevede con una certa lucidità, ma che non si
possiede ancora.[1]
| |