Le
pagine dickiane tratteggiano creature dall’integrità profanata, apparenze
chimeriche perversamente plasmate da inquietanti processi sensoriali e da
inedite mutazioni tecno-comunicative, che delineano concezioni del mondo altre,
schiudendo inusitate frontiere ontologiche ed epistemologiche e adombrando
sconosciuti orizzonti spazio-temporali.
Attraverso l’intreccio descrittivo di alterazioni organiche e invenzioni
fantascientifiche, l’esplosione percettiva prodotta dalle sostanze psicotrope si
converte nei modelli di simulazione, di creazione di realtà artificiali, di
allucinati multiversi fenomenici, popolati da identità alternative, animate da
una sensibilità potenziata, che, preludendo all’ubiquità e alludendo
all’aspirazione all’immortalità, elude la presenza, il contatto, l’immediatezza,
la prossimità.
Nei
trip lisergici di Un Oscuro Scrutare, romanzo generazionale pubblicato nel ’77,
i codici atemporali del disagio si riconfigurano in fantasie deliranti, emozioni
violente, fluttuanti smarrimenti di identità, richiamando al contempo la logica
dell’orrore e della bellezza, trascinando i fantasmi e i furori di esperienze
estreme e terrificanti, oscurando il riverbero dell’inquietudine nel vortice di
uno spasmodico vissuto. Le storie si dipanano nell’infernale dedalo del bisogno
divorante, che invoca immediate gratificazioni, assecondando più i ritmi della
fine che quelli del desiderio, e celebrando, nella pallida ombra di tombali
metropoli, il perverso connubio tra la morte del piacere e il piacere della
morte.
Lo
sconfinamento sensoriale e la sovreccitazione di un corpo che libera la propria
virtualità percettiva determinano un processo di velocizzazione del percorso
biologico, promosso disperatamente dai beatniks descritti da Dick, che, incapaci
di impartire un ritmo prolungato al ciclo vitale, di comprenderne e controllarne
le scansioni, impongono un termine alla realizzazione di un prodotto finito del
quale non posseggono l’intelligenza collettiva. La contrazione dell’individuale
parabola evolutiva cancella le tappe del tragitto naturale, edifica un universo
ucronico e utopico, che azzera le prospettive temporali e le differenziazioni
spaziali, distruggendo la diversità tra l’istante e la durata, e tra la
contiguità e la lontananza.
Le
coordinate di una geometria dell’attimo, suggerite dalla dettagliata panoramica
dickiana delle
complesse architetture dell’inconscio, evocano metaforicamente il processo di
inesorabile dissoluzione della forma, di incontrastabile disgregazione della
vita, di ineluttabile demolizione del mondo, proteso incontrovertibilmente verso
una macina entropica che stritola ogni realtà, soggettiva e collettiva,
individuale e sociale, ogni elemento materiale o costruzione simbolica. “Al pari
di una persona sotto l’effetto dell’LSD, lo schizofrenico è imbottigliato in un
presente infinito” (La schizofrenia e il “Libro dei mutamenti”, in Mutazioni, p.
217): l’universo percettivo dello schizoide è avvolto dalla simultaneità,
travolto, in un istante, dall’intero film della vita, estensione illimitata,
che, non essendo scandita dalla logica sequenza causa-effetto, ingloba la totale
conoscenza dell’assoluto in un dato hic et nunc e fagocita il futuro (ivi, p.
221) in un tempo schiacciato, appiattito, come quello regalato dall’allucinogeno
Chew-Z ne Le tre stimmate di Palmer Eldritch. Questa droga di traslazione, in
grado di dilatare a dismisura la percezione della durata di un attimo, promette
l’immortalità e soffoca ogni probabile forma di libertà, non riservando alcuna
possibilità di trapasso o di riscatto e rappresentando la metafora di
un’esistenza negata alla praticabilità progettuale, di una vita impossibilitata
ad articolarsi in una potenziale proiezione storica, di un tempo imploso, non
sviluppato nella spirale di improbabili estasi.
Lo
sguardo dickiano attraversa la soglia dell’animo umano per esplorarne le
sfumature, osservando le ombre scurissime dei disancorati personaggi, spaesati,
a volte senza memoria della propria identità, senza nome, stranieri in ogni
luogo e in ogni tempo, o meglio, smarriti nel non-luogo e nel non-tempo di una
narrativa che solca mondi sradicati, rotte cancellate, paesaggi amorfi che non
cessano di svanire, in stato di mutazione permanente, gigantesche raccolte di
scorie del vissuto, principio primo e ultimo precipitato della produttività
della vita. Nel trionfo di un’anarchia realizzata gli scenari dickiani si
decompongono in fanghiglia dilagante, formata da polvere radioattiva, frammenti
di rifiuti, residui organici, aberrante mosaico di una natura disintegrata,
rimando allegorico a una cultura abitata da brandelli di informazione, detriti
di memoria, grumi di pensiero, cascami di sapere, coaguli di storia.