Chimeriche apparenze e randagie destinazioni
in Philip K. Dick

 

di Linda De Feo



 

Le pagine dickiane tratteggiano creature dall’integrità profanata, apparenze chimeriche perversamente plasmate da inquietanti processi sensoriali e da inedite mutazioni tecno-comunicative, che delineano concezioni del mondo altre, schiudendo inusitate frontiere ontologiche ed epistemologiche e adombrando sconosciuti orizzonti spazio-temporali.

Attraverso l’intreccio descrittivo di alterazioni organiche e invenzioni fantascientifiche, l’esplosione percettiva prodotta dalle sostanze psicotrope si converte nei modelli di simulazione, di creazione di realtà artificiali, di allucinati multiversi fenomenici, popolati da identità alternative, animate da una sensibilità potenziata, che, preludendo all’ubiquità e alludendo all’aspirazione all’immortalità, elude la presenza, il contatto, l’immediatezza, la prossimità.

Nei trip lisergici di Un Oscuro Scrutare, romanzo generazionale pubblicato nel ’77, i codici atemporali del disagio si riconfigurano in fantasie deliranti, emozioni violente, fluttuanti smarrimenti di identità, richiamando al contempo la logica dell’orrore e della bellezza, trascinando i fantasmi e i furori di esperienze estreme e terrificanti, oscurando il riverbero dell’inquietudine nel vortice di uno spasmodico vissuto. Le storie si dipanano nell’infernale dedalo del bisogno divorante, che invoca immediate gratificazioni, assecondando più i ritmi della fine che quelli del desiderio, e celebrando, nella pallida ombra di tombali metropoli, il perverso connubio tra la morte del piacere e il piacere della morte.

Lo sconfinamento sensoriale e la sovreccitazione di un corpo che libera la propria virtualità percettiva determinano un processo di velocizzazione del percorso biologico, promosso disperatamente dai beatniks descritti da Dick, che, incapaci di impartire un ritmo prolungato al ciclo vitale, di comprenderne e controllarne le scansioni, impongono un termine alla realizzazione di un prodotto finito del quale non posseggono l’intelligenza collettiva. La contrazione dell’individuale parabola evolutiva cancella le tappe del tragitto naturale, edifica un universo ucronico e utopico, che azzera le prospettive temporali e le differenziazioni spaziali, distruggendo la diversità tra l’istante e la durata, e tra la contiguità e la lontananza.

Le coordinate di una geometria dell’attimo, suggerite dalla dettagliata panoramica dickiana delle complesse architetture dell’inconscio, evocano metaforicamente il processo di inesorabile dissoluzione della forma, di incontrastabile disgregazione della vita, di ineluttabile demolizione del mondo, proteso incontrovertibilmente verso una macina entropica che stritola ogni realtà, soggettiva e collettiva, individuale e sociale, ogni elemento materiale o costruzione simbolica. “Al pari di una persona sotto l’effetto dell’LSD, lo schizofrenico è imbottigliato in un presente infinito” (La schizofrenia e il “Libro dei mutamenti”, in Mutazioni, p. 217): l’universo percettivo dello schizoide è avvolto dalla simultaneità, travolto, in un istante, dall’intero film della vita, estensione illimitata, che, non essendo scandita dalla logica sequenza causa-effetto, ingloba la totale conoscenza dell’assoluto in un dato hic et nunc e fagocita il futuro (ivi, p. 221) in un tempo schiacciato, appiattito, come quello regalato dall’allucinogeno Chew-Z ne Le tre stimmate di Palmer Eldritch. Questa droga di traslazione, in grado di dilatare a dismisura la percezione della durata di un attimo, promette l’immortalità e soffoca ogni probabile forma di libertà, non riservando alcuna possibilità di trapasso o di riscatto e rappresentando la metafora di un’esistenza negata alla praticabilità progettuale, di una vita impossibilitata ad articolarsi in una potenziale proiezione storica, di un tempo imploso, non sviluppato nella spirale di improbabili estasi.

Lo sguardo dickiano attraversa la soglia dell’animo umano per esplorarne le sfumature, osservando le ombre scurissime dei disancorati personaggi, spaesati, a volte senza memoria della propria identità, senza nome, stranieri in ogni luogo e in ogni tempo, o meglio, smarriti nel non-luogo e nel non-tempo di una narrativa che solca mondi sradicati, rotte cancellate, paesaggi amorfi che non cessano di svanire, in stato di mutazione permanente, gigantesche raccolte di scorie del vissuto, principio primo e ultimo precipitato della produttività della vita. Nel trionfo di un’anarchia realizzata gli scenari dickiani si decompongono in fanghiglia dilagante, formata da polvere radioattiva, frammenti di rifiuti, residui organici, aberrante mosaico di una natura disintegrata, rimando allegorico a una cultura abitata da brandelli di informazione, detriti di memoria, grumi di pensiero, cascami di sapere, coaguli di storia.

 

    (1) [2] [3]