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Anche i corpi dei protagonisti, vittime di processi dismorfofobici, si disintegrano, lacerandosi e deturpandosi, dissezionandosi, disvelando i propri organi sanguinanti, avviluppando con i propri nervi pezzi di avveniristici meccanismi, arredi di un habitat sempre più animato da pulsioni artificiali e ridisegnato da nuove invenzioni. Ne I simulacri, ad esempio, le forme destrutturate si ricongiungono in insiemi altri, abbattendo i confini, confondendo gli spazi, mentre i personaggi dilaniati lanciano nell’aria brandelli sfilacciati di carne, inglobando oggetti, realizzando contaminazioni tra esterno e interno (I simulacri, pp. 256-257), e suggellando l’inserimento dell’uomo nel media landscape prodotto dal capitalismo cosmico, incarnato da un’inquietante creazione di Dick, il misterioso pellegrino Palmer Eldritch. L’arcano portatore di palma, che offre e consuma Chew-Z, ibrido chimerico per metà umano e per metà alieno, emblema di un’umanità deformata, ergendosi incontrastato sulle entropiche rovine, sui resti disseminati delle infinite dimensioni spazio-temporali, riecheggia allegoricamente la frammentazione del mondo fisico e lo sfarinamento delle categorie conoscitive che lo definiscono. Il livido mondo di Dick pullula di copie di copie, di segni svuotati di ogni prerogativa simbolica, inutili strumenti di un linguaggio senza contenuto, non più elemento basilare della vita. Il flusso comunicativo si frantuma in frasi prive di senso, come avviene nell’incomprensibile e patetico balbettio dello straordinario protagonista di Noi marziani, Manfred Steiner, manifestazione di psicotici deliri di putrefazione, generati nel buco nero di una mente che converte il futuro remoto nell’orrido presente, disvelando il tomb world in cui lo spazio si annienta e il tempo si dissolve. Non più sostenuto da parole capaci di attribuire statuto di realtà agli elementi designati (La trasmigrazione di Timothy Archer, p. 19), non più affidato alla facoltà dialogica e alla possibilità interattiva degli esseri umani, il linguaggio appare votato drammaticamente all’inanità, alla sterile meccanizzazione, all’infecondo irrigidimento in formule stereotipate, e viene consegnato all’inanimato, agli artefatti, ai prodotti del lavoro manuale, in grado di custodire significati, di occultare segreti, di trattenere valori costitutivi. Di fronte a un orizzonte semantico sgranato l’unico possibile, esile ancoraggio si intravede nell’equilibrio formale e funzionale di creazioni che cristallizzano la propria logica intrinseca, la propria coerenza interna, originata da bisogni essenziali, e forse dalla ricerca conciliatrice di forme di rappresentazione che superino le strutture visionarie della stessa realtà, che contrastino il gioco esacerbato di una simulazione capace di stemperare pericolosamente la dicotomia tra modello e imitazione. L’artigianato emerge anche come universo che conserva l’intelligenza complessiva degli effetti dell’opera umana nei suoi snodi, nel suo progredire fino al prodotto finito, un’opera non intaccata dalla forza della fabbrica, non ancora proletarizzata, segmentata, sminuzzata nei ritmi serrati dell’industria. La realizzazione artigianale di oggetti, estranea all’esaltazione della soggettività affermata dalla genialità artistica, recupera il senso più squisitamente comunitario delle potenzialità espressive racchiuse nel valore d’uso di forme destinate a trascendere la materialità dei propri contorni, per attraversare il tempo, riavvolgerlo, riafferrarne l’ingovernabile essenza, affiorando così come forza che contrasta il dissennato processo di tecnologizzazione, il barbarizzato, venefico, corrosivo modo di interpretare la scienza, che produce perversione morfogenetica negando la storia. Nell’iperrealismo narrativo di Dick l’avvenire viene assorbito dal passato, il progresso non è il precipitato di uno sviluppo necessario, non è concatenazione di eventi disposti lungo una direzionalità intrinseca, una traiettoria ascendente, serie inesauribile di ineludibili successi, ma è un accidentato percorso, che genera varianti, fatto di bruschi arresti, repentini regressi, precipitose cadute, dolorose retrocessioni. La dickiana America del futuro corrisponde allusivamente alla corrotta e marcia America del passato, fascistizzata, congelata, bloccata anch’essa in un eterno presente, governata da un potere che ha perso la memoria storica delle origini, da un Impero che non ha mai avuto fine. Mentre il prodigio scientifico schiude prospettive sconosciute e la ragione dispiegata illumina traiettorie da solcare, tortuosi sentieri vengono scavati su pericolosi precipizi e la verità epistemica, fallibile, mai immutabile, mai definitiva, mai ultima, ma sempre penultima, si sbriciola in un divenire che dissolve ogni certezza e ogni istituzione. Il dickiano eroe senza gloria, dipanando la potenzialità dell’immaginazione e alterando la consistenza della materialità, giunge a disporre di apparati teorici e congegni in grado di introdurre correzioni nei meccanismi di sviluppo delle forme viventi, nelle condizioni naturali della vita, non più presupposti intangibili, bensì esiti flessibili di un destino biologico mutato, di irreversibili e degenerate metamorfosi del mondo.
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