MAPPE | QDAT 63 | 2016

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è almeno un grosso editore, in Italia, che ancora si mangia le mani per aver rifiutato, all’epoca, di acquistare i diritti di traduzione nel nostro paese dei primi romanzi di Harry Potter, comprati poi da Salani, che con i guadagni ha fatto il salto di qualità da casa editrice di nicchia a major editoriale. Il discorso, ovviamente, vale ancora di più per il Regno Unito: furono in otto a rifiutare il manoscritto di Harry Potter e la pietra filosofale, in buona parte perché – ha raccontato l’autrice, J.K. Rowling – il mondo editoriale era convinto che i romanzi per bambini dovessero essere lunghi la metà e avere un’ambientazione più moderna rispetto a quella piuttosto old-fashioned del castello di Hogwarts. Ma, si sa, chi si occupa di business difficilmente capisce quando bisogna dare spazio all’eccezione che conferma la regola. Basti pensare ai Beatles rifiutati dalla Decca sei mesi prima della loro esplosione, per restare ai casi clamorosi nel Regno Unito. Poi, certo, dopo il successo planetario dei primi romanzi, ci hanno provato un po’ tutti a fabbricare il “nuovo Harry Potter” all’interno di aride sale riunioni illuminate dalla luce artificiale nei grandi complessi periferici dove hanno sede le major editoriali. Che differenza rispetto a quando J.K. Rowling scriveva il suo primo romanzo seduta al tavolo del bar The Elephant House di Edimburgo, con la figlia Jessica nel passeggino, senza un soldo – solo carta e penna, il computer se lo riuscì a permettere successivamente grazie a un finanziamento – e con un matrimonio fallito alle spalle. Poi, dopo molti rifiuti, arrivò Bloomsbury, comprò il romanzo e lo pubblicò con una tiratura di appena 500 copie. È una storia che suona incredibilmente simile a un’altra accaduta esattamente trent’anni prima dell’uscita in libreria di Harry Potter e la pieta filosofale. Era il 1977 e in appena 32 cinema in tutti gli Stati Uniti usciva Star Wars. L’autore e regista, George Lucas, aveva alle spalle già due film di qualche successo, sebbene di nicchia – la Rowling invece era un’esordiente assoluta – ma nessuno, a Hollywood, credeva davvero nelle possibilità di quello stranissimo film a metà strada tra fantascienza spaziale e fantasy cappa-e-spada. La United Artists, la Universal e la Disney avevano tutte rifiutato il trattamento presentato da Lucas. L’accettò la 20th Century Fox, ma con grandi perplessità, che perdurarono fino all’uscita nelle sale.

 

 

Queste storie ci ricordano che, anche nell’era dell’intrattenimento di massa e della cosiddetta “industria culturale”, c’è sempre spazio per trasformare piccoli progetti realizzati da artisti fuori dall’establishment in successi planetari. Sono storie che non piacciono, è ovvio, a coloro che con questa industria ci campano: perché se da un lato dimostrano che chi ha più fiuto vince, d’altro canto può essere davvero difficile oggi selezionare, tra l’enormità di manoscritti che affollano le case editrici e di trattamenti che assediano le case di produzione cinematografiche, il prodotto vincente. Come con Star Wars, dopo Harry Potter sono arrivati gli “emuli” (cfr. in questo numero: Piccoli maghi crescono), in alcuni casi vincenti, in altri no, ma sempre comunque con risultati al di sotto dell’antesignano. Cercare di “imbrigliare” questa magia, tradurla in una formula per fabbricare la “pietra filosofale” del best-seller, è il sogno dei moderni alchimisti dell’industria culturale. A guardar bene, certo, è possibile individuare alcuni schemi ricorsivi in successi come quelli di Harry Potter, di Star Wars o del Signore degli Anelli. Senza scomodare Vladimir Propp, il minimo comune denominatore resta il world-building, la capacità dell’artista (il “sub-creatore”, nelle parole di J.R.R. Tolkien) di ambientare la sua storia all’interno di un mondo o di un universo di cui il fruitore dell’opera intuisce la profondità, non perché glielo si presenta subito in tutta la sua vastità, ma perché l’autore dissemina qua e là indizi della presenza di altre terre, altre culture, altre forze con cui forse i protagonisti della storia non avranno mai nulla a che fare, ma che nondimeno esistono, al di là dell’orizzonte, così da dare la sensazione che, oltre alle coordinate spazio-temporali in cui si muove la vicenda, vi sia molto di più sul piano dello spazio e su quello del tempo. Ecco perché chiunque oggi cerchi di imitare i successi di Tolkien, Lucas o Rowling parte sempre dalla caratterizzazione del proprio mondo immaginario. Ma non funziona così, semplicemente, altrimenti basterebbe soltanto un po’ di fantasia (di cui comunque quasi tutti gli emuli, solitamente, scarseggiano). Un’altra caratteristica comune a queste opere è che l’ingresso nel mondo immaginario avviene attraverso un personaggio con cui il fruitore condivide un punto di vista esterno: Frodo Baggins vive nella Contea, ma non sa praticamente nulla del mondo al di fuori di essa, di Mordor, degli Elfi, di Gondor e di Rohan, e si stupisce insieme al lettore man mano che la storia prosegue; Luke Skywalker vive su un pianeta deserto e periferico (“se c’è un centro luminoso nell’universo, sei sul pianeta che ne è più lontano”), conosce solo vagamente le storie degli scontri tra l’Alleanza Ribelle e l’Impero, per non parlare dei “vecchi miti” relativi agli Jedi e alla Forza; infine, Harry Potter vive da sempre nel sottoscala della casa dei suoi zii e, come tutti, ignora l’esistenza di un “mondo magico”, finché non arriva la lettera che gli comunica l’ammissione alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Harry è esattamente il ragazzino di undici anni in cui i lettori di quella fascia d’età possono identificarsi. Non sa di essere figlio di maghi e, diversamente dai suoi coetanei che hanno vissuto fin da bambini nel mondo della magia, deve faticare a lungo per comprenderne i meccanismi e quelle che gli appaiono eccentricità. La sua famiglia adottiva, quella degli zii Dursley, conosce molto bene quel mondo, e non vuole averci niente a che fare (“e grazie tante!”, risponderebbe zio Vernon). Si ostina a respingere tutte le lettere provenienti da Hogwarts finché il mezzo-gigante Hagrid non arriva a buttare giù la porta del faro dove i Dursley si sono rifugiati sperando di scampare all’inevitabile. È l’irrazionale, la magia, che abbatte letteralmente le fragili difese della razionalità, come Gandalf quando, ne Lo Hobbit, arriva con tutta la sua imponente presenza a scombussolare per sempre la vita di Bilbo Baggins. 

 

 

Il critico smaliziato sa benissimo quale parola usare per definire tutto ciò: escapismo, fuga dalla realtà. È quella che Max Horkheimer e Theodor Adorno definivano “la vecchia esperienza dello spettatore cinematografico che, uscendo sulla via, ha l’impressione di trovarsi di fronte alla continuazione dello spettacolo appena lasciato”, in altre parole “una fuga, ma non già come pretende di essere, una fuga dalla cattiva realtà, ma dall’ultima velleità di resistenza che essa può avere ancora lasciato sopravvivere negli individui” (Horkheimer, Adorno, 1966). La pensavano certamente in modo diverso i padri del fantasy. Per J.R.R. Tolkien “la Fantasia” non era “una forma inferiore, bensì più elevata di Arte, anzi la forma più pura (o quasi pura) di essa, e pertanto, quando la si raggiunga, la più pregnante” (Tolkien, 2000). Il suo collega C.S. Lewis si era posto il compito letterario di “condurre i suoi lettori nei pressi di una finestra che gettasse uno sguardo fuori dalla stanza buia e soffocante della modernità, per spalancarne le imposte e indicare a noi tutti l’enorme vista che si stende oltre la stanzetta nella quale siamo rinchiusi” (Howard, 2008; cfr, anche in questo numero, Nuove pozioni di fantasy). Pur non condividendo di certo le stesse esigenze anti-moderniste di Tolkien e Lewis, J.K. Rowling dovette vedere nel fantasy il migliore strumento letterario per evadere da una realtà opprimente: la sua. Ammetterà in seguito: “Scrissi per proteggere la mia sanità mentale. [Harry Potter] è un libro di fuga e, scrivendolo, mi rifugiavo in esso” (cit. in Lenti, 2006). I ragazzini, poi gli adolescenti e in seguito i milioni di adulti che sono stati irretiti dalla magia di Harry Potter cercavano esattamente qualcosa del genere. Questo non vuol dire però che un “libro di fuga”, di evasione dalla realtà, sia privo di qualsiasi contatto con essa, un puro divertissement. J.K. Rowling studiò a lungo per scrivere la saga: quand’era ancora in Portogallo s’immerse nella lettura di opere sulla mitologia, il folklore, la fiaba, la letteratura fantastica, imparando anche quel minimo di latino necessario per dare un nome agli incantesimi citati nei romanzi. È lo stesso percorso seguito da George Lucas, che all’universo di Star Wars volle dare quella necessaria profondità ricalcando i topos delle storie mitologiche, apprese attraverso la lettura del famoso studio di Joseph Campbell L’eroe dai mille volti e di quello di James Frazer Il ramo d’oro (Tolkien e Lewis, d’altro canto, di quelle cose se ne intendevano, dato che le insegnavano all’università). È per questo che nella saga di Harry Potter troviamo tanti riferimenti ad archetipi della letteratura fantastica, ma anche della tradizione alchemica medioevale (cfr. in questo numero Magical Mistery Tour), che conferiscono al mondo magico inventato da J.K. Rowling quel senso di verosimiglianza che manca invece a tante altre produzioni che cercano di imitarne il successo.

È tipico della post-modernità in cui viviamo finire per cercare in questi romanzi qualcosa di più della storia che raccontano. È noto che Tolkien disdegnasse qualsiasi tentativo di leggere nella sua opera significati “moderni”, fossero di tipo geopolitico, la lotta contro l’Urss/Mordor, o contro il nazismo, o di tipo allegorico. C.S. Lewis, viceversa, introdusse nei suoi romanzi per ragazzi Le Cronache di Narnia un gran numero di elementi allegorici, tali da trasformare la saga in un’apologia mascherata (nemmeno tanto) del cristianesimo. Molto più recentemente Philip Pullman ha risposto con il suo ciclo Queste oscure materie all’apologetica di Lewis trasformando i romanzi, anch’essi mirati a un pubblico di ragazzi, in un’invettiva anti-religiosa. Niente di tutto questo si riscontra nell’opera di J.K. Rowling, eppure in tanti si sono dati da far per leggerci altro rispetto al semplice scontro tra Bene e Male. Ciò è del resto tipico di tutti i fenomeni pop che hanno riscosso un successo talmente esteso da costringere la critica, volente o nolente, a farci i conti, ricercando tuttavia nell’opera altri piani di lettura, altri punti di vista. Non è detto che sia un’operazione sbagliata, fintanto che si resta nei “limiti dell’interpretazione”. Forse la Rowling non ha letto il Candido di Voltaire e il Fedone di Platone, così citati da Simone Regazzoni nel suo libro La filosofia di Harry Potter (2008), né Essere e tempo di Martin Heidegger, che invece Laura Anna Macor cita in Filosofando con Harry Potter (2011) come principale testo di riferimento per chi intende accostarsi al modo in cui la saga della Rowling tratta il tema della morte. 

 

 

Quel che è interessante è tuttavia il modo in cui Harry Potter diventa il filtro attraverso cui leggere la società contemporanea, lo zeitgeist, lo “spirito del tempo”, proprio in virtù del suo essere un successo trans-nazionale e trans-generazionale. Se ognuno trova in questi romanzi qualcosa per cui vale la pena di leggerli, significa che in qualche mondo la Rowling offre al lettore non solo una storia appassionante, ma una chiave di lettura per leggere il mondo, che lo faccia in modo consapevole o meno. Dopotutto, Harry Potter non è semplicemente ambientato ad Hogwarts, ma nel nostro mondo “babbano”, con cui quello magico coesiste segretamente, ma ricalcandone in buona parte gli atteggiamenti. C’è la scuola, c’è lo sport, ma ci sono anche la politica e i giochi di potere tra il personale del Ministero della Magia; c’è il terrorismo – quello dei Mangiamorte, i seguaci di Voldemort – e la stampa, anche una stampa scandalistica che inventa notizie per vendere i giornali. Forse Harry Potter non è un “romanzo filosofico”, come vorrebbe Regazzoni, e certamente non è un’allegoria, ma è un ottimo modo per avvicinare un pubblico di ragazzini ai problemi del mondo “adulto”, che Harry e i suoi amici si trovano giocoforza ad affrontare in ogni episodio della saga. Il mondo della magia non è altro che una versione speculare del nostro.

Da questo punto di vista, la Macor ha ragione quando sostiene che tutta la saga ruota intorno al concetto della morte, il che può sembrare strano per un’opera destinata a un pubblico di pre-adolescenti. Ma trattandosi di romanzi di formazione, è chiaro che la crescita del lettore non può che passare attraverso questo problema, questa “soglia” psicologica che nel quinto romanzo, L’Ordine della fenice, diventa anche soglia fisica: Sirius Black, il padrino di Harry, la oltrepassa durante una violenta battaglia con i Mangiamorte e finisce nell’aldilà. Sappiamo che nel mondo di Harry esistono i fantasmi, che infestano bonariamente il castello di Hogwarts: ma sono essi stessi a far capire a Harry che la loro è una condizione particolare, che non può valere per Sirius. Ciò non impedisce alle anime dei suoi genitori di apparirgli in alcuni frangenti tra i più drammatici, a sottolineare che un legame tra il mondo dei vivi e quello dei morti esiste, anche solo nella testa di Harry e di chi vuole crederci. L’ultimo romanzo è completamente dominato dal tema della morte, fin dal titolo (I doni della morte). In uno dei primi capitoli Harry, Ron e Hermione s’imbattono in una tomba che riporta un’iscrizione evangelica: “L’ultimo nemico ad essere sconfitto sarà la morte”. I tre restano perplessi, perché la frase suona come una bestemmia di Voldemort, il cui obiettivo è appunto quello di ottenere l’immortalità dividendo la sua anima in più parti. Ma il lettore ha modo di intuire, alla fine del romanzo, che quella frase è una chiave di volta: Harry infatti, per poter sconfiggere Voldemort, deve prima morire, per poi “risorgere”. È questo il senso della scena più metafisica della saga, in cui lo spirito di Harry si ritrova in una sorta di limbo tra il mondo dei vivi e l’aldilà e incontra il suo mentore, il preside Silente, che lo rispedisce indietro. Quello della Rowling è un modo particolare di accostarsi al problema per antonomasia dell’esistenza umana, problema che del resto la società contemporanea cerca di nascondere il più possibile, mentre nella saga è presente a ogni piè sospinto (sono morti i genitori di Harry, poi muore Sirius Black, poi Silente, poi Piton e tanti altri soprattutto nell’ultimo romanzo, mentre Voldemort, uccidendo le sue vittime, divide la sua anima in più parti ottenendo un’illusoria immortalità). 

Non pochi commentatori hanno letto, in questa onnipresenza della morte nella saga, una visione esplicitamente cristiana da parte della Rowling, il che fa sorridere, perché inizialmente Harry Potter fu accolto con palese ostilità dalla Chiesa.

Il 7 marzo 2003 l’allora cardinale e prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Joseph Ratzinger, futuro papa Benedetto XVI, scrisse una lettera a Gabriele Kuby, critica letteraria tedesca, di cui in Germania era appena apparso un volume dal titolo Harry Potter, bene o male? La Kuby prendeva decisamente posizione a favore della seconda ipotesi, ossia che la lettura di Harry Potter fosse destinata a corrompere i giovani lettori. Il cardinale Ratzinger si disse d’accordo: “È un bene che Lei illumini la gente su Harry Potter, perché le sue sono sottili seduzioni, la cui azione è inconscia e per questo profonda nel distorcere la cristianità nell’anima, prima che questa possa crescere propriamente”, le scrisse il futuro papa, che due mesi dopo dava all’autrice il consenso a rendere pubbliche le sue opinioni in materia (Politi, 2005). Non sappiamo come l’abbia presa J.K. Rowling, che sul piano religioso ha dichiarato di non avere le idee molto chiare ma di potersi definire una cristiana poco osservante (probabilmente di fede anglicana). D’altronde un anno prima della lettera del cardinale Ratzinger, il vescovo di York si era invece espresso favorevolmente, affermando durante un sermone che il mondo cristiano avrebbe dovuto prendere esempio da Harry Potter, figura morale esemplare come poche nel mondo della letteratura. 

 

 

Nel 2003 Connie Neal, scrittrice e attivista dell’associazione “Women for Faith”, pubblicò un libro (tradotto anche in Italia) intitolato Il Vangelo secondo Harry Potter, che cercava di rintracciare tutti gli aspetti cristiani della saga di J.K. Rowling, difendendone il valore come lettura educativa per la formazione religiosa dei ragazzi. Un’esagerazione, senza dubbio, ma chi ha letto con attenzione i sette romanzi non può non concordare sul fatto che un messaggio di stampo “evangelico” sia effettivamente presente, e che, lungi dall’essere un incitamento al satanismo o più genericamente al neo-paganesimo Wicca, l’intera saga subisca fortemente l’influenza della visione cristiana dell’autrice, tanto che nell’ottobre 2002 la Chiesa d’Inghilterra giunse a pubblicare un documento ecumenico che ne incoraggiava la lettura. Ciò non ha comunque messo fine alla polemica. 

Il 26 dicembre 2004 Andrew Carey, figlio dell’ex arcivescovo di Canterbury, commentò che la messa in onda del film Harry Potter e la pietra filosofale sulla BBC in prima serata il giorno di Natale offendeva la solennità cristiana. Negli Stati Uniti l’evangelismo fondamentalista non ha mai accettato di scendere a compromessi con i romanzi della Rowling, tanto che un reverendo del Maine si prese la briga di fare pubblicamente a pezzi armato di cesoie tutti i libri pubblicati fino a quel momento, e un pastore della Christ Community Church di Alamogordo, nel New Mexico, ne fece un gran rogo nel corso di un moderno autodafé. Nel 2001 un certo don Lorenzo Biselx, membro della Fraternità Sacerdotale San Pio X, pubblicò un violento attacco contro la saga della Rowling sulla rivista La Tradizione Cattolica, definendola intrisa di “una cultura religiosa profondamente falsa in quanto fa l’apologia della superstizione magica, peccato contro il primo precetto del Decalogo, ‘religione’ espressa o tacita di Satana”, ricordando in particolare la scena verso la fine del quarto libro, Il calice di fuoco, in cui Lord Voldemort ritorna in vita grazie a una specie di rituale satanico compiuto dai Mangiamorte.

Tutto questo ampio dibattito culturale (nell'accezione più ampia del termine) sembra oggi venuto meno. Sarà perché l'ultimo romanzo risale al 2007 e l'ultimo film al novembre 2010; ma alla vigilia dell'uscita di  Harry Potter e la maledizione dell'erede, non un romanzo, ma la sceneggiatura dello spettacolo Harry Potter and the Cursed Child messo in scena al Palace Theatre di Londra, ambientato vent'anni dopo la fine della saga, tutto ciò che resta sono le file di vecchi e giovani lettori davanti alle librerie per acquistare la propria copia e il frastuono delle macchine dell'industria dell'entertainment che hanno ripreso a lavorare a pieno regime. Siamo di fronte al quarto stadio di un fenomeno popolare: dopo il debutto in sordina, il successo planetario, l'attenzione della critica, arriva la brandizzazione e la  trasformazione dell'opera in un franchise per fare soldi. 

È noto che J.K. Rowling si sia sempre opposta a questo “stadio terminale” di Harry Potter, negando la concessione disinvolta dei diritti di sfruttamento del marchio (per esempio a McDonald, che intendeva brandizzare così i suoi Happy Meal) e cercando il più possibile di mantenere i film della saga fedeli agli originali su carta. Ma non ha potuto impedire il merchandising targato Mattel (che pure non ha fatto sfracelli rispetto alle previsioni di marketing) né l’apertura di ben due parchi a tema a Orlando, in Florida, e fuori Londra. La conseguenza di tutto ciò non è solo l’aver fatto della Rowling una delle donne più ricche d’Inghilterra, e sicuramente la prima scrittrice al mondo ad aver superato il miliardo di euro di guadagni, ma anche la nascita di una vera e propria industria potteriana con un indotto da capogiro. Quando, nel maggio 2010, le riprese dei film della saga si sono chiuse, circa ottocento persone hanno perso un lavoro che durava da anni, perché, nonostante il cambio continuo di regista, la produzione aveva conservato più o meno le stesse persone alle scenografie, agli effetti speciali, al trucco e a tutto il resto dal 2001 in poi. Anche i romanzi, che non sono che la punta dell’iceberg, hanno creato centinaia di posti di lavoro: basti pensare che Bloomsbury nel 1997 fatturava 14 milioni di sterline, e dieci anni dopo 100 milioni. In Italia la Salani ha raggiunto nel 2008 un fatturato record di 36 milioni di euro, più di un terzo derivante dai soli libri di Harry Potter

 

 

Alla vigilia dell’uscita dell’ultimo film, la saga cinematografica aveva incassato 11,4 miliardi di dollari solo di biglietti, a cui si aggiungono circa 3 miliardi guadagnati con i dvd. Va da sé che quando la Rowling ha annunciato che no, dopo il settimo libro non ce ne sarebbero stati altri, parecchie persone hanno perso il sonno, soprattutto alla Warner, la casa di produzione dei film. L’hanno pregata in tutti i modi di ripensarci e, dopo aver preso tempo dividendo in due parti l’ultimo film, si sono comprati i diritti degli spin-off. Negli anni la Rowling aveva scritto infatti alcuni piccoli libri inizialmente pensati per essere relegati agli amici intimi per il sostegno ricevuto negli anni, successivamente lanciati sul mercato con l’intenzione di donare il ricavato a istituti di beneficenza. La Warner della beneficenza non sa che farsene, perciò ha preso uno di questi libri, dal titolo Gli animali fantastici: dove trovarli (si tratta di uno dei libri di testo utilizzati a Hogwarts), meno di un centinaio di pagine in totale, e ha deciso di trarne non uno ma ben tre film fino al 2020, il primo dei quali in uscita a novembre 2016. Tenendo conto del fatto che ci sono altri due titoli di questo tipo in circolazione, ossia Il Quidditch attraverso i secoli e Le fiabe di Beda il bardo (tutti appartenenti alla nobile tradizione degli pseudobiblia, cfr. www.quadernidaltritempi.e/unumero55), ci sarebbe da temere il peggio. Per fortuna della Warner, nel frattempo la Rowling si è decisa a sfornare, se non un nuovo romanzo, perlomeno qualcosa che ci assomiglia molto, così The Cursed Child, dopo essere sbarcato nei teatri e in libreria, approderà senza dubbio sul grande schermo. Anche in questo caso i produttori sono al lavoro su un’intera trilogia da trarre da una sceneggiatura di non oltre due ore.

In una recente intervista, alla domanda se dopo il successo di The Cursed Child avrebbe riconsiderato l’idea di non scrivere più altri romanzi di Harry Potter, la Rowling ha risposto, secca: “No, no” (McKenna, 2016). È la stessa risposta che fornisce da ormai quasi un decennio, ma i tempi sono cambiati. Intanto la stessa Rowling, che pure si è data a tutt’altro genere letterario, con discreti risultati (ma lontanissimi dal successo di Harry Potter), non riesce a fare a meno di tornare ogni tanto nel mondo della magia e di recente ha sfornato tre ebook acquistabili dalla piattaforma da lei gestita, “Pottermore”. Si tratta, ancora una volta, di spin-off, di contorni alla saga, per approfondire ulteriori aspetti del mondo di Harry, in un’ottica di world-building. Intitolati I racconti di Hogwarts, sono note perlopiù enciclopediche su personaggi più o meno noti della saga, nulla quindi a che vedere con vere e proprie storie; ma finché la macchina è alimentata, continuerà a sfornare soldi. E poi c’è Star Wars. Tutti ricordano che George Lucas, dopo il sesto episodio della saga, dichiarò che il progetto era concluso e che, almeno al cinema, non se ne sarebbe più riparlato. Sono seguiti romanzi, serie animate, fumetti, videogame, il franchise insomma è andato avanti, più o meno vivace, ma sempre in attesa di nuova benzina. Alla fine è arrivata Disney, ha messo sul tavolo una cifra folle, e Lucas ha capitolato: ok, il giocattolo è vostro, trattatemelo bene. Oggi Star Wars è una nuova trilogia cinematografia in corso di realizzazione, spin-off tra un film e l’altro, una nuova ondata di romanzi ufficiali, e naturalmente tutto il resto del favoloso merchandising, dalle spade laser ai droidi a forma di pallone da calcio (cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero59). Lucas borbotta qualche critica sul fatto che lui quei film li avrebbe fatti diversamente, che non c’è più il mistero, la Forza non è che un trucco da illusionisti e tutti i riferimenti culturali di cui aveva infarcito la sua saga sono scomparsi. Ma si tiene ben stretto i suoi soldi. Per la Rowling forse le cose non andranno molto diversamente. Tutto ha un prezzo, bisogna solo mettersi d’accordo sul quanto e i “no” possono diventare “sì”. Come per magia.

 

La "notte evento" del 23 settembre scorso: librerie aperte la sera, in attesa della mezzanotte per l'acquisto del nuovo libro della saga di Harry Potter.

 


 

LETTURE

— Lorenzo Biselx, Halloween, i Pokémon e Harry Potter: svaghi innocenti o… lo zampino di Satana nel mondo della scuola?,
— in La Tradizione Cattolica, n. 49, 2001.
— Susan Gunelius, Harry Potter. Come creare un business da favola, EGEA, Milano, 2008.
— Max Horkheimer e Theodor Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1966.
— Thomas Howard, Narnia e oltre. I romanzi di C.S. Lewis, Marietti, Milano, 2008.
— Marina Lenti, L’incantesimo Harry Potter, Delos Books, Milano, 2006.
— Laura Anna Macor, Filosofando con Harry Potter, Mimesis, Milano, 2011.
— Aiello McKenna, “J.K. Rowling Says Harry Potter Franchise is Officially Over With Cursed Child Play and Book”, E! News, 31 luglio 2016. 
— Connie Neal, Il Vangelo secondo Harry Potter, Gribaudi, Milano, 2003.
— Marco Politi, Ratzinger contro Harry Potter: «Una saga che corrompe i giovani, La Repubblica, 14 luglio 2005.
— Philip Pullman, Queste oscure materie. La trilogia completa: La bussola d’oro – La lama sottile – Il cannocchiale d’ambra, Salani, Milano, 2008.
— Simone Regazzoni, La filosofia di Harry Potter, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2008.
— J.K. Rowling, Gli animali fantastici: dove trovarli, Salani, Milano, 2002.
— J.K. Rowling, Il Quidditch attraverso i secoli, Salani, Milano, 2002.
— J.K. Rowling, Le fiabe di Beda il Bardo, Salani, Milano, 2008.
— J.K. Rowling, Harry Potter e la maledizione dell’erede, Salani, Milano, 2016.
— J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Albero e foglia, Bompiani, Milano, 2000.