Eccoci al centro di una piccola
rivoluzione nelle modalità predilette dal racconto seriale
televisivo, segnato da una generale caduta di opposizioni, da una
peculiare sizigia –
allineamento di corpi celesti in astronomia, conciliazione di opposti
in alchimia, e termine ben noto agli appassionati di X-Files.
Si è aperta una stagione di nuovi ibridismi a vari livelli:
dalle declinazioni della formularità seriale, alle
distinzioni di genere, dalle differenze tra messa in scena televisiva e
cinematografica, al manicheismo che usava distinguere buoni e cattivi,
fino alla distinzione tra dominio della produzione e della ricezione
nel circuito comunicativo. La fantascienza ha rivestito (e sta
rivestendo) in questi processi un ruolo per molti versi pivotale, e X-Files,
con la sua dualità di sotto-trame e di punti di vista, con
la sua incessante riproposizione di un’ambiguità
ontologica ed epistemologica del mondo finzionale e del racconto, ha
non solo costituito un'eccezionale esemplificazione di questi
cambiamenti, ma anche svolto una sua particolare sizigia tra
immaginario collettivo e paradigma di realtà contemporaneo,
tra narrazione catodica e mito, tra verità e paranoia
complottista.
Ci proponiamo di fare il punto su questo momento di snodo mettendo a
fuoco tre livelli: testuale (generi e tecniche del racconto nella
serialità di oggi), tecnologico e industriale (nuove
possibilità del medium), comunicativo (la natura del testo
televisivo e della sua ricezione all'epoca della
trans-medialità e della ri-mediazione). Considerate nel loro
insieme queste tre grandi sfere suggeriranno una periodizzazione, e
permetteranno di interrogare il significato profondo di ciò
che viene chiamato “serialità
televisiva”. Cosa vuol dire serialità oggi?
Nell'epoca della convergenza mediatica, ha ancora senso parlare di
testi televisivi? Ma cominciamo dal principio
– come disse il re – e continuiamo fino... al cliffhanger.
L'inizio, nel nostro caso, può essere collocato a cavallo
tra ultimi anni Ottanta e Novanta, quando alcuni cambiamenti di marca
tecnologica, industriale e narrativa si sono addensati fino al
raggiungimento di una massa critica che ha determinato l'inizio di un
rinnovamento profondo del racconto di finzione televisivo, una stagione
di svolta entro la quale X-Files (1993-2002, 2016)
si è trovata, assieme ad altre serie, nell'occhio del
ciclone.
Tra le distinzioni più importanti che cominciano a sfumare
in questo periodo c'è quella tradizionale tra serie
e serial. Nei Television Studies
si usava indicare con series quelle narrazioni in
cui ambientazione e personaggi rimangono costanti e ogni episodio
presenta una vicenda auto-conclusa, dotata di inizio e fine. L'esempio
più tipico sono serie investigative come Columbo
(1968-78, 1989-2003) o Murder She Wrote (1984-96),
via via fino a Law and Order (1990-), e ai vari CSI
(2000-15), Jag (1995-2005) e NCIS
(2003-), in cui ogni puntata offre la
soluzione di un caso, l'incastro di un colpevole; o – caso
altrettanto diffuso – le sitcom, da The Simpson (1989-)
a Friends (1994-2004) – che vedono i
protagonisti attraversare qualche nuova avventura in ciascun episodio,
per ristabilire al termine l'equilibrio iniziale.
I serials
si volevano contraddistinti, al contrario, dalla mancanza di
conclusione dei singoli episodi, e dal proseguimento di storia (la
trama degli eventi) e discorso (narrazione) su un arco più
ampio, come nel caso delle soap opera, normalmente incentrate sui
drammi sentimentali, sessuali, professionali di un gruppo di
personaggi, un nucleo familiare allargato (si pensi a celebri successi
degli anni Ottanta come Dallas, 1978-91
o Dynasty, 1981-89).
I due modelli – serie e serial
– rappresentano due differenti modi di intendere e realizzare
la serialità televisiva, l'uno segnato
dalla ripetizione, puntata dopo puntata, di una
data formula narrativa, l'altro incentrato sulla segmentazione
in episodi di un intreccio e di un arco narrativo di respiro
più ampio. La diverse scelte hanno ovviamente ricadute
corrispondenti sul fronte della fruizione: nel primo caso allo
spettatore del singolo episodio è sufficiente (talvolta non
necessario) possedere una conoscenza di massima dei protagonisti e
dell'ambientazione, nel secondo caso è invece indispensabile
una vasta conoscenza delle storie pregresse dei protagonisti e delle
loro relazioni.
Nell'ambito delle produzioni televisive di alta gamma
(lasciando per il momento da parte più controverse idee di
“qualità”), è tra la fine
degli anni Ottanta, e l'inizio dei Novanta, sulla scorta di esperienze
apripista come Hill Street Blues (1981-87) e Babylon
5 (1994-98 quest'ultima rivoluzionaria nel realizzare un
arco narrativo programmato di cinque anni), che i due modelli cessano
progressivamente di costituire categorie produttive distinte, per
diventare piuttosto repertori mescolabili, o poli di un arco entro il
quale ciascun prodotto può collocarsi senza soluzione di
continuità. Nella fiction seriale della seconda golden
age, oggi, la distinzione tra series e serials
come categorie definitorie o insiemi distinti è
sostanzialmente venuta meno, e sotto il nome comune di
“serie” troviamo produzioni che fanno un uso
combinato dei due paradigmi in misura variabile (cfr. Allrath and
Gymnich, 2005; Bandirali e Terrone, 2013; Nelson, 2007). Da tale
commistione deriva spesso la messa in atto di meccanismi di aiuto allo
spettatore, come i riassunti delle puntate precedenti, ormai ampiamente
diffusi, affidati a un montaggio veloce e al voice over
di un personaggio - si pensi a Dexter (2006-13) o,
con ironica auto-consapevolezza e opacità
del medium, a Shameless (2011-).
In questo quadro X-Files si è offerta
(tanto nel 1993 che nel 2016) come esperienza paradigmatica,
contraddistinta da una peculiare giustapposizione delle due
modalità narrative: da una parte il plot
ampio costituito dalle indagini sulle presenze e i rapimenti alieni e
il complotto governativo teso a insabbiarne le tracce, indagini la cui
conclusione è costantemente rimandata e in cui ogni nuovo
pezzo del puzzle giunge accompagnato da una messa in dubbio del suo
statuto di verità. Dall'altra parte casi di
attività paranormali ed esseri non umani o mutati (i monsters
of the week), su cui Molder e Scully indagano, slegati
dall'arco principale e radicati nella tradizione di serie antologiche
fantastico-fantascientifiche che vanno da classici come The
Twilight Zone (1959-64) e Tales from the Dark Side
(1983, 1984-88) ad alcune delle esperienze più
interessanti degli ultimi due decenni (Masters of Horror,
2005-07). Una dualità che permette di procrastinare
indefinitamente la chiusa della trama principale e offrire al contempo
temporanee soddisfazioni al desiderio di closure
degli spettatori.
X-Files ha raccolto a suo modo anche
l'eredità delle serie poliziottesche incentrate su una
coppia di colleghi – spesso caratterialmente male assortiti,
ma insieme imbattibili nel risolvere i casi – il sottogenere buddy
cop, fiorito negli anni Ottanta con produzioni come Miami
Vice (1984-89) e Moonlighting (1985-89).
Nelle serie degli anni Duemila, mentre la detection
continua spesso a muovere l'azione, è frequente trovare una
struttura narrativa plurale, articolata attorno a un sistema di
personaggi complesso, secondo un modello proposto, tra le altre,
già da Twin Peaks (1990-91), portato
alla massima espressione centrifuga da Lost (2004-10),
e quindi riproposto, tra gli altri, da grandi successi di pubblico (The
Walking Dead, 2010-; Game of Thrones,
2011-) e da serie divenute “di culto” (Battlestar
Galactica, 1978, 2004-09; True Blood,
2008-14).
L'articolazione del sistema dei personaggi e la moltiplicazione di
sotto-trame trova nel montaggio alternato uno strumento tipico che,
intrecciando vicende parallele, può consentire di alternare
sotto-generi o atmosfere dominanti diverse, e di tenere alta la
suspense, moltiplicando i meccanismi dilatori che rimandano lo
scioglimento di ciascuna vicenda. In ciò sta non solo uno
degli apporti più significativi giunti dal modello narrativo
delle soap opera, ma un segnale di quanto le serie televisive oggi
siano piene eredi del feuilleton ottocentesco: i cliffhanger che
lasciando in sospeso una situazione drammatica assicurano il ritorno
dello spettatore dopo la pubblicità, o per il prossimo
episodio o per la prossima stagione, altro non sono che moderne
versioni dei twists di Charles Dickens e
Eugène Sue, di Honoré de Balzac e Alexandre
Dumas, e così vale per le dosate altalene di suspense e
sorpresa, colpi di scena, rivelazioni e agnizioni (cfr. Piga, 2014).
Non viene meno la presenza di uno o alcuni protagonisti principali, ai
quali resta di solito legata l'esistenza di un enigma centrale, che al
perenne rinvio di conclusioni feuilletonesco e soap-operistico
somma il costante differimento di risoluzione narrativa
già indicato dagli studiosi tra i caratteri non
sacrificabili di ogni narrazione che voglia aspirare ad avere un
seguito di fan fedeli, a diventare, cioè, un prodotto
“di culto” (cfr. Hills, 2002). Può
trattarsi di un mistero da risolvere, di un interrogativo sulla vera
natura del personaggio o sul suo passato, di una tensione erotica
irrisolta all'interno di una coppia.
Di pari passo all'ibridazione tra formule è andata la
commistione tra generi, cifra distintiva in produzioni di grande
successo di critica come The Sopranos (1999-2007)
– gangster e psychological drama; Buffy
(1997-2003) – teen drama,
gotico-soprannaturale, azione; Ally McBeal (1997-2002)
– drama giudiziario, genere romantico,
venature di MTV, e via dicendo (cfr. Nelson, 2007). Come i generi nel
senso di “format”, anche i generi nel senso di
“settori dell'immaginario” sono divenuti repertori
cui i creatori attingono liberamente, il cui uso coniugato
può seguire la strada di una giustapposizione
paratattica, che invita lo straniamento, magari divertito,
del pubblico, sottraendo la sicurezza del genere come dispositivo
convenzionale di decodificazione.
In questo quadro, la fantascienza si è fatta capace, in
maniera crescente, di incorporare con successo elementi tipici di altri
repertori generici, dal poliziesco-procedurale in Life on Mars
(2006-07) al western in Firefly (2002), al teen
melodrama di Smallville (2001-11) (cfr.
Telotte and Duchovnay, 2012). Più oltre la fantascienza
è divenuta matrice inconfondibile e immancabile di prodotti
pure strutturalmente ibridi che hanno segnato il passo della fiction
televisiva nel suo complesso (forse superfluo ri-citare qui
Twin Peaks, Lost, oltre, ovviamente, ai
nostri X-Files) (cfr. Johnson, 2005).
Anche relativamente all'ibridazione di genere e alla proliferazione dei
tropi fantascientifici X-Files presenta una sua
incarnazione esemplare, tra detective thriller,
fantascienza e horror: certo si tratta di una tendenza al pastiche
tipicamente postmoderna, all'auto-consapevolezza ironica e ammiccante
(Scully prende in giro le teorie di Molder bollandole come science
fiction, o cita Stephen King e Brian De Palma definendo la
telecinesi come “how Carrie got even at the prom” e
così via). Ma tutta fantascientifica è anche la
riflessione che riguarda un paradigma di realtà in cui i
media rivestono un ruolo crescente: si pensi alla centralità
di foto, video, report, diapositive nella presentazione e
ricapitolazione dei casi, alla manipolazione cospirativa
dell'informazione, alla messa in discussione radicale dello statuto
ontologico dell'intero mondo finzionale, il quale, viene insinuato,
potrebbe non essere altro che l'autobiografia fantascientifica di uno
dei suoi personaggi (cfr. Hill, 2012). A ragion veduta tra gli
sceneggiatori ospiti della serie non potevano mancare Stephen King
(stagione 5, episodio 10) e William Gibson (stagione 5, episodio 11;
stagione 7, episodio 13).
La presenza di una riflessione sulla natura ri-mediata e
tecnologicamente costruita della realtà si può
più in generale annoverare tra i motivi della relativa
fortuna della fantascienza televisiva in anni recenti, che ne fanno un
genere dalla spiccata attitudine postmoderna, quantomeno nelle sue
declinazioni più intelligenti (cfr. Telotte, 2008; Geraghty
2009). Di questo sono testimonianza non solo la partecipazione del
repertorio fantascientifico in prodotti ibridi di successo come appunto
X-Files, ma anche il numero di prodotti che,
mantenendo spiccate marche di genere, sono diventati “di
culto” (Firefly; Heroes,
2006-10; Battlestar Galactica, oltre ai
casi storici di Star Trek, 1966-2005, e Doctor
Who, 1963-); la relativa popolarità testimoniata
dal varo del canale Sci-Fi (oggi SyFy) della NBC nel 1992; il numero di
spin off e quello di serie migrate sul grande schermo e viceversa.
Parte del fascino della fantascienza televisiva e cinematografica
è da ricercare nell'attitudine all'auto-consapevolezza,
all'auto-riflessività, che deriva dall'essere prodotto di
quella stessa tecnologia che è posta al centro della
rappresentazione (di questo avviso ad esempio sono Telotte and
Duchovnay, 2012).
Lo statuto incerto della realtà rappresentata in X-Files
ci porta a menzionare un'ulteriore caduta di opposizioni, quella tra
diverse spiegazioni degli eventi, tra paradigmi di realtà
concorrenti. In molte produzioni contemporanee, sempre restando
nell'ambito dell'alto di gamma, cioè di serie che presentano
un alto investimento di risorse creative ed economiche nella loro
produzione, troviamo oggi narrazioni strutturalmente polisemiche. In X-Files
questa polisemia è data dalla compresenza tra i punti di
vista dei due protagonisti – Molder per lo più
portatore della credenza nel paranormale, spesso unico testimone di
eventi chiave e guida visiva dello spettatore, Scully rappresentante
dello scetticismo scientifico, a cui viene accordato un spazio
epistemologico e narrativo secondario ma comunque significativo con i
rapporti fatti ai superiori e i relativi voice over
– due punti di vista che tendono spesso a intrecciarsi e
confondersi. La coesistenza di spiegazioni e interpretazioni
concorrenti dei fatti, l'impossibilità di ciascuna
narrazione di prevalere in un quadro inter-soggettivo e men che meno
pubblico, sublima, sul piano ideologico ed epistemologico, quella
mancanza di closure e quel costante
differimento di risoluzione narrativa già
menzionati come meccanismi narrativi particolarmente utili alla
fidelizzazione dello spettatore.
La messa in scena della soggettività, di una moltitudine di
prospettive, e, più ancora, l'introduzione di narratori
interni inattendibili, sono diventati cifre ricorrenti dei prodotti
contemporanei: esempi potrebbero trovarsi oltre che in X-Files
(ad esempio si veda l’episodio 12 della quinta stagione), in Buffy,
the Vampire Slayer (nell'episodio 15, della stagione 7 un
personaggio racconta una versione inattendibile di quanto avevamo visto
negli episodi 21-22 della stagione 6), ma si pensi anche alla presenza
della narrazione omodiegetica in serie che sfruttano le formule del mocumentary
(in senso umoristico – The Office,
2001-03; o investigativo-drammatico – True
Detective, stagione 1, 2014). L'omodiegesi –
cioè la presenza di un personaggio che funge anche da
narratore in prima persona della storia, tradizionalmente meno adottata
nei media audio-visivi rispetto alle narrazioni scritte, dove la agency
del narratore è “di default” assunta
dalla telecamera, diviene invece uno strumento ideale per portare sullo
schermo l'indecisione interpretativa, la polisemia, quella post-moderna
assenza o sfuggevolezza di una verità condivisa,
perennemente rincorsa e mai raggiunta: The truth is out there
recita la tagline di X-Files, la verità
è là fuori, ma, per il momento, resta
inaccessibile; lo spettatore può godersi l'affabulazione che
è nella ricerca. Si sfocano così non solo i
confini percettivi tra realtà inter-soggettiva e
allucinazione, ma anche i confini morali tra
“buono” e “cattivo”: viene meno
ogni inquadramento manicheistico della realtà e dei
personaggi, e anzi, ci si compiace non più solo di costruire
personaggi a tutto tondo (i simpatici “cattivi” di Game
of Thrones), tipicamente tormentati dai loro passati
irrisolti (i protagonisti di Lost o il nostro
Molder), ma personaggi che chiamano direttamente in causa la
fragilità dei nostri criteri di giudizio: poliziotti
corrotti ma sensibili (The Shield, 2002-08), serial
killer che uccidono solo per riparare le lacune del sistema giudiziario
(Dexter), o che tra un omicidio e l'altro tornano a
essere ragazzini spaventati e oppressi da madri disturbate (Bates
Motel, 2013-), terroristi tormentati e indecisi (Homeland,
2011-), capimafia complessati (The Sopranos), e
così via.
Queste tendenze al rinnovamento nelle scelte tematiche e narrative non
basterebbero a far parlare di una nuova fase nella storia della
televisione se non intervenissero contemporaneamente a cambiamenti
altrettanto importanti sul piano tecnico della realizzazione e, per
conseguenza, sul piano della resa audio-visiva proprio del medium
televisivo. A partire dagli anni Ottanta l'immagine televisiva ha
goduto di crescenti possibilità sia a livello produttivo che
a livello fruitivo, raggiungendo una definizione, una resa del colore e
del movimento prima sconosciute. Pensiamo all'avvento dell'immagine
costruita in digitale, con relative possibilità di ottenere
effetti speciali a budget ridotti e, sul fronte della ricezione, alla
comparsa di schermi più ampi e migliori (tra cui il plasma
nel 1995 e i cristalli liquidi negli anni Duemila), e di impianti audio
con surround digitale per uso domestico.
Questi avanzamenti tecnici hanno influito in maniera decisiva sul
passaggio da una televisione eminentemente parlata, con sfondi poco
descrittivi, a una televisione in cui la mise en
scène riveste un ruolo chiave, anche come veicolo
di informazioni cruciali allo sviluppo della narrazione (cfr.
Johnson-Smith, 2005). La fantascienza, con la sua rappresentazione di
un sublime tecnologico, la sua ricerca di un sense of wonder
e di un novum cognitivamente straniante (cfr.
Suvin, 1985) a beneficio dello spettatore, ha colto queste nuove
possibilità con particolare energia e inventiva per
applicarle allo spazio, a mondi paralleli e alternativi, al futuro: si
pensi alla ricchezza e profondità visuale dei mondi di Babylon
5 o Stargate SG-1 (1997-2007). Anche
produzioni in altri generi del fantastico hanno sfruttato queste
possibilità investendo precipuamente sulla ricchezza della
messa in scena (American Horror Story, 2011-; Game
of Thrones), e, più in generale, si è
assistito a una costante crescita dei budget di quei prodotti
esplicitamente proposti come serie “di
qualità” (nel 1993 X-Files
cominciava con un budget di due milioni di dollari per il pilota; si
confronti con i quattordici milioni per il pilota di Lost
nel 2004, seguiti dai quattro milioni di media a episodio).
Cambiamenti tecnici decisivi sono avvenuti anche nel settore della
distribuzione: una nuova generazione di satelliti direct-broadcast
(DBS, comparsa nel 1994 negli Usa), nuove tecniche di compressione
digitale, l'avvento definitivo del digitale terrestre negli anni
Duemila, hanno consentito di veicolare una quantità
superiore di canali nella stessa larghezza di banda elettromagnetica a
disposizione. Lungi dal trattarsi di tecnicismi, questi mutamenti hanno
rivoluzionato l'ampiezza dell'offerta, e condizionato l'approccio alla
televisione da parte delle autorità statali: se nei decenni
precedenti la scarsità di spettro aveva sostenuto, in
Europa, la tenuta di una gestione statale centralizzata delle frequenze
viste come bene pubblico, la sensazione di trovarsi davanti a una nuova
abbondanza ha spinto verso dinamiche di privatizzazione e
de-regolamentazione del mercato, con spiccate tendenze alla
concentrazione verticale (ancora una ragione dell'attualità
della fantascienza, che così spesso ci ha ricordato la
cogenza dei rapporti tra tecno-scienza politica e società).
D'altronde il progresso delle tecnologie via cavo e satellitari ha
anche determinato, negli Stati Uniti, la crescita di un'offerta
televisiva subordinata al pagamento di abbonamenti, e dunque svincolata
dai limiti di censura, appropriatezza, appetibilità per gli
inserzionisti che si impongono alle reti in chiaro, favorendo in ultima
analisi l'introduzione di contenuti espliciti e di una sofisticazione
culturale prima sconosciuti al mondo delle serie generaliste (pensiamo
alle produzioni di HBO o Showtime).
Alle innovazioni nella ricezione e nella distribuzione si sono sommate
infine quelle nei sistemi di accesso e riproduzione dei programmi:
l'avvento dei DVR (Digital Video Recorder, negli Usa
il lancio di TiVo avviene nel 1999, in Italia la presenza di PVR si
lega al digitale terrestre nei secondi anni Duemila), del dvd (1996),
quindi la diffusione dello streaming on-line resa possibile dalla
crescente portata delle infrastrutture digitali negli anni Duemila
(accesso di massa a connessione e personal computer, ampiezza di banda,
standardizzazione di protocolli e formati) hanno reso i prodotti
televisivi passibili di una selezione e di un riuso
da parte dei fruitori, sconosciuti fino a pochissimo tempo
prima.
Anche qui l'impiego della tecnologia è tutt'altro
che neutro: il testo televisivo viene fruito sempre più al
di fuori del tradizionale flusso palinsestuale che
aveva contraddistinto la televisione tradizionale; in qualche caso
comincia ad essere prodotto e distribuito direttamente su piattaforma
digitale on-line. Netflix, che nasce nel 1997 come servizio di
streaming on demand, diventa produttore nel 2011,
anche con serie “di qualità” come House
of Cards (2013-), e tocca i 75 milioni di abbonati e i 43
milioni di dollari di ricavi netti nel 2015 (Netflix 2016), mentre si
comincia a discutere il peso di dati di ascolto misurati nei primi 30
giorni anziché 7, e/o che includono appunto streaming e
on-demand.
La possibilità di selezione, assieme alla moltiplicazione
dell'offerta, fa sì che il pubblico non sia più
una massa indifferenziata: ciascuno sceglie secondo le proprie
preferenze, e si affermano produzioni che fanno appello a settori
specifici, a “nicchie” di gusto, qualcosa di
impensabile secondo la vecchia logica del least objectionable
program (il programma che, per massimizzare gli ascolti, era
pensato per suscitare minori obiezioni possibili). Nell'epoca delle
nicchie, la stessa commistione tra generi narrativi può
essere letta come tentativo di catturare e mettere insieme
più segmenti diversi di pubblico potenziale.
Infine, la possibilità di essere riusato
rende il testo televisivo candidato a ricevere una nuova patente di
artisticità. La complicazione e la stratificazione estetica
e narrativa possono raggiungere nuovi livelli, ad anzi, al prodotto
“di culto” si richiede la costruzione di un mondo
finzionale abbastanza vasto e coeso da poter essere esplorato e
popolato dai fan e dalle loro ri-creazioni originali (ciò
che Hills 2002 ha indicato come iperdiegesi;
Bandirali e Terrone 2013 parlano di compresenza di epopea
e drammaturgia in termini aristotelici). L'insieme
di questi cambiamenti ha spinto a parlare di un accorciamento delle
distanze estetiche tra cinema e televisione, nonché di un
progressiva convergenza e sovrapposizione tra
schermi (televisivo, del computer, del tablet), tanto che in ambito
anglosassone è nato un filone di Screen Studies.
Vale la pena riannodare a questo punto i fili di alcune questioni legate alla ricezione: da una parte le comunità di
appassionati (fandom) di dati programmi/franchise attivi oggi in una
dimensione pienamente trans-mediale, dall'altro lato (ma le due cose
non sempre sono così distinte) il campo degli studi
critico-accademici.
Anche su questi fronti X-Files offre un caso
esemplare. Giunta sul mercato americano negli anni del primo avvento di
Internet e quindi del world wide web, la serie è stata una
delle prime il cui fandom si sia servito ampiamente dei media digitali:
il primo gruppo Usenet dedicato (alt.tv.x-files) nasce nel dicembre
1993, il primo gruppo Simplenet (Idealists Haven) nel 1998, archivi di
fanfiction compaiono online già nel 1995 (The Gossamer
Project, fondato da Vincent Juodvalkis) e nel 1998 (Ephemeral, fondato
da Scott Miller). All'uscita del secondo lungometraggio risale la
fioritura di blog ospitati su Livejournal, mentre a partire
dall'annuncio della decima stagione nel 2015 non è mancata
una presenza cospicua su vari social network. Negli anni Novanta il
fandom di X-Files è stato forse il primo
a esser fatto bersaglio di un'iniziativa legale ostile da parte di un
network (la Fox), e il primo a rispondere con una campagna di difesa
auto-organizzata (Free speech is out there: Protecting X-Phile
websites, 1999), ma anche il primo a vedersi riconosciuto in
altri modi dalla produzione (ad esempio con l'inserimento di nomi di
fan negli episodi come nomi di personaggi).
Il fandom di X-Files offre insomma un caso di
studio ottimo per comprendere le affascinanti dinamiche secondo cui gli
appassionati oggi si appropriano dei contenuti messi a disposizione
dall'industria culturale, per farne un collante sociale attraverso la
discussione, o per ri-crearli e svilupparli attraverso la propria
espressione artistica amatoriale (di narrativa ma anche audio-video,
immagini, etc.). Un'espressione magari risarcitoria
di quei temi e problemi che nelle narrazioni ufficiali tendono a essere
esclusi (ad esempio, erotici e omoerotici), secondo strategie oggi
studiate con interesse, sulla scorta dei seminali studi di Henry
Jenkins negli ultimi anni Ottanta (non a caso dedicati ai fandom di
serie fantascientifiche come Star Trek, raccolti e
sviluppati a partire da Jenkins, 1992; Jenkins, Tulloch, 1995). Il
rapporto che lega fandom e industria è tanto più
affascinante quanto ambiguo (nel senso etimologico del termine): da un
lato i fandom dipendono dall'industria per i contenuti primari ma al
contempo ricercano e rivendicano una misura precipua di autonomia
creativa e ideologica. Dall'altro lato le industrie dei contenuti hanno
compreso molto bene alcuni dei meccanismi che governano la nascita e il
funzionamento di un fandom attorno a un prodotto e non esitano a
sfruttarli, creando serie pensate per rispondere ai requisiti tipici
del prodotto “di culto”.
Si può esemplificare questo rapporto complesso guardando
alla resilienza del concetto di autorialità:
l'impiego del concetto di autore relativamente a un
prodotto come quello televisivo, risultato di un lavoro collettivo cui
partecipa un numero di professionalità specializzate,
è un chiaro caso di mcluhaniano “rearviewmirrorism”
– “sindrome da specchietto retrovisore”,
“l'applicazione di concetti critici antiquati, basata su
un'errata applicazione di valori propri di un sistema culturale
incentrato sulla stampa a prodotti dell'era elettronica”
(Gregory, 2000, traduzione dell’autrice). All'idea di autore
continuano d'altronde a essere demandate funzioni di
riconoscibilità, coesione, continuità artistica,
non solo da parte dei network, che offrono in molti casi figure di
riferimento ufficiali in questo senso, ma anche da parte dei fan, che
nella continua creazione e ricreazione dell'idea di autore
riconfermano, sul piano della ricezione, l'importanza di una nozione di
autorialità di matrice romantica tra le caratteristiche
fondative per quei prodotti che aspirino allo status di culto (cfr.
Hills, 2002). Così Alan Ball, Ryan Murphy e Brad Falchuk,
Joseph Whedon (per non parlare di Chris Carter o Gene Roddenberry)
continuano a comparire come autori in interviste e
articoli sui media generalisti ma anche in forum e fanzine amatoriali.
Più in generale, fan ma anche critici e studiosi faticano
talvolta a riconoscere o ricordare quanto possano pesare nella fattura
e nel contenuto del prodotto televisivo ragioni tecnologiche e di
mercato. Si pensi alla durata fissa delle puntate (venti minuti con
dieci minuti di intervalli pubblicitari, o quarantacinque minuti con
quindici di intervalli pubblicitari a seconda delle tipologie) in senso
di standardizzazione modulare funzionale all'organizzazione fordistica,
per così dire, del palinsesto; alla scansione di ogni
episodio in sequenze che favoriscono l'inserimento degli stacchi
pubblicitari tenendo lo spettatore avvinto con cliffhanger
di rilievo; alla diffusa presenza di teaser iniziali pensati per
catturare l'attenzione del pubblico nei primi minuti della puntata;
alla stagione come ciclo narrativo corrispondente
ai ritmi dell'anno scolastico e lavorativo ma anche funzionale alla
vendita degli spazi pubblicitari; a fenomeni di sofisticato marketing
virale, e così via.
Una crescente necessità di distanza critica si scorge nei
dibattiti attorno alle definizioni di serie “di
qualità” (cfr. Nelson, 2006) e “di
culto” (cfr. Hills, 2002; Johnson, 2005), ma anche nei
profondi ripensamenti dell'idea stessa di
“televisività” in corso: le tradizionali
definizioni basate su approcci differenziali rispetto al cinema (minor
qualità e profondità dell'immagine televisiva
rispetto a quella cinematografica, maggior importanza del codice
verbale nella narrazione televisiva, etc.) stanno cadendo, man mano
che, in questa nuova epoca della serialità, ci si rende
conto che si trattava di differenze storicamente determinate e non
inerenti la natura dei media.
Meno attenzione è stata per ora dedicata dalla critica ad
alcuni aspetti in ottica trans-nazionale. Sul mercato globale
l'esportazione statunitense è largamente dominante: 70% del
commercio globale in ore di programmazione (al secondo posto il Regno
Unito con il 10%), 68% della vendita globale di television
dramas a valore nel 1999; nel 2000 i programmi di
fiction in onda in Italia in una settimana campione qualunque erano di
provenienza statunitense per il 64% (cfr. Christopher, 2009; Miller,
2010 alla voce Globalisation; Casey et al. 2008
alla voce Americanization). A fronte di questo
quadro, sono ancora relativamente pochi gli studi su doppiaggio,
sottotitolazione, localizzazione (ossia traduzione
e adattamento culturale e tecnico ai contesti culturali di arrivo), e
su ricezione e fandom nei mercati extra-statunitensi.
É interessante rimarcare, in conclusione, come qualunque
nuova evoluzione della serialità televisiva
continuerà a dipendere dall'intricata, affascinante
interazione tra aspetti creativi, tecnologici ed economici. Trovandoci
pienamente al centro della sizigia attuale, è troppo presto
per dire quanto le serie di oggi stiano mantenendo caratteristiche
destinate a scomparire, come gli incunaboli imitarono i manoscritti, e
se elementi come la durata standard degli episodi o l'organizzazione in
stagioni lasceranno il posto a paradigmi ancor più
radicalmente rinnovati nella serialità del digitale e degli schermi
diffusi. Tanto più sarà un piacere
restare con gli occhi aperti.
LETTURE
VISIONI