La fantascienza non smette mai di stupirci, per la sua vocazione a infilarsi e spuntare da tutte le parti e a riscrivere il reale, a rielaborarlo, a gettare nuove luci da cui osservare il mondo degli uomini. Quello esterno e quello interiore, come propugnava a science fiction ormai matura James G. Ballard inaugurando la rivista New World nel 1968, rilanciando su un piano per così dire “oggettivo” gli effetti del disagio e delle sofferenze psichiche individuali trasformandole da ferite e deliri del Sé in mondi dominati dallo straniamento, dalla follia, dalla depressione (cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero22).
Come avviene anche in The X-Files.
Partita negli Usa nel 1993, la serie tv ideata da Chris Carter per la Fox, si erge solida come una pietra miliare sul percorso che traccia la linea dell’incontro tra la irriducibile forza dell’irrazionale nella narrazione e le istanze della razionalità, sempre nel racconto, promosse e difese da generi come la science fiction e le varie declinazioni del poliziesco.
Quando vide la luce, la serie ereditò un pesante fardello: fu presentata infatti, almeno sulla rete tv su cui partì, Canale 5 di Mediaset, come una sorta di risposta o di omaggio al cult Twin Peaks (cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero52) di Mike Frost e David Lynch, conclusosi un paio di anni prima e immediatamente entrato nel mito per i consumatori di racconti televisivi dell’improbabile e del mistero e per chi aveva scoperto la maestria di Lynch attraverso le sue pellicole, prima di tutto il leggendario Eraserhead (1977).
La stessa cosa sarebbe poi capitata a partire dal 1996 ad un’altra serie, che durò solo tre stagioni, Millennium, sempre di Chris Carter (Fox, 1999). Ma se quest’ultima, per gli appassionati del genere, i nostalgici di quel monumento che è Twin Peaks, fu una sonora delusione, forse non fu del tutto così per The X-Files, che riuscì ad assumere ben presto una sua identità precisa, riconoscibile, seppur diversa dalla serie cui i suoi promoter la paragonarono, tanto da durare ben nove stagioni e da tornare ad affacciarsi sugli schermi tv con una miniserie sequel proprio a inizio 2016 e innescare meccanismi di fidelizzazione e passione che fino ad allora avevano investito solo serie come Star Trek (cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero10), e che poi avrebbero trovato piena espressione con Lost di Jeffrey J. Abrams e Damon Laurence Lindelof (cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero28) grazie all’istituirsi del Web come canale privilegiato di espressione, condivisione, partecipazione, anche produttiva, del fandom.
Se ragioniamo sulla sequenza temporale su cui sono collocate le varie serie, e sull’immaginario, o meglio, sull’intreccio di curvature dell’immaginario cui fanno riferimento, diventa d’obbligo, ancor prima che automatico, citare un’altra serie, il vero capostipite di tutte queste, il punto di inizio della serialità televisiva dell’inquietudine e del perturbante, Ai confini della realtà (cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero51), che almeno fra il 1956 e il 1963 aprì ai telespettatori di allora, praticamente la prima generazione di telespettatori, gli universi del fantastico e della fantascienza serializzati.
Nella sostanza, una linea che recupera dalla tradizione della narrativa fantastica lo straniamento dell’Hunheimlich per agganciarvi la logica dei dubbi che la Ragione si impone di affrontare con le armi dell’empirismo, ma che però si nutre delle paure sul confine fra secolare e metafisico di tutta la seconda metà del Novecento, quella degli UFOs, dell’Area 51, dell’Incidente di Roswell, o di quello di Maury Island, le “cose che si vedono nel cielo”, insomma (cfr. Jung, 2004) , con conseguente nascita della mitologia sui Mib, i Men in Black del governo federale incaricati di far tacere con le buone o le cattive i “militanti” impegnati a denunciare i suoi traffici verso i visitatori della Terra provenienti dallo spazio esterno.
Ecco, The X-Files prende le mosse da questa area dell’immaginazione (e dei meccanismi di attrazione/repulsione per il trascendente) per scolpire con decisione un calco finzionale preciso: quello dell’investigazione scientifica, aperta anche alla conferma di ipotesi apparentemente strampalate, su fenomeni apparentemente metafisici.
A volte, però, la serie torna sui suoi passi, e rende omaggio alla sua dimensione più rigorosa e fedele nel rendere omaggio alla fantascienza e alla sua madre nobile in televisione, The Twilight Zone. Come ad esempio in Lunedì (2005), l’episodio 14 della sesta stagione (diretto da Kim Manners e scritto da Vince Gilligan e John Shiban) andato in onda in Italia su Italia 1, la rete in cui intanto aveva traslocato dalla sua seconda stagione, il 12 marzo 2000.
L’episodio si svolge su tre linee temporali contemporanee, intrecciate in montaggio alternato. In una delle linee, Mulder comincia malissimo la settimana: svegliato dal tonfo del quotidiano che gli viene gettato davanti alla porta, si rende conto di essere nei guai: la sveglia non ha suonato perché il suo letto ad acqua si è rotto, allagando il pavimento, il telefono sta squillando perché si sta allagando l’appartamento di sotto, lui è in ritardo al lavoro…
Scully è invece in ufficio, sulle spine per il ritardo del suo partner, che arriva di corsa, giusto per dirle che deve scappare: deve passare in banca, a cambiare un assegno…
In contemporanea, grazie al montaggio alternato, seguiamo le azioni di Pam e Bernard, due giovani male in arnese. Sono in auto, vicino alla banca dove sta andando Mulder. Tutti e due tesi, contratti: Pam scongiura Bernard di non andare, lui insiste.
In realtà, Bernard porta sotto la giubba una cintura esplosiva e si prepara a rapinare proprio quella banca. Crede che Pam non lo sappia, ma, è qui che si innesca lo straniamento, Pam lo sa bene, benissimo: è l’ennesima volta che rivive quella scena, intrappolata in un loop temporale di cui è cosciente solo lei. Un circolo chiuso, letale, in cui Mulder le passerà davanti senza fermarsi, per poi entrare in banca, dove lo raggiungerà Scully, mentre Bernard si farà esplodere trascinando nella morte anche i due agenti dell’Fbi…
Pam, lo vediamo, è ridotta a una larva, tesissima, scavata, svuotata dalla tensione di veder ripetersi ogni santo giorno della sua vita, in un’infinita serie di lunedì, sempre la stessa sequenza di eventi: l’uscita di casa, il viaggio in macchina, le rassicurazioni di Bernard (per cui naturalmente ogni volta è e sarà l’unica in cui andrà a farsi esplodere nell’illusione di realizzare il proprio “sogno americano” il suo Getaway personale), il suo ingresso in banca, l’incrociarsi di Pam con Mulder, l’esplosione…
E anche noi seguiamo le repliche della vicenda, attraverso la reiterazione dell’intera scena nelle sue tre linee di montaggio, perché sceneggiatori e regista ci fanno assistere al ripetersi di quel maledetto (per Pam) lunedì una, due, tre, enne volte…
Ma con un accorgimento, che nella strategia narrativa messa in atto si rivela vincente, dal punto di vista della capacità di sopportazione dello spettatore, come da quello dello svolgersi del plot del telefilm.
Ad ogni ripetizione della sequenza, infatti, qualche dettaglio cambia. Nelle sequenze della riunione alla quale Mulder è in ritardo, nei suoi gesti quando si sveglia, nel suo camminare per strada… nel suo incrociarsi con Pam.
Fino a quando Mulder, per un qualche motivo sottile, impalpabile, indefinibile, passando davanti alla ragazza in macchina ha un’incertezza, si ferma, le rivolge la parola: che si siano già visti da qualche parte? Questo cambiamento nel dipanarsi dei piccoli eventi che segnano l’eterna giornata di Pam, di cui solo la ragazza è consapevole, si riflette in successione anche sugli eventi connessi, riscrive i rapporti di causa/effetto fra gli avvenimenti del microuniverso, della bolla spazio-temporale sospesa in cui vive la protagonista della storia, fino allo scioglimento finale, in cui i due agenti speciali dell’Fbi si salveranno, e Pam e Bernard moriranno, mettendo fine al circolo vizioso del continuum spazio-tempo in cui erano implicati infinite Pam, e infiniti Bernard, Scully, Mulder…
Nell’ultima ripetizione della sequenza iniziale, a ordine universale finalmente ricondotto in dimensioni, se si vuole, newtoniane, lineari, capiamo che di ciò che è successo ai due sopravvissuti non è rimasto nessun ricordo, se non forse qualche vaghissima, imprecisa, inconsistente impressione. E un estemporaneo desiderio di ragionare sull’idea di libero arbitrio e quindi su quella di predestinazione.
Ecco, rispetto alla cifra profonda di The X-Files, che ha il suo fulcro nell’immaginario degli “incontri ravvicinati”, del parapsicologico e del complottistico, Lunedì è piuttosto eccentrico: il suo nucleo è radicato in profondità nella natura originaria della fantascienza, il disordine del continuum spazio-temporale e di tutte le possibili interrogazioni sulla struttura essenziale di questo e della nostra collocazione nel suo flusso.
Sullo sfondo di Lunedì c’è l’immaginario degli universi paralleli e alternativi, quindi della ciclicità o linearità del tempo, della possibilità di viaggiare avanti e indietro in questo e di un’infinita teoria di doppi, di sosia dei protagonisti della vicenda. In fondo, nell’universo di cui Pam è il fulcro, forse la vittima, la creatrice, l’evocatrice, chissà?, ogni giorno è come il giorno prima, lei lo conosce, sa già cosa accadrà, rivive continuamente il suo futuro prossimo, anzi anteriore: “Quando sarà successo questo, allora accadrà quest’altro”. Ma… ma questa conoscenza del suo futuro non le serve a nulla: non può modificarlo in nessun modo, lo subisce e basta. Nel suo universo domina il Destino, non c’è possibilità di scelta, di esercizio del libero arbitrio. Solo il Caso può cambiare le cose, come infatti, almeno così appare, finalmente accadrà.
O, forse, semplicemente la ragazza volta per volta si sposta in un universo alternativo, laterale, diverso dal precedente solo per un piccolo dettaglio, che produrrà una differenza minima che, accumulandosi alle altre, prima o poi la condurrà fuori del circolo vizioso in cui è rimasta incastrata, e la libererà dal suo inferno, dal suo martirio quotidiano… Il che non significa che gli altri universi, quelli precedenti, non esistano ancora, con la loro infinita replica di Bernard, Pam, Mulder, Scully, il quotidiano sbattuto per terra sulla soglia di Mulder, il letto ad acqua bucato, la riunione all’Fbi, la banca, la rapina, la bomba…
Un po’ l’idea che in seguito svilupperà Stephen King in 22/11/’63 (2011) facendo appello come sottofondo “scientifico”, nella migliore tradizione della science fiction, alla “teoria delle stringhe”, ma ponendo nelle mani del protagonista del romanzo, Jake Epping, il potere di intervenire sul tempo, sulla Storia, per modificarla (cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero36), cosa che nell’episodio di The X-Files è esclusa.
Pam conosce il suo futuro, ma non può cambiarlo, come Sisifo, se vogliamo. E come avviene in una serie tv degli ultimi anni trasmessa sulle reti Fox, che si è fermata alla sua prima stagione, FlashForward (2010). Nella serie, tratta da un romanzo di Robert J. Sawyer, pubblicato in Italia con scarsa risonanza dall’editore Fanucci nel 2000 col titolo Avanti nel tempo, si immagina che: “Il 6 ottobre, il pianeta è andato in black-out per due minuti e diciassette secondi. Tutto il mondo ha visto il futuro” come recita l’introduzione agli episodi che man mano vengono trasmessi. E tutti hanno fatto esperienza diretta, hanno vissuto lo stesso identico momento di sei mesi dopo. Quella che potrebbe sembrare ai singoli individui un’allucinazione, si rivela invece un fenomeno che ha interessato ogni singolo individuo del pianeta. Bastano pochi riscontri per rendersene conto: è sufficiente che chi ricorda che nel suo flashforward era con qualcuno di conosciuto, lo verifichi con lui, o con lei.
Questo pone tutti di fronte a una condizione paralizzante, soverchiante, che mina le basi profonde della sicurezza ontologica, relativa all’idea che si ha di se stessi, della realtà, della propria capacità di agire: “Cosa fare, nell’attesa di quel momento? Lasciare scorrere gli eventi, o cercare di modificarli? Come comportarsi nello svolgersi della quotidianità? Sarebbe possibile modificare il futuro?” In altri termini, lo stesso problema che si pone continuamente la Pam di The X-Files, laddove lei, rassegnata, fa in ognuno dei suoi “lunedì” tentativi sempre più flebili, indeboliti, di impedire al suo ragazzo e a Mulder di andare a farsi ammazzare…
Ancor più esplicitamente, nella serie della Fox, si pone continuamente il tema del conflitto fra libero arbitrio e destino, e fra caso e necessità. E implicitamente, almeno in termini fantascientifici, quello della possibilità che esista una teoria di infiniti universi, l’uno a fianco all’altro, negli spazi fra le dimensioni, a differenziarsi fra loro per minimi dettagli.
Lunedì recupera quindi, rispetto alla cifra complessiva della serie, la dimensione più fedelmente fantascientifica dell’inatteso, dell’inusuale, dello straniante, anche se non risolve l’interrogativo che pone. Non può che lasciare nel vago qualsiasi risposta. È in questo che rimanda a The Twilight Zone, e che apre a un’altra serie, Fringe, nata dalla instancabile inventiva di J. J. Abrams, Alex Kurtzman e Roberto Orci, prodotta dalla Warner e Bad Robots e distribuita in tv sempre dalla Fox.
Fringe, in italiano “frangia”, indica un confine, un bordo, un margine, l’impercettibile iato fra il certo e l’improbabile, la materia stessa del perturbante. E “Fringe” è nella serie il nome di una divisione del Fbi di Boston, una rivisitazione dei Mib del complottismo ufologico, chiamata a indagare sui fenomeni del paranormale, che vanno dal teletrasporto all’invisibilità, alle mutazioni genetiche e quanto altro, fino agli universi paralleli, con gli strumenti della fringe science, appunto. Di cui i protagonisti della serie faranno esperienza diretta, ritrovandosi addirttura ad avere rapporti con i loro “doppi” di un universo alternativo.
Ma quel che la fantascienza rende “oggettivo” (lo scardinarsi dell’ordine spazio/temporale, con i conseguenti dubbi sulla propria identità), facendone nei mondi possibili che mette in scena un possibile dato di realtà, risponde a esperienze individuali, interiori, a vari gradi vicine al delirio, su cui letteratura e cinema in varie occasioni hanno indagato.
Come avviene in Memento (2011), altra pellicola cult, di Christopher Nolan, il suo secondo lungometraggio, e quello che lo fece conoscere nel 2000 al grande pubblico. Tratto da un racconto breve del fratello Jonathan, Memento Mori (2007), pubblicato però solo l’anno dopo l’uscita del film sulla rivista Esquire, il film racconta la vicenda di Leonard Shelby, ex investigatore assicurativo che, a causa di una aggressione in casa durante la quale è stato colpito alla testa e la moglie è stata uccisa, è affetto da amnesia anterograda: non ricorda i fatti recenti. Quando si sveglia ha dimenticato tutto ciò che gli è successo prima di addormentarsi. Leonard ha due ossessioni: la prima, trovare gli assassini della moglie per ucciderli; la seconda, il suo ultimo caso da investigatore, in cui indagava su un caso simile al suo, quello di un uomo, Sammy Jankis, che pochi minuti dopo aver vissuto un qualsiasi evento, lo dimenticava.
Il film si regge su due linee narrative: nella prima, la principale, quella che narra le ricerche di Shelby, ogni scena (tranne naturalmente la prima), ha come ultima sequenza la prima sequenza della scena che la precede; in alternato, le brevi scene in cui Leonard racconta al telefono la storia della sua indagine su Jankis (montate in b/n) proseguono invece linearmente, secondo lo scorrere in avanti del tempo narrativo. L’effetto di straniamento è, almeno a una prima visione, destabilizzante e sconcertante. E immerge lo spettatore nello stesso universo caotico e scaleno in cui si trova Shelby.
Alla fine, si comprende che in realtà, non avendo memoria anterograda, una volta bloccato e ucciso il “colpevole” che ha individuato, Leonard riperderà la memoria, e ricomincerà daccapo, in una circolarità dell’ossessione perfettamente conchiusa, e destinata a ripetersi all’infinito, di cui, a differenza della Pam di Lunedì, però Leonard non ha nessuna consapevolezza.
Gli incubi che la science fiction ha proiettato fuori delle soggettività alterate della Modernità, qui ritrovano la loro dimensione originaria, quella della nevrosi e della psicosi, concetti che si precisavano proprio negli stessi anni in cui nasceva il genere: sono del 1890 The Principles of Psychology di William James, uno dei fondatori della psicologia dinamica, colui che coniò il termine “flusso di coscienza” per definire il continuo, inarrestabile dialogo con noi stessi che si svolge nella nostra coscienza.
Su un piano molto simile si articola la storia pubblicata nel 2003 da Denis Lehane, uno dei maestri del thriller con il titolo L’isola della paura (2011), da cui Martin Scorsese trae nel 2010 il film Shutter Island (2012).
Il film racconta di due agenti federali, Edward Daniels e Chuck Aule che sono stati mandati a Shutter Island, un’isola di fronte alla costa atlantica degli Usa, all’Ashecliff Hospital, un manicomio criminale, per investigare sulla scomparsa di Rachel Solando, una paziente scomparsa nel nulla pur se era rinchiusa in una stanza blindata.
Rachel è stata ricoverata dopo aver affogato e ucciso i suoi tre figli, ma nel suo delirio crede ancora di trovarsi a casa, con i figli e che le persone che le stanno intorno sono coloro che abitano e lavorano intorno alla sua casa. E così Daniels si impegna in un’indagine che non approderà a nulla, per poi scoprire alla fine che tutta la faccenda, a partire dalla sua identità e dalla sua professione, sono il frutto di una messa in scena, un tentativo estremo architettato dal suo psichiatra per fargli accettare la terribile verità: dopo aver scoperto che la sua amatissima moglie, vittima di una feroce depressione, aveva affogato i loro tre figli, Edward, il cui vero nome è Andrew Laeddis, l’aveva uccisa a revolverate, levando così qualsiasi senso alla propria vita. Andrew si trova a dover accettare questa realtà; l’alternativa sarebbe una lobotomia.
Ad Andrew sembra tornare la memoria ed egli pare accettare
quello che i medici dell’ospedale gli raccontano. Ma la
mattina dopo sembra tornare al suo delirio e il suo medico decide di
lobotomizzarlo. Ma, subito prima di andare in sala operatoria, Andrew
chiede al dottore: “Cosa sarebbe peggio? Vivere da mostro o
morire da uomo per bene?”. A noi spettatori rimane il dubbio
se davvero sia ritornato alla follia o se invece scelga la lobotomia
simulando il riemergere della psicosi per potersi definitivamente
liberare dei suoi fantasmi e del suo dolore, e, come Leonard Shelby in Memento
e Pam in Lunedì, uscire dalla
circolarità coatta di una iteratività letale. E
non ha importanza se nel caso di Pam la sua prigionia in un tempo
circolare appare oggettiva, mentre negli altri casi
è frutto del delirio: per tutti e tre i personaggi, quella
è la
realtà.
Si chiude un cerchio: il Novecento produce la fantascienza come forma
narrativa elettiva, a descrivere gli entusiasmi del progresso, che
produce l’idea dei viaggi nel tempo e degli universi
paralleli, ma anche a rielaborare i disagi che
l’accelerazione del mutamento sociale produce sulle
identità come scriveva Georg Simmel
(cfr.
www.quadernidaltritempi.eu/numero31;
Simmel, 1995), come avviene per la Pam di Lunedì,
un racconto che fra l’altro sembra ispirato direttamente a
certi incubi di Philip K. Dick .
Ma questa sensibilità non può rimanere limitata alla science fiction e invade il cinema e la letteratura di tutto il secolo e oltre, e come The X-Files colonizza e rilancia la narrativa dell’ufologia e del paranormale, e al suo interno ricicla anche la fantascienza più “pura”, così cinema e letteratura si appropriano dei temi del disordine del Sé, mettendo in scena gli effetti più radicali della perdita della sicurezza ontologica: la distruzione della solidità del nostro essere nello spazio e nel tempo.
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