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E tutto quel che vidi, mi parve ubbidire a una cifra.

Antonin Artaud


È la volontà del Nagual… sempre misteriosa!

Maggiore Grubert, alla penultima pagina



cornelius_moebiusI. Nelle fondamenta

Questo libro, centrale nell’opera di Jean Giraud (Mœbius), è come deve essere e ogni tentativo di analisi rischia di chiudere sommariamente ciò che invece è per natura, e con la massima esattezza, aperto.
Quello che vogliamo fare è semplicemente allacciare qualche filo, tentare un paio di collegamenti, attivare qualche presa prima che vi accingiate a leggerlo per la prima volta. (Perché Il Garage Ermetico si legge sempre per la prima volta, ogni volta).
Avremo bisogno di un punto fermo, un oggetto alla cui fisicità ci si possa affidare. Faremo dunque riferimento a un’edizione precisa, quella che Alessandro Editore pubblicò nel 1988 in co-produzione con gli Umanoidi Associati. Copertina rigida, dove una cornice isola il Maggiore Grubert in veste di Cacciatore Coloniale, 128 pagine in bei colori piatti su di una patinata un po’ leggera, di tanto in tanto l’alone di lievi fuori registro, che non disturbano oggi come non lo facevano allora, cura italiana di Roberto Ghiddi, traduzione dell’introduzione di Luigi Bernardi (e del fumetto?). Dunque non l’originale in bianco e nero pubblicato dal 1976 al 1980 su Métal Hurlant né le edizioni successive, nemmeno i seguiti, o meglio le diramazioni, del ciclo: per tutta la larghezza e la lunghezza di questo articolo, Il Garage è questo.
E che cos’è Il Garage? All’inizio solo un garage, una vera officina (proprietà di Jerry Cornelius) piantata nel deserto, ma diventa presto il nome con cui indichiamo per intero l’ambiente del racconto. In breve: nella costellazione del Leone c’è un asteroide, nell’asteroide il maggiore Grubert ha creato un mondo strutturato a livelli, una serie di mondi quindi, più o meno comunicanti tra loro. Intorno all’asteroide orbita la Ciguri, l’astronave dalla quale il maggiore controlla la sua creazione.
Il grande nel piccolo, così come nella filosofia del Trismegisto e nel TARDIS del Dottore. O piuttosto come nei sottotetti che troviamo nei libri di René Daumal, un altro francese sulla via dell’illuminazione, perché i mondi che il maggiore ha creato, illusori eppure esistenti, rappresentano il reale così come lo conosciamo e, soprattutto, come lo viviamo: “Mi stupivo, salendo un monticello fiorito di celluloide, che in quel sottotetto potesse essere contenuto un intero universo. L’infermiere mi  spiegò: «Qui come dappertutto, ma qui ve lo si fa notare particolarmente, lo spazio si fabbrica a seconda dei bisogni. Volete fare una passeggiata? Proiettate davanti a voi lo spazio necessario che percorrerete man mano. Così il tempo»” (Daumal, 1985). E così via.

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Quanto al maggiore, appare anche in quello che, in volume, diventerà il prologo del Garage: Major Fatal, “una storia normale” di 13 pagine, incomprensibile e perfetta. C’è, nella sua forma più compiuta, la fantascienza mistica e divertita dell’autore, e c’è il maggiore Grubert, che nel mondo di Mœbius rappresenta l’avventura, con il suo fascino venato di ridicolo, con le sue ambiguità irrisolte.
Quanto alla casa del maggiore, l’origine di tutto, notiamo che presso gli indios Tarahumara con la parola ciguri si indica sia la pianta del peyote che il dio in essa contenuto. Un uso consapevole e ritualizzato della droga è stato per lungo tempo una parte essenziale, apertamente rivendicata, del processo creativo di Mœbius. Nella quotidianità creativa si tratta della marijuana, “sostegno della percezione”, ma l’autore rileva anche la traccia, lontana ma indelebile, di una ben più devastante esperienza psichedelica messicana. Se la droga è una delle radici del Garage, e di tutta l’opera di Mœbius, è una radice piantata in Messico, dove Jean arriva per la prima volta sedicenne: luogo di formazione, iniziazione, fecondazione: “Senza il Messico, non sarei forse quello che sono”. E naturalmente è anche il Messico di Carlos Castaneda, che Giraud scopre grazie ad Alejandro Jodorowski pochi anni prima di mettere mano a questa storia.
L’universo ipertrofico del Garage, cornucopia di miti, icone e simboli sfuggenti, comincia nel deserto, quasi all’insaputa del suo stesso autore. All’inizio, dicevamo, siamo proprio all’interno di un’officina. Qui, l’ingegner Barnier – personaggio centralmente laterale (come tutti, in fondo) che ci riserverà almeno una bella sorpresa – disintegra accidentalmente un cablatore di Jerry Cornelius (colpa della doppia polarizzazione che entra in risonanza con la sonda del mirino, distrattamente lasciata innestata) e, terrorizzato, si dà alla fuga. 
Quanto a Jerry Cornelius, si tratta di un personaggio creato dallo scrittore Michael Moorcook con lo scopo di farne anarchia incarnata quintessenziale e, coerentemente, lasciato poi open source per chi volesse usarlo (sono poi, in realtà, seguite vicende legali prive di interesse e irrilevanti in questa sede). Mœbius ne prende solo il nome, la bellezza del suono, il gusto di scriverlo, e l’ombra.
Quanto al suo Garage, avrete ormai la vostra idea del perché deve essere ermetico.
Per la sua natura di luogo sigillato, presumibilmente resa necessaria dai pericolosi esperimenti che vi si praticano. Per indicare la natura criptica della vicenda che lo circonda. Perché racchiude in potenza, già compiuta dentro di sé, e quindi rivela la natura iniziatica dell’opera. E perché suona bene, in italiano come in francese.
Racconta Jean Giraud nell’introduzione al volume: “Nella mia testa, le prime due tavole erano soltanto uno scherzo grafico, una facezia, una mistificazione che non poteva, non doveva portare da nessuna parte né tanto meno avere un seguito, pur essendo il tentativo di tradurre sulla carta qualcosa di ciò che ero, che vivevo e che avevo vissuto”. Le due tavole finiscono in un cassetto dove Jean-Pierre Dionnet, compagno umanoide e allora direttore di Métal Hurlant, le ritrova, le porta con sé, ne chiede altre. Continua Giraud che tutta la storia è stata realizzata in uno stato di “sconnesso panico”, nel tentativo, sempre rimandato, di raccordare, dare ordine, risolvere i problemi aperti. E nel piacere di procrastinare, ogni volta, con un “continua”. Il maggiore Grubert, personaggio che già da qualche tempo circolava libero e indefinito tra le sue tavole, interviene a partire dalla terzultima vignetta del terzo episodio, e se, arbitrariamente, volessimo scegliere un punto in cui l’Universo Mœbius inizia a rivelarsi come un sistema a-coerente dove tutto è connesso, potrebbe essere questo. Nelle ultime quindici pagine, la storia sembra acquistare respiro e coerenza, ci arriveremo alla fine.

 

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II. All’orizzonte

Assumiamo che sia il disegno a fecondare, partorire, guidare la storia. Il piacere e la necessità del disegno: la linea chiara di Mœbius, il nitore, la sicurezza leggera, la sua altissima definizione, tanto nel particolare quanto nel più lontano orizzonte. Questo stile tanto imitato – tra i più influenti del secondo Novecento, dovunque – frustra l’analisi perché affetto da una sorta di costante, ineludibile stato di grazia. Se qualunque segno tracciato sul foglio seduce e – distratto o curato, non fa differenza – porta la sua testimonianza di verità e bellezza, con la narrazione il discorso si fa controverso.
Il fumetto ha poi preferito altre strade, se vogliamo quella indicata dal contemporaneo Ici Même (Il signore di Montetetro) di Jacques Tardi e Jean-Claude Forest – un altro capolavoro, un’altra storia – ed è stato giusto così. Ci sono cose che non sono imitabili, il tipo di esperienza, mistica e lisergica che è alla base della narrazione Mœbiusiana può generare solo caricature che sanno di falso. Ma come funziona il racconto nel Garage Ermetico
Qui la scelta delle parole diventa importante. Se diciamo frantumazione narrativa, dobbiamo intendere che la struttura viene sbriciolata e che a noi vengono proposti i resti di qualcosa che aveva la sua coerenza e l’ha vista distrutta in nome della libertà iconoclasta e di una postmoderna proliferazione di significati. Si può dubitare che sia la direzione corretta. Evaporazione sembra già un termine migliore, significa uno stato aereo del racconto, qualcosa che va disperdendosi e della quale noi possiamo aspirare, in qualche misura, i principi attivi. Ma se la via della metafora è ricca, la sua produttività è dubbia, del resto cominciò lo stesso Jean Giraud, nel momento della rivendicazione autoriale: “Possiamo immaginare una storia a forma di elefante, di campo di grano, di fiammifero acceso”. Qualunque cosa l’école du regard abbia seminato nei due decenni precedenti, ha dato i suoi frutti.
La più tentatrice delle metafore per descrivere il funzionamento del Garage è allora quella del rizoma, metafora che – se svolta come si deve, dalle ramificazioni dello zenzero a quelle di Millepiani – ci porterebbe in direzioni che eccedono la portata e lo spazio di questo articolo. Il senso però è chiaro: il Garage non ha punti d’ingresso predeterminati e uscite conseguenti, si sviluppa nella direzione imposta dalla necessità del momento (e le ragioni di tale necessità rimangono per lo più ignote), è privo di gerarchie semiotiche (anche se, a tratti, finge di averne), prospetta collegamenti e interazioni imprevedibili (illuminanti, divertenti…).

 

Possiamo affermare con sicurezza che in questo libro non esistono false piste, sono tutte vere, anche quelle lunghe una sola tavola, una sola vignetta. E che la pista scelta alla fine come principale – la battaglia per le sorti dei mondi combattuta da Grubert e Cornelius alleati – vale, tanto ontologicamente quanto epistemologicamente – la scena del passeggero che scopre di aver dimenticato il biglietto. Alla fine, Mœbius tenta semplicemente di dare ordine creando un disordine più sottile. Lo fa scegliendo il fumetto supereroico – cita Iron Man, Silver Surfer – e l’intento non è parodistico, ma una specie di sublimazione. Le scene con Cornelius e Grubert, sublimati anche nell’aspetto, che volano verso il loro destino, più che a una variazione autoriale su un immaginario consolidato assomigliano a un’estrazione di quintessenza.
Il Garage Ermetico non ha chiave. E se anche una chiave esistesse, si romperebbe nella serratura della prima porta e sarebbe inservibile per aprire la seconda. E le porte sono innumerabili. Questo significa che entrare o uscire è virtualmente impossibile, trovarcisi dentro o fuori, semplicemente, accade, ma senza un processo che si possa spiegare. Ma è se cominciamo a vedere il garage come una specie di impenetrabile cristallo che commettiamo l’ultimo fatale errore.
Nelle ultime pagine, il Maggiore Grubert attraversa la porta 9 raggiungendo quella che istintivamente identifichiamo come la nostra realtà. Abitiamo uno dei suoi mondi, un mondo in bianco e nero dove solo lui porta il colore? “Quello che doveva accadere è accaduto”. Tutto può, ancora, accadere.

 

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LETTURE

Artaud Antonin, Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano, 2009.
Forest Jean-Claude e Tardi Jacques, Il signore di Montetetro, Coconino Press, Bologna, 2003.

 


 

VISIONI

Mœbius, Il Garage Ermetico, Alessandro Editore, Bologna, 1988.

 

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