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moebiusQualcosa scattò nella mente di Jean Giraud, a un certo punto della sua vita di narratore per immagini. Ma cosa, e quando, è difficile dirlo. Jean Giraud ne era consapevole, tant’è vero che la sua autobiografia si intitola in originale Mœbius/Giraud: histoire de mon double, reso piuttosto bene dalla traduzione italiana di Ferruccio Giromini, Il mio doppio io. Proprio da questo libro, insieme vero e falso come ogni ricostruzione biografica che si rispetti, possiamo trarre una frase significativa del nostro autore: “Ti scegli tu lo pseudonimo, o è lo pseudonimo che sceglie te? Oggi, direbbe il saggio cinese, non so più se io sono Jean Giraud che sogna di essere Mœbius, o Mœbius che sogna di essere Gir”.
Che Mœbius sia davvero il “doppio” di Giraud è cosa su cui conservare un minimo di perplessità, proprio perché – come egli stesso ammette nell’inciampo semantico di quello che potrebbe essere un lapsus – in mezzo a questi due tipi ve n’è ancora un altro, una sorta di snodo, da tutti conosciuto come Gir, firma tra le più famose del fumetto francese degli anni Sessanta e Settanta, particolarmente gradita dal pubblico del periodico Pilote quando è in calce alle tavole della serie western Blueberry. Riepilogando, abbiamo Jean Giraud che cresce in un orizzonte cosmopolita negli anni tumultuosi del dopoguerra. Un bambino che coltiva da subito la passione per il disegno fino a diventare molto presto comic-maker professionista. L’incontro con lo sceneggiatore Jean-Michel Charlier è il compimento di questa prima carriera siglata Gir: lo porterà ad essere riconosciuto come uno tra i massimi esponenti della linea chiara franco-belga, quella particolare estetica mainstream del fumetto europeo che gioca sulla leggerezza dettagliata delle forme, sulla loro attitudine a contenere il colore, sul nitore di un riconoscibile principio di realtà. Anche se, quando si parla di immaginario grafico, la consistenza di ciò che siamo soliti definire “realtà” diviene subito problematica.
Ma, come si diceva, a un certo punto qualcosa scatta nella mente di Giraud/Gir (ammesso e non concesso che vi sia un’automatica identificazione tra lo pseudonimo Gir e la persona di Jean Giraud), trasformando quell’orizzonte visivo in qualcosa di diverso. Invece degli scenari western, dell’iconografia di un genere fortemente codificato (sebbene da lui interpretato con una tensione innovativa fondata su un’implementazione iperrealista del verosimile), la matita di Jean Giraud si proietta in uno spazio laterale e imprevisto, moltiplicando il piano di significazione della tavola: il nome del suo “doppio” deriva proprio da questo sfondamento del canone, poiché definiamo nastro di Mœbius quella striscia che si avvita su di sé generando una sorta di superficie dotata di un’unica faccia. Un bel paradosso, a ben vedere, nell’ambito della geometria euclidea. Jean Giraud fa qualcosa di simile quando dedica la propria immaginazione a realizzare universi fantastici e – appunto – paradossali, superando l’estetica naturalistica di Blueberry e le convenzioni del fumetto di genere western per approdare a una fase rivoluzionaria che riscrive nel profondo l’esperienza sociale dei comics.
Ha ragione Daniele Brolli nel sostenere che, distanziandosi dall’ordine convenzionale di Blueberry, Mœbius recupera le condizioni ideative ed estetiche proprie dei proto-fumettisti che, nel transito dall’Ottocento al Novecento, generavano la stessa possibilità linguistica dei comics, negoziandone l’invenzione sociale con il nascente pubblico metropolitano. Tuttavia, il ritorno alla particolare spazialità del paginone domenicale in cui si origina il linguaggio sincretico del fumetto non costituisce per Mœbius la nostalgica rivincita di una condizione trascorsa, quanto invece la ricerca programmatica di una reinvenzione del medium, necessaria per adeguarsi al mutamento globale del sistema della comunicazione.

 

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Mœbius è infatti la bandiera di un’avanguardia che ha operato nel cuore stesso dell’industria culturale, e in una fase di estrema propensione al mutamento. Occorre ritornare agli anni Settanta, quelli che seguono i fermenti culturali del decennio precedente, per cogliere la portata del contributo personale di Mœbius alle trasformazioni in atto nei processi di edificazione dell’immaginario. Per il fumetto francese (e non solo per quello), gli anni Sessanta avevano aperto il campo a un profondo dissidio generazionale con le tradizioni dei comics: le vecchie ideologie del fumetto, i suoi consueti modelli espressivi, le sue tecniche di disciplinamento comunicazionale, entravano in rotta di collisione con il generale rinnovamento delle forme estetiche in un arco temporale segnato dall’accentuarsi dei conflitti generazionali e dal transito veloce che questi aprivano ai nessi dinamici tra tecnologie e soggettività emergenti.
Jean Giraud aveva già sperimentato piccole trasgressioni negli anni precedenti, quando cominciò a firmarsi Mœbius in alcune episodiche collaborazioni alle riviste satiriche Hara Kiri e Charlie. Ma dopo l’euforia collettiva del Maggio francese, la situazione precipita in poco tempo: nel 1972, Marcel Gotlib, Nikita Mandryka e Claire Brétécher abbandonano polemicamente la tradizionalista Pilote della Dargaud e varano L’écho des Savanes, uno spazio editoriale dedicato a un umorismo corrosivo, più vicino alla sensibilità delle nuove generazioni che in quegli anni orientano i mutamenti del mercato culturale.
L’esperienza de L’écho des Savanes dimostra che esistono le condizioni per abbandonare le consuete strade del fumetto, fin lì necessariamente votate alle logiche delle comunicazioni di massa, e tracciarne di nuove. Nel 1974, così, Jean Pierre Dionnet, Bernard Farkas e Philippe Druillet varano con Giraud una rivista dedicata principalmente al fantastico e alla fantascienza. Il nome, una intuizione geniale forse al di là della stessa consapevolezza degli autori, è Métal Hurlant. In quella testata, che propone una grafica ibrida dalle forti suggestioni futuriste, convergono molte tra le figure più originali e innovative del fumetto di quel tempo, non solo francesi. Ad esempio, gli americani Vaughn Bodé e Richard Corben trovano sulle pagine di Métal quella risonanza allargata che mancava loro negli Usa. Ma l’autore di maggior carisma e vocazione sperimentale è senz’altro Mœbius, un disegnatore in cui non tutti riconoscono la ben nota maestria e l’efficace stile naturalista di Gir. Fin dalle prime tavole pubblicate su Métal, infatti, si palesa una sorta di radicale schizofrenia che separa la vita artistica delle due soggettività creative che abitano il corpo di Jean Giraud.
Supporto seriale per eccellenza, dunque in grado di contenere l’episodicità della produzione e di mediarne la relazione con il pubblico dei lettori/spettatori, il dispositivo della rivista a fumetti vive in Europa una stagione di estrema efficienza e capacità performativa. Già dieci anni prima, in Italia, Linus – rivista “del tutto nuova” diretta dapprima da Giovanni Gandini e poi da Oreste del Buono – aveva incluso il fumetto nell’ordine del sostanziale rinnovamento che investiva la cultura di massa nell’età della televisione e della crisi delle tradizionali ideologie politiche. In particolare, il fumetto comincia a palesare proprio attraverso esperienze come quella di Métal Hurlant un’intima predisposizione dei propri apparati a muoversi in direzione dell’estetica allucinatoria propria dei linguaggi elettronici. Non a caso, qualche anno dopo, il linguaggio del videoclip mutuerà (anche) dal fumetto “metallaro” la propensione a procedere per immagini rapsodiche e montate in maniera non lineare, tese più a riprendere le estetiche di fondazione dell’industria culturale che le sue tradizioni sedimentate nel corso del Novecento.

 

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Anche se della rivista fanno parte personalità come quella di Druillet, autore di una fantascienza grafica dal tono decisamente surrealista fin dai tempi della serie Lone Sloane, è soprattutto Mœbius a esplorare queste tendenze, integrando tecniche ed estetiche delle arti figurative in una concezione estremamente innovativa della grafica. Il suo approccio è definibile come “rivoluzionario” poiché votato alla riorganizzazione radicale del linguaggio dei comics. In primo luogo, Mœbius riformula l’idea di spazio della rappresentazione, alleggerendo la tavola dalle consuete griglie delle vignette, dunque allargandone le prospettive in maniera inusitata e disponendolo a ospitare immagini “aliene” ai codici di quello che sin lì è stato il grande magazzino della cultura di massa, con le sue figure iterative e le sue strategie di inclusione/esclusione tematica.
Se è vero che questa distruzione dell’ordine della tavola registra dei precedenti (ad esempio nella grande produzione della Marvel), è con l’autore francese che la riformulazione dello spazio espressivo della pagina rimanda alla necessità strutturale di rinegoziare il rapporto sinergico tra codice iconico e codice verbale. In Mœbius, in altri termini, è la stessa idea di storia ad avvolgersi in maniera imprevista su se stessa, ridefinendo la costruzione del senso nell’ordine della narrazione e recuperando la sostanziale centralità dell’immagine rispetto al potere della scrittura implicito nei dispositivi ordinativi della sceneggiatura.
In questa prospettiva, testi a fumetto come Arzak – in cui viene inventato il mondo aereo del cavaliere di pterodattili che ritornerà in tante altre immaginazioni Mœbiusiane – tendono a significare più che una sperimentazione formale, spingendosi sul terreno della produzione di senso nell’epoca dei nuovi media digitali, ancora di lì da venire per quanto concerne la disponibilità tecnologica, ma di cui si avvertono le avvisaglie culturali proprio nelle crisi e nelle fughe in avanti dei vecchi media industriali alle prese con lo spirito del tempo postmoderno. Le vedute aeree di Arzak, con la loro riduzione essenziale del ruolo della parola (che compare nell’unico balloon presente nel testo, emblematicamente posto al termine del racconto come a spiegarne l’ermetico significato – che invece ovviamente resta ermetico), più che rincorrere i detriti sensibili dell’esperienza surrealista incarnano una vocazione maggiormente aderente alle provocazioni dadaiste.

 

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Nei comics che Mœbius pubblica nella fase espansiva di Métal Hurlant possiamo infatti cogliere sempre un sostrato umoristico dal sapore dada (nel segno, nella mimica, nelle stesse situazioni drammatiche), che traduce in maniera originale l’ironia propria dell’estetica postmoderna e delle sue contaminazioni programmatiche. Si tratta di una dinamica coerente, che cogliamo soprattutto nelle tavole della serie/non-serie dedicata al personaggio del Maggiore Fatale, ovvero Il garage ermetico di Jerry Cornelius. Esperimento visionario, destinato a incidere con forza sulla cultura seriale neo e post-televisiva, questo fumetto si basa su di un ulteriore ridimensionamento della scrittura: Mœbius realizza per ogni numero una sola tavola, inserita come anello di una catena narrativa disordinata, in cui ogni puntata ha poco a che vedere con le precedenti, spiazzando il lettore con il netto rifiuto di ogni canone letterario. Di ogni possibile ordine mondano. L’unica motivazione che tende i personaggi a muoversi in un futuribile mondo fantastico è la pulsione elementare a procedere e attraversare, ricavando da questo movimento il senso della propria pratica visiva.
La messa in discussione dei manierismi delle culture seriali è evidente, e non a caso Mœbius recupera le suggestioni di un personaggio inventato nel decennio precedente da Michael Moorcock, scrittore inglese famoso per aver diretto la rivista New Worlds e avviato il processo di rinnovamento della science fiction definito new wave. Jerry Cornelius è infatti protagonista di alcune storie di Moorcock (ad esempio del romanzo Programma finale, portato sullo schermo da Val Fuest col titolo Alfa-Omega: l’inizio della fine), ma anche una sorta di avatar collettivo ripreso e liberamente riscritto da altri scrittori. Un personaggio “in cerca di autori”, dunque, che prescinde da un preciso progetto narrativo (da un destino, dunque dall’attribuzione di un significato preciso, di una morale) e si presta a essere declinato nell’ambito di una estesa ricerca di ri-significazione narrativa che, vista dalle postazioni teoriche dell’oggi, pare anticipare il processo più generale di re-mediation che ha luogo esattamente in virtù di quanto si andava delineando – sul piano dei grandi mutamenti finanziari, industriali e culturali – proprio in quella prima nevralgica metà degli anni Settanta.

 

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Il Mœbius di Métal è un innovatore che teorizza la fine del fumetto così come lo si conosce, nell’ambito più generale di una fine del mondo sociale noto e della sua Storia. La rivoluzione della rivista, insomma, non resta confinata nell’ambito di una specifica estetica mediale, ma si spinge oltre, tende a divenire corale rispetto alle istanze di trasformazione globale che investivano la società dopo il Sessantotto e intorno a quella crisi petrolifera del 1972 che crea le condizioni per la svolta postindustriale. L’incontro con il regista cileno Alejandro Jodorowsky avviene in questo clima denso di fermenti utopistici tradotti in agire artistico, riportando nei primi anni Ottanta Mœbius verso un alveo espressivo apparentemente più convenzionale, soprattutto caratterizzato da un ritorno a quella sceneggiatura prima così avversata, anche se già nel 1975 aveva disegnato The long tomorrow, uno script di Dan O’Bannon.
Mœbius avvia con Jodorowsky una feconda collaborazione, basata anche sul comune interesse per i temi delle culture magiche, che porta alla realizzazione della serie dell’Incal. Negli anni Ottanta, tuttavia, nonostante questo rinnovarsi e aprirsi dell’opera Mœbiusiana, il fermento visionario accesosi intorno alla rivista comincia a declinare, sebbene gli effetti di quel lancinante spasmo dell’immaginario non si esauriscano nella parabola della carta stampata di Métal Hurlant: già dalla fine degli anni Settanta, con la collaborazione al concept-design di Alien, straordinario film di Ridley Scott (sceneggiato da Dan O’Bannon, che ebbe ruolo nel segnalare il disegnatore francese al regista britannico), Mœbius inaugura una fortunata e forse “inevitabile” relazione con l’immaginario cinematografico, in specie di fantascienza, partecipando alla progettazione visiva di opere come Tron, Dune, Blade Runner, The Abyss, Il quinto elemento (per molti versi un film di cui è co-autore a pieno titolo) ed altre. Non smetterà mai di essere un autore di comics, soprattutto un disegnatore ma anche uno sceneggiatore, ad esempio nello splendido Ikaru scritto per Jiro Taniguchi, ma certo la sua potente e inconfondibile visionarietà attraversa e caratterizza la fine del secolo XX.
La rivoluzione di Métal Hurlant, dal canto suo, già dagli anni Ottanta si era disciolta e riattivata nelle dinamiche di riorganizzazione del sistema dei media che anticipano la svolta digitale. Ma Mœbius e gli altri autori della rivista hanno rivestito un ruolo importante nel transito verso le odierne pratiche simboliche, disegnando nuovi confini fra arti figurative e comunicazione di massa, intrattenimento e politica, linguaggi espressivi e società. In un modo o nell’altro, dentro una irrisolvibile quanto felice schizofrenia, Jean Giraud ha sognato – grazie allo sguardo stupito e stupefacente del proprio alter-ego Mœbius – la superficie tendenzialmente infinita del nostro immaginario. Condividendola con il proprio pubblico.

 

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LETTURE

Brolli Daniele, Mœbius. Cosmogonie, architetture e arabeschi, A&M, Bologna, 1992.
Giraud Jean – Mœbius, Il mio doppio io. L’autobiografia del genio dell’immaginario fantastico, Mompracem, Roma, 2012.

 

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