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gibson_neuromanteAll’inizio degli anni Ottanta la fantascienza cambia rotta e invece di dirigersi verso il futuro, svolta dritto verso quella che oggi appare chiaramente come la sua destinazione finale (e fatale): il presente. Diverse e in alcuni casi macroscopiche sono le tracce che segnano questa nuova traiettoria, a iniziare dall’epitaffio recitato da Jean Baudrillard (1980) nel 1978 che trova conferma nella pubblicazione nel 1984 di Neuromante di William Gibson (1985), il romanzo che segna l’esplosione del cyberpunk, la tendenza letteraria che farà parlare di post-science fiction, di fantascienza postmoderna e ancora altro. Pochi anni dopo, esattamente nel 1990, Thomas Pynchon pubblica Vineland (1991), un esplosivo ed esilarante omaggio alla cultura alternativa della West Coast americana, che – seppur ambientato nel 1984 (notare: l’anno di Neuromante) – rimanda nelle forme e nelle movenze proprio alla narrativa cyberpunk, quasi una legittimazione del movimento da parte del guru della letteratura postmoderna. Nel romanzo si muovono freneticamente personaggi improbabili, estremi, picareschi, attraverso i quali Pynchon si fa beffe, ancora una volta, dopo L’incanto del lotto 49 (1968) dato alle stampe nel 1966, dell’establishment americano. Anzi, proprio in questo romanzo immagina un servizio postale clandestino, il “Trystero”, che sembra anticipare per analogia la Rete digitale.

Lo si è premesso, si apre una fase nuova: la modernità occidentale diventa globalità digitale. Sta per esplodere il personal computer come medium che sostituisce, unifica, incrocia e in certo senso simula tutti i precedenti, ne fonde discorsi, linguaggi, forme. Neuromante ci parla già della società della Rete e della globalizzazione, e delle trasformazioni nelle identità, nei rapporti sociali, nell’organizzazione del lavoro e dell’economia di cui sarà innervata. Fuori dalla letteratura, però, si segnalano le prime significative mutazioni del genere. Nel cinema, Blade Runner (1982) e Tron (1983) si impossessano e impongono al grande pubblico i filoni principali del genere: il postumano e la fusione fra realtà naturale e realtà sintetica. In televisione, si sperimentano nuove forme narrative.

 

grace jonesNello spot per la Citroen CX 2 (1986), il corpo alieno di Grace Jones e l’auto (allora) super tecnologica danzavano insieme sulle note di Slave to the Rhythm, fondando in pratica un genere di racconto breve, lo spot per il settore automobilistico, che da allora si è arricchito di storie sempre più ricche di effetti speciali, di citazioni dal repertorio fantascientifico (auto e astronavi, in fondo sempre di macchine per il trasporto di umani si tratta). In linea di massima, sarà proprio lo spot pubblicitario, trasversalmente a tutte le categorie della merce, a ereditare l’anima della fantascienza, il suo elogio del gadget, della meraviglia prima del benessere che la tecnologia ci dona, mentre il cinema ne eleverà la tradizione a pura vertigine formale. Il video, ricordiamolo, chiudeva con un omaggio a Zardoz, un film di fantascienza del 1974 di John Boorman, con Sean Connery. A latere di questo discorso, occorre ricordare un altro evento che riformula e fonde gli immaginari della musica pop e del cinema, Thriller, vero e proprio episodio dell’horror un po’ splatter, con protagonista un altro corpo alieno, quello di Michael Jackson. 

Nel complesso, il sistema costituito da industria culturale e cultura di massa si trasforma nel luogo in cui linguaggi, temi, apparati e media si rimescolano e si ibridano, si trasformano e si contaminano, e in cui le distinzioni e le gerarchie “moderne” si fanno labili, indistinte, fungibili – superflue. È questo forse il vero senso della postmodernità (Jameson, 2007).

Sicuramente in questo processo la science fiction gioca un ruolo più o meno consapevole: perché nelle sue propaggini più consapevoli lo ha anticipato nella sostanza se non nella forma, perché pratica l’immaginario postmoderno come se ne fosse la cronaca, e non la previsione. Rimanendo comunque un calco ancora fertile per coloro che, senza porsi tante domande sull’ambito in cui collocare i propri romanzi, scrivono – anche – fantascienza. Come Stephen King che, evadendo dal suo ambito consueto, in questi anni Duemila scrive almeno due grandi romanzi di fantascienza: La cupola (2007) e 22/11/’63 (2011). O come James Cameron che nel 2009 con Avatar (2010) rilancia la posta del futuro del cinema sposato al digitale mostrando ancora una volta la potenza aggregatrice di tutti gli immaginari della modernità che la science fiction continua ad avere, costruendo una straordinaria parabola in cui si dispiegano il western, l’esotico, il fantascientifico, il melodramma e il cinema bellico, attraverso citazioni che vanno da Un uomo chiamato cavallo ad Apocalypse Now.

 

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Quindi, più che di una morte della fantascienza, potremmo parlare di una sua apocalisse: una rigenerazione grazie alla quale la science fiction, sicuramente meglio e più lucidamente di altre aree della cultura, prende atto, si inserisce e descrive i processi in corso. Come nel caso di qualche scrittore più direttamente riconducibile alla corrente postmodern come George Saunders, che nel 1996 pubblica Il declino delle guerre civili americane (2005), parabola distopica e straniata di un tempo appena oltre il nostro, in cui tutti i valori del sogno americano sono crollati, rivelandone il volto più feroce e distorto, in un universo da dopobomba degradato, primitivo, crudele, egoista.

Così la fantascienza del secolo precedente diventa per certi versi storia del presente futuro, del futuro prevedibile, conservando nelle sue articolazioni più lucide la tensione a immaginare cosa ci aspetta dietro l’angolo del futuro più prossimo. Attraverso il cyberpunk, sicuramente, ma anche grazie alla “riscoperta” di Philip Dick (innescata proprio da Blade Runner, che si aggiunge a film come 2001 Odissea nello spazio e Star Wars nel sancire l’unione fra il grande cinema e il genere) e quella di un autore come James G. Ballard, di cui all’inizio degli anni Novanta l’editore Rizzoli ristampa in Italia i suoi due romanzi più estremi, Crash  del 1973 (1990), e La mostra delle atrocità del 1969 (1991) “aggiornato” dallo stesso scrittore nel 1990.

 

Ma, attenzione: proprio nel suo farsi cronaca del futuro-presente il genere, a partire dagli anni Novanta, si mescola e confonde con gli altri, nelle nuove articolazioni che la mappa della produzione di narrazioni compone e descrive. Le dinamiche dell’immaginario si fanno post-seriali, cross-seriali www.quadernidaltritempi.eu/numero20).

I generi, i canali, i media, i pubblici si mescolano – e, grazie all’interattività in Rete – finiscono per scambiarsi e fondersi anche le figure degli autori e dei fruitori. Si pensi ai fenomeni innescati dal serial Lost (www.quadernidaltritempi.eu numero6, numero4, numero28) e al chiudersi del cerchio del “finish del consumatore” che si compie con la sua partecipazione alla produzione dell’universo immaginario dei serial Tv con la nascita di siti “apocrifi”, la pratica di scaricare, sottotitolare e mettere in Rete le puntate di questi. Prassi di fatto descritta da William Gibson in L’accademia dei sogni (2004). Senza dimenticare il notevole prelievo di materiali narrativi di Lost dal serbatoio della classica science fiction, a iniziare dalla reinvenzione di quello che è il più ambizioso progetto letterario della fantascienza moderna, ovvero il Riverworld, il ciclo del fiume di Philip José Farmer. Si perdoni il José accentato, ma più avanti se ne darà ragione al lettore.

Ben prima di Lost, però, un altro lavoro pensato per la televisione incide nel profondo l’immaginario dell’epoca. A cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta il regista David Lynch presenta una serie televisiva rivoluzionaria: I segreti di Twin Peaks, perfetto e inquietante repertorio di tutti i luoghi dell’immaginario seriale. Dal thriller, al gotico, al sentimentale, all’erotico, al poliziesco, al fantascientifico, tutte le articolazioni della narrativa di massa vi sono presenti, riarticolate dalla maestria del regista americano.

 

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La logica della serialità televisiva ne viene frantumata e ricomposta completamente. Un regista di culto, un serial tv: Twin Peaks è la spia di una “nuova alleanza” fra i vari media, connessa ai nuovi esiti dei processi di rimediazione (Bolter, Grusin, 2002). Che coinvolgono anche il libro a stampa. Era appena successo: dal romanzo di Dick (Do Androids Dream of Electric Sheep [Il cacciatore di androidi, 1986; Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, 2007]) al film di Ridley Scott (Blade Runner) alla ristampa del romanzo con il titolo del film (2004).

È l’intero mediorama che muta in profondità. In Italia, dopo l’esplosione delle “radio libere”, fra la metà e la fine degli anni Settanta, si liberalizzano le frequenze televisive. Le emittenti si moltiplicano, per poi ridursi e dare spazio ad una nuova concentrazione, da cui emergono due poli: il servizio pubblico “storico” e una concentrazione commerciale.

Di seguito, arriveranno la nascita e l’affermazione della Tv digitale, satellitare e via cavo, gestite dagli stessi network. Attraverso queste verranno diffuse serie come CSI, dove le tecnologie della fantascienza sono già diventate l’attualità di quelle usate dalla polizia scientifica (www.quadernidaltritempi.eu/numero4) e due produzioni che marcheranno gli ultimi sette-otto anni: Lost soprattutto e Flashforward, direttamente ed esplicitamente fantascientifici. 

Il processo di globalizzazione dell’offerta di merce estetica si compie: non ha più senso ragionare in termini di produzione e consumo culturali nazionali. Il discorso non vale solo per le merci culturali in senso stretto: tutte le merci – oltre ad assumere una forte dimensione estetica – si globalizzano, sotto il segno della tecnologia.

 

La fantasmagoria della merce di cui scriveva Jean Baudrillard si compie grazie alle tecnologie digitali e alla parallela centralità che assume il consumo nei confronti della produzione e l’immaginario consumistico condivide con la fantascienza gli stessi sogni e i medesimi incubi. Il consumo di fatto ha un’anima tecnologica. Infatti, a questi cambiamenti profondi sul piano della produzione e della fruizione delle merci culturali da un lato e della parallela modificazione della composizione chimica dell’immaginario collettivo, sempre più segmentato in universi tendenzialmente su misura, corrispondono diverse rivoluzioni tecnologiche che invadono la vita quotidiana, che la circondano a monte e a valle; tecnologie con cui si interagisce non sempre direttamente, ma che presiedono ogni atto del consumo, di qualsiasi tipo di merce. Semplificando si possono individuare quattro eventi determinanti nella costruzione del presente in cui siamo immersi.

La prima rivoluzione si chiama RFID (Radio Frequency Identification), una tecnologia di origine militare che ha trovato una prima applicazione nella vita civile con l’invenzione del Telepass autostradale. L’applicazione di un tag può aprire prospettive di interazione uomo-macchina e di identificazione praticamente illimitate: dalla possibilità di fare il checkout al supermercato senza estrarre i prodotti dal carrello alla gestione degli ingressi e dei dispositivi di una casa. C’è chi si è fatto impiantare un chip sottopelle per non portarsi appresso le chiavi di casa. Ma non solo, è possibile anche l’interazione machine-to-machine, nella logica di quella rete chiamata “Internet delle Cose” che può vedere interconnessi tra loro miliardi di dispositivi in tutto il mondo.

Altrettanto incisivi sulla vita di tutti noi sono i dispositivi mobili.

La rivoluzione portata dal telefono cellulare molti anni fa sta, in realtà, partendo soltanto adesso con la trasformazione del telefonino in una sorta di “telecomando della vita personale” grazie alle app, per non parlare di bluetooth e NFC già presenti da tempo. La cosa paradossale è che la funzione primaria del cellulare, cioè quella di telefonare, è ormai diventata un aspetto accessorio. La spinta decisiva alla trasformazione dello smartphone in una sorta di lampada di Aladino è data dallo sviluppo dei codici QR code, presenti ormai ovunque che permettono di aprire in tempo reale finestre su altri mondi e di pagare il caffè al bar oltre che la spesa al supermercato.

 

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Terzo passaggio decisivo è la cosiddetta realtà virtuale aumentata. Come funziona? Chi non ricorda i libri pop-up di quando era bambino, quelli che quando li aprivi si materializzava davanti ai tuoi occhi un castello, emergendo come dal nulla. La realtà aumentata ha preso ispirazione da questa tecnica “fisica” per sovrapporre uno scenario virtuale ad un oggetto o dispositivo (cellulare o computer che sia) creando così un mix di analogico-digitale nel quale poter interagire.

Infine il riconoscimento gestuale. Anche le vetrine non sono più quelle di una volta: uno scenario teatrale con elementi immobili. L’avvento della tecnologia digitale con display e video ha contribuito a dare nuova vita a questi scenari ma la vera scossa è arrivata dalla tecnologia di riconoscimento gestuale che consente di interagire a distanza, dalla strada con l’interno ad esempio, come se si utilizzasse un normale dispositivo touch, a contatto. Così, con movenze quasi ipnotiche si possono spostare e gestire finestre informative come prefigurato una decina di anni fa nel film del 2002 tratto da un racconto di Dick, Minority Report (2006). Soluzioni che si intrecciano in un percorso evolutivo che è soltanto agli inizi. Un caso concreto, orwelliano, di recente “messa in opera” è relativo agli intrecci tra social network e marketing.

 

La marketing app in questione si chiama Facedeals e si basa sull’adesione volontaria, ma questo non la rende certo meno inquietante, meno distopica. Lanciata dall’agenzia Red Pepper si basa su foto e profili Facebook e sul riconoscimento facciale dei clienti. La telecamera di Facedeals, quando riconosce il volto del cliente all’ingresso del negozio/locale, controlla il suo profilo su Facebook e, se verifica una pertinenza, invia offerte personalizzate basate sulla sua storia Facebook, compresi i prodotti per i quali la persona ha espresso un “like”. Ecco che tutta la tradizione che dai Mercanti dello spazio di Frederick Pohl e Cyril M. Kornbluth viaggia attraverso le storie di Dick, di Robert Sheckley e di Thomas Disch, finisce in offerta speciale.

In questo quadro dove le tecnologie friendly e vocate all’intrattenimento la fanno da padrone, in Italia emergono e si affermano quattro scrittori in particolare appartenenti all’ambito della narrativa di genere e seriale, di cui almeno tre più direttamente adiacenti alla fantascienza. Si tratta di Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Alan D. Altieri, e – a latere – Andrea Camilleri.

Evangelisti ( www.quadernidaltritempi.eu/numero4/evangelisti), con il ciclo di Eymerich l’inquisitore (1994, cfr. anche www.quadernidaltritempi.eu/numero4/eymerich) costruisce un universo narrativo in cui il passato del tardo Medioevo si lega periodicamente ad un futuro più o meno vicino al nostro, tenebroso e apocalittico, attraverso catene di cause/effetti, connessioni, spirali spazio/temporali. L’inquisitore di Evangelisti è freddo, spietato, impavido – più per la sua fede monolitica che per coraggio proprio: un puro strumento nelle mani di Dio. Quasi un terminator, o un replicante. E il mondo oscuro in cui vive finisce sempre per rivelargli i suoi misteri – spesso molto più terreni di quanto i creduli abitanti del suo tempo possano immaginare. Non c’è nulla, insomma, che la fede non possa decifrare. Evangelisti non disdegna peraltro di misurarsi con altri periodi ed altri scenari: il Messico della rivoluzione, ad esempio (2005), il West (un West dissonante e distopico, 1998) gli Stati Uniti delle lotte sindacali e del racket (2003).

Dal canto suo Genna ( www.quadernidaltritempi.eu/numero12) costruisce, attorno alla figura del commissario Guido Lopez una vera e propria storia alternativa dell’Italia degli ultimi decenni, che si svolge in parallelo alla storia ufficiale, e che connette alle eventuali trame dei poteri occulti globalizzati alcuni eventi cruciali della cronaca, come la tragedia di Vermicino (2006, cfr. anche  www.quadernidaltritempi.eu/numero6).

La descrizione che offre dell’Italia degli anni Ottanta – della famigerata “Milano da bere”, ad esempio – è lucida, feroce, pregnante. E spesso, grazie alla collocazione degli eventi di alcuni suoi romanzi qualche anno avanti ai nostri, vicina ad una verità più credibile di quella giudiziaria o giornalistica (http://etc.dal.ca/belphegor/vol10).

 

Forse il più estremo di questo gruppo di scrittori è Altieri, con un passato di sceneggiatore e uomo di cinema ad Hollywood, creatore di un universo spostato appena di qualche anno nel futuro, apocalittico, disperato, putrescente, segnato dalla irriducibilità di guerre globali e di conflitti sociali endemici ed eterni – locali e  globali – popolato di eroi ed eroine disperati, feroci, disillusi, cavalieri indomabili di cause perse in partenza, ma non per questo meno determinati a combattere il Male in qualunque forma si presenti. Spesso quella forma frutto dell’alleanza fra politica, finanza, criminalità comune.  Il mondo che descrive (ad esempio nei romanzi ambientati a Los Angeles, 1981) è dominato da un’unica, egemonica multinazionale industriale/finanziaria, la Gottschalk-Yutani, progenie evidente della fusione fra capitali occidentali e nipponici, praticamente padrona dell’intero mercato. 

Anche Altieri si concede un passaggio nella storia. Nella sua trilogia di Magdeburg (2005, 2006, 2007), ambientata durante la Guerra dei trent’anni, la sua scrittura frenetica, sovrabbondante, spietata, è al servizio della costruzione di un melodramma storico-avventuroso feroce e disilluso che ruota attorno, ancora una volta, ad un eroe sì disincantato, ma monoliticamente determinato alla sua missione: la vendetta e la giustizia (www.quadernidaltritempi.eu/numero10).

Autori che nella distanza dalle tipicità del genere trovano lo spazio adatto per farlo risorgere inaspettatamente. È lo stesso percorso che con singolare simmetria la storia ripropone relativamente ai due prodotti culturali più tipicamente americani del Novecento: il jazz e la science fiction. Anche nel jazz, in Italia, si assiste alla uscita dal ghetto, con l’affermazione di artisti riconosciuti sul piano internazionale come Paolo Fresu e Stefano Bollani e di un circuito fatto di stampa, festival, apparizioni televisive (Bollani appare anche in alcuni spot), che rendono il tutto più sistema che in passato. Si diffondono le rubriche dedicate al jazz su riviste musicali non specializzate, nascono nuove testate su carta e online che si occupano esclusivamente di jazz, così alla testata storica e tuttora centrale nel settore, Musica Jazz, si affiancano nuove voci, esattamente come avvenuto per Urania.

 

Diverso il caso di Camilleri, che, a partire dal 1994 con La forma dell’acqua ad oggi, nell’Italia – nella Sicilia – odierne inserisce le vicende fra il thriller e il poliziesco del commissario di polizia Montalbano protagonista di una ventina di romanzi e numerosi racconti con qualche sottile e quasi sottinteso rimando occasionale alla dimensione del fantastico, facendo da portavoce al nuovo noir italiano, impegnato anch’esso a riscrivere la storia italiana degli ultimi decenni sfruttando l’immaginazione narrativa come canale per riempire i vuoti della “verità” giudiziaria e d’inchiesta sui “misteri” italiani dell’ultimo scorcio del Novecento (http://etc.dal.ca/belphegor/vol10). Questi autori sembrano aver realizzato le speranze e le aspettative – le rivendicazioni – dei primi, pionieristici operatori e appassionati della fantascienza italiana: hanno raggiunto una dimensione internazionale, perché i loro lavori sono tradotti e pubblicati anche all’estero; sono riusciti a praticare la narrativa di anticipazione adattandola al contesto nazionale, ma inserendosi nei calchi della serialità internazionale, assorbendone “sceneggiature”, dialoghi, caratteri; sono riusciti ad “emanciparsi” dai confini delle case editrici “di genere” per accedere alla grande editoria. Ultimo esempio, ma non meno significativo, il gruppo situazionista del collettivo Luther Blissett, che prima si dà il nome di un (mediocre) centravanti del Milan, e con questo pubblica Q, il primo dei suoi romanzi (1999) poi si ribattezza Wu Ming, scorrazzando con i suoi romanzi avanti e indietro nel tempo e nello spazio.

 

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Pure, di tutto ciò che gli avviene intorno e addosso pare che il mondo dei “militanti” della science fiction in Italia non si accorga. Pur praticando la Rete, non ne legge le implicazioni, pur potendone scorgere le propaggini non ne trae le conseguenze.

La fantascienza, prodotto del fordismo e della metropoli, ha prefigurato – con più o meno esattezza – il dopo che attendeva la modernità. Spesso non ne ha indovinato le forme, ma la sostanza sì: i suoi riflessi sulle identità, i suoi effetti sulle relazioni umane, i suoi esiti sulla percezione dello stesso tessuto spazio-temporale.

Usando come leva il bisogno di futuro e l’entusiasmo per il progresso, la science fiction ha cantato i miti della scienza e della tecnologia, gratificando generazioni di lettori del Novecento. Poi – entrata nell’era postfordista (Harvey, 2002) – si è sciolta e fusa con la realtà, che per molti versi l’ha addirittura superata. Ai disincantati aedi degli anni Novanta come Joe Landsdale è toccato poi di manipolare disinvoltamente tutti i materiali ereditati. Lansdale in La notte del drive-in (Urania, 1993, n. 1214) impasta e pasticcia con i generi e le forme, scatenando una fantascienza orrorifica con le movenze di un cartoon della Metro-Goldwyn-Mayer, e con i due seguiti alzerà ancora di più il tiro. Postmodernismo eseguito alla lettera.

 

charles stross accellerandoÈ per tale motivo che la corrente più sincera e originale della science fiction degli ultimi anni si dimostra essere quella del “postumanesimo”. È una fantascienza che cerca di prefigurare la prossima evoluzione dell’essere umano in quanto ibrido uomo/macchina, assecondando le promesse dello sviluppo tecnologico e prendendo le mosse proprio dalle previsioni sul futuro prossimo elaborate da scienziati e addetti ai lavori. Non è un caso se tale corrente nasca con Universo incostante, pubblicato nel 1992, di Vernor Vinge (2007), professore universitario di matematica, esperto di intelligenza artificiale e primo a coniare il concetto di “singolarità tecnologica”, il momento futuro in cui l’umanità entrerà in una nuova fase evolutiva in seguito alla fusione completa con la cibernetica. Il principale vate della fantascienza postumana è oggi Charles Stross che nel 2005, con Accelerando (2007), ha voluto fornirle un vero e proprio manifesto.

In Italia alcuni scrittori hanno saputo cogliere fin da subito la vena rivoluzionaria di questo fenomeno che, più che corrente letteraria, è alla stregua del cyberpunk una sorta di filosofia di vita e sistema ermeneutico. La fondazione del movimento connettivista nel 2004 ha portato all’affermazione nel panorama fantascientifico nostrano di autori quali Sandro Battisti (Diamante di carne, 2007) e Giovanni De Matteo (Sezione Pi-Quadro, 2007) e di un vero e proprio cenobio riunito intorno alla rivista NeXT, “bollettino trimestrale di cultura connettivista”, che ha importato in Italia alcune delle opere brevi più importanti della fantascienza postumana d’oltralpe.

E tuttavia forse l’opera più interessante di questa corrente non ha nulla a che fare con la narrativa di fantascienza: La singolarità è vicina (pubblicato nel 2005 e in italiano nel 2008) di Ray Kurzweil, vero guru del postumanesimo, fondatore negli Usa della Singularity University che ha ottenuto ingenti finanziamenti da parte delle principali aziende della Silicon Valley (Google e Apple incluse), racconta nel dettaglio il mondo del 2045, l’anno della singolarità secondo Kurzweil, e si propone come nuova grande narrazione del mondo in un’epoca in cui il postmodernismo si era illuso di aver sepolto ogni possibile metanarrazione. 

Un altro filone al confine tra scienza e fiction è quello incarnato dal saggio Il mondo senza di noi di Alan Weisman (2008).

“Lo spunto è avvincente: come e in quanto tempo il nostro pianeta tornerà a rifiorire dopo la scomparsa della razza umana. Ovvero, immaginiamo che per un qualsiasi motivo noi terrestri ci dovessimo fare da parte, che succederebbe? Si capisce che messa così, gli scenari a disposizione sono numerosi, fantastici, avvincenti, apocalittici […]. Siamo nell’interregno tra la fiction e il saggio scientifico […]. Di scoperte se ne fanno molte, procedendo nella lettura, tutte avvincenti, come, ad esempio, le pagine dove si prendono in esame due simulazioni reali, ovvero Varosha, località turistica sulla costa orientale di Cipro e la Dmz, una striscia di terra lunga 246 km e larga 4 che divide la penisola coreana in due. Zone dove gli umani divisi in due fazioni non risiedono più e la natura si è rimboccata le maniche” (www.quadernidaltritempi.eu/numero14).

Qui siamo oltre James Ballard, oltre la fantascienza catastrofista, oltre la semplice fantascienza e il libro è stato un best seller.

La scienza, la tecnologia, la futurologia tornano a dettare il ritmo della fantascienza, se non finiscono addirittura per prenderne il posto. Strappando forse ai sedicenti araldi del futuro, i circoli di appassionati e di “operatori del settore”, il privilegio discutibile di essere i custodi e i celebranti della “verità” fantascientifica. Pure, costoro usano il Web, il territorio del poi, e lì dibattono dei temi cruciali dell’ambito fantascientifico.

Come Silvio Sosio, che approfittando della ristampa curata da Fanucci dell’intero Ciclo del fiume di Philip José Farmer, cui si è accennato prima, stigmatizza la licenza che si sono sempre presi gli editori – anglosassoni e italiani – di aggiungere alla e di Jose nel nome dell’autore un accento, quello di Josè, che pare all’anagrafe non risulti (cfr http://www.fantascienza.com/magazine/notizie/16748/da-fanucci-il-ciclo-del-fiume-in-tascabile/), questione filologica ed euristica evidentemente non più procrastinabile dal punto di vista dell’analisi dell’opera dello scrittore americano.

Questa necessità di dedicarsi a tali minuzie forse deriva da un vizio di fondo: il non riuscire a liberarsi di un’idea della narrativa di science fiction che la congela nel suo passato – glorioso senz’altro – di cui essa stessa ha previsto, almeno metaforicamente, il superamento. Basta pensare alla narrativa di Philip Dick e di James Ballard.

Il che conduce questi operatori a idealizzare e santificare questo stesso passato – comprese le polemiche e le battaglie che lo hanno caratterizzato – replicando così l’atteggiamento delle istituzioni culturali degli anni Sessanta-Settanta, arroccate nella difesa della classicità che i loro predecessori criticavano, tanto da spingere Carmine Treanni sul portale fantascienza.com a rivangare, seppure con la consueta genuina passione, una questione ormai anacronistica: le scelte editoriali di Urania ai tempi della coppia Fruttero&Lucentini, che attraverso questa rivista hanno permesso la reale diffusione di massa del genere in Italia.

 

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Il vero “peccato originale” del mondo italiano della science fiction – se vogliamo rimanere nella sfera delle parafrasi religiose – è stato quello degli operatori italiani delle origini, tesi a promuovere una narrativa ampiamente fuori standard – quella italiana di allora – e a pretendere la cooptazione dell’intero genere in un ambito che non era il suo – il mainstream.

E così, come in un brutto romanzo di science fiction, vediamo andare in scena un gruppo di sacerdoti attaccati al passato – scongelati periodicamente da un’ibernazione durata mezzo secolo – rilanciare un integralismo militante che guarda indietro, ad un’Età dell’oro mitica, ipostatizzata, e che celebrano ossimoricamente i riti di una dottrina che dice di guardare al futuro, incapaci di vedere che questo si è realizzato e li ospita nelle sue pieghe, forse, nonostante le dichiarazioni contrarie, sotterraneamente nostalgici della hardware science fiction delle battaglie galattiche e dei viaggi interstellari. Un fatto che ricorda la percezione e la gestione del tempo nelle società premoderne, bloccate nel ricorso al passato e alla ripetizione dei cicli naturali, ferme in uno spazio-tempo ciclico, destinato continuamente a tornare su se stesso.

Una copia sbiadita e difforme dell’Alba delle tenebre di Fritz Leiber, grande parabola fantascientifica dell’ottusità dei custodi del sapere ufficiale, e di tante distopie postatomiche descritte proprio dalla science fiction.

Un brutto romanzo che trova anche un recensore imprevedibile in Christian Raimo, che sulle autorevoli pagine dell’inserto Domenica de Il Sole 24Ore del 5 agosto di quest’anno, riprendendo proprio l’intervento su fantascienza.com che citavamo ripropone una questione, quella di una fantascienza ambientata in Italia, la stessa liquidata con l’epiteto di pavesismo da Franco Giambalvo – uno dei “militanti” del settore – nel 1978 (si veda Orbite italiane 1 in questo numero) a proposito della velleità di certi scrittori di fare fantascienza all’italiana.

Raimo parte – apparentemente – da lontano: dalla scarsa presenza di titoli di fantascienza sugli scaffali delle librerie italiane, occupati perlopiù da narrativa fantasy, horror, thriller e via dicendo, per poi articolare la rivendicazione di un maggior spazio per gli autori italiani. Sembra la replica delle recriminazioni di alcuni decenni fa, anche queste scongelate – senza che il surgelamento le abbia preservate dall’odore di vecchio, sfatto, guasto. Senza chiedersi assolutamente – sul quotidiano della Confindustria! – se in questo fenomeno così bizzarro c’entrino il mercato, il gusto e i bisogni dei consumatori (i lettori), e – ma pretendere questo forse sarebbe troppo – se per caso il successo della narrativa dell’inquietante e del macabro non sia legata ad un riaffiorare del bisogno di sacro, della spinta a un reincanto del mondo provocata dalle incertezze e dal disorientamento di un soggetto, quello del tardo moderno, avvolto in una crisi endemica, forse senza fine (Abruzzese, 2011), laddove proprio le illusioni nate dalle promesse prometeiche della modernità si sono rivelate miseramente fallaci. 

Eppure, anche senza scrutare fino in fondo il versante teorico della cosa, basterebbe andare in edicola per capire dov’è evaporata la fantascienza, acquistando una copia di Wired, magari quella di agosto di quest’anno. Un numero speciale dedicato alle app, che il direttore Carlo Antonelli in piena estasi tecnognostica annuncia così nel suo editoriale: “Le app sono ovunque, dentro e fuori, sopra e sotto, in terra e in cielo. Piccoli invisibili dati partono da noi e si intrecciano sempre di più con un’enorme quantità di dati di informazioni, generando soluzioni, possibilità, analisi, idee. Big Data (evidenziato in colore, ndr) appunto, e c’è poco da stupirsi che non si parli d’altro in questi mesi. Così come la conversazione tra amici è totalmente monopolizzata, ormai, dall’osservazione reciproca dei propri smartphone e tablet (anche questi evidenziati in colore, ndr). Bambini inclusi, altroché. L’uomo si amplifica, si modifica, si potenzia. Diventa un insieme di carne e algoritmi, applicati gli uni agli altri. È una prospettiva fantastica”. Ecco, un cerchio si chiude, laddove le prime storie di fantascienza uscivano in appendice alle pubblicazioni tecnico-scientifiche, anche le ultime, sotto forma di cronache del presente, vengono ospitate in riviste dedicate alle meraviglie della scienza e della tecnica. Sulle pagine di Wired (che non staremo qui a presentare) sia quelle della gloriosa testata madre ormai prossima ai vent’anni di vita, sia nell’edizione italiana, si alternano inventori, visionari e guru del web, artefici della rivoluzione operata dai social network, astronauti, scienziati. Il primo numero dell’edizione italiana aveva una foto di Rita Levi Montalcini in copertina e il titolo recitava: ItAliens. Se poi questa sia buona fantascienza, è un altro discorso, ma ne riparleremo in occasione… del centenario di Urania.

 


 

LETTURE

Abruzzese Alberto, Il crepuscolo dei barbari, Bevivino, Milano, 2011.
Altieri Alan D., Città oscura, Dall’Oglio, Milano, 1981.
Altieri Alan D., Magdeburg. L’eretico, Corbaccio, Milano, 2005.
Altieri Alan D., Magdeburg. La furia, Corbaccio, Milano, 2006.
Altieri Alan D., Magdeburg. Il demone, Corbaccio, Milano, 2007.
Ballard James G., Crash, Rizzoli, Milano, 1990.
Ballard James G., La mostra delle atrocità, Rizzoli, Milano, 1991.
Baudrillard Jean, Simulacri e fantascienza, in Russo Luigi (a cura di), La fantascienza e la critica, Feltrinelli, Milano, 1980.
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