A rigor di termini la fantascienza non è un genere narrativo. Si tratta piuttosto di un ampio insieme di dispositivi testuali che instaurano un particolare tipo di collaborazione narrativa fra autore e lettore. È costituita infatti da un insieme di moduli e strategie narrative produttrici di testi che presuppongono un avanzato sviluppo tecnologico, un immaginario avventuroso articolato intorno ai temi della ricerca scientifica, dell’evoluzione tecnologica, del progresso, una organizzazione del complesso produzione/distribuzione/consumo culturale già industriale, seriale, di massa (Fattori, a cura di, 1980). Di presenza, diffusione, consapevolezza dell’esistenza della science fiction – ribattezzata fantascienza – in Italia si può parlare solo a partire dal secondo dopoguerra, con l’arrivo dei militari americani, poi del rock’n’ roll, del cinema di Hollywood, di una serie televisiva mitica: Ai confini della realtà. Prima di allora non c’era stata assolutamente coscienza del “genere” come tale: agli inizi del Novecento Emilio Salgari aveva scritto un romanzo avveniristico sulla scorta delle opere di Jules Verne, Le meraviglie del Duemila (1996; cfr. anche www.quadernidaltritempi.eu/numero31), e durante il fascismo era apparso qualche fumetto autarchico come Saturno contro la Terra, senza dimenticare, naturalmente, le traduzioni delle opere di Verne e Herbert G. Wells, e i fumetti americani – con i nomi dei personaggi tradotti in italiano.
E in ogni caso, il discorso sull’altro polo della dinamica del mercato culturale, il pubblico, è affrontato dai responsabili dei due settori interessati in termini del tutto tradizionali: i fumetti sono destinati ad un pubblico di adolescenti, e la letteratura pure, anche se in questo secondo caso occhieggia una maggiore aura di cultura (cosa che d’altra parte né Verne né Wells avrebbero disdegnato).
A ben vedere, dato anche l’alto tasso di analfabetismo, che perdurerà almeno fino agli inizi degli anni Sessanta, in Italia manca un pubblico di massa di lettori, e quel poco che esiste è diviso fra la lettura dei Gialli Mondadori e i romanzi di Carolina Invernizio e Liala.
Le varie agenzie preposte alla produzione di cultura – dalla scuola all’ente radiofonico – si muovono ancora secondo modelli tradizionali: l’immaginario italiano è ancora determinato dalla lettura di Alessandro Manzoni, la favolistica tradizionale, il ricordo della rivendicazione di un “posto al sole”, l’Illustrazione italiana, le Signorine Grandi Firme.
Non esiste, insomma, industria culturale in senso contemporaneo. Il rapporto fra “lavoro astratto” e “lavoro concreto” nel campo della cultura, sul versante del lavoro critico come su quello del lavoro creativo è ancora tutto spostato a favore dell’artigianato e del genio individuale (qualsiasi cosa significhi), nell’ambito di strutture ancora sostanzialmente precapitalistiche.
Perché la science fiction arrivi in Italia, quindi, in quanto apparato complessivo, bisognerà attendere il boom economico. Sarà solo allora che con lo sbarco nordamericano in Italia e l’avvio dei processi che porteranno a quella che oggi chiamiamo globalizzazione, comincerà a circolare una nuova sensibilità, che si radicherà poi negli anni successivi.
La ricostruzione e lo sviluppo industriale, con la diffusione delle ideologie tecnicistiche e la celebrazione del progresso scientifico che promuovono, a cui si aggiungono il ritorno del cinema americano e del suo immaginario, poi la corsa spaziale, portano con sé i temi tipici della fantascienza, che cominciano così a circolare nel Paese. I canali privilegiati di questa prima disseminazione saranno due, cioè le prime collane periodiche attivate da case editrici di varie dimensioni già attive sul mercato (Mondadori, Garzanti, Ponzoni) e le riviste amatoriali unicamente animate da entusiasti e appassionati operatori. Costoro, oltre a cercare di diffondere il genere nel Paese, tentano di promuovere anche lo sviluppo di una fantascienza indigena, in opposizione alle linee dominanti nelle case editrici più forti e anche, si deve ricordare, in ampi settori di pubblico (che non disdegna di confondere e mescolare fantascienza, ufologia, clipeologia, parapsicologia…).
Nel complesso la situazione è molto caotica, dal punto di vista delle modalità produttive come da quello delle prospettive di sviluppo. Riviste nascono e muoiono, progetti si accavallano, ma alla fine le costanti rimangono due: da una parte i fascicoli periodici di Urania della Mondadori; dall’altra la costellazione di operatori che lavorano fuori del giro industriale, galassia sempre ribollente e battagliera. È interessante notare che – come era successo negli Usa per la rivista Modern Electrics di Hugo Gernsback (cfr. Fattori, 2001) – la prima rivista italiana a pubblicare fantascienza sarà Ali, mensile di temi aereonautici, seguita poi da Oltre il Cielo, che lascerà parecchio spazio ad argomenti tecnici, a conferma dell’intreccio fra il sorgere e il risorgere dell’interesse verso la divulgazione tecnologico-scientifica e la narrativa di science fiction.
Ad ogni modo l’intera prima fase della presenza della fantascienza in Italia, che va dalle origini (dalla nascita della prima rivista dedicata, Scienza Fantastica, nell’aprile 1952, e di Urania, che inizia le pubblicazioni il 10 ottobre dello stesso anno con Le sabbie di Marte di Arthur C. Clarke) alla seconda metà degli anni Sessanta (I romanzi del cosmo della Ponzoni, 1957-1967) è definita dal dominio quasi assoluto di un immaginario costruito sul modello americano, con tutto il suo armamentario tematico e formale, fatto di viaggi nel tempo, universi paralleli, viaggi spaziali, invasioni aliene (si veda in questo numero Arriva la bomba).
Centrale è l’esperienza di Oltre il Cielo, che fa da trait d’union e amalgama di culture e immaginari locali, e dirige l’affermazione del mito (fanta)scientifico attraverso la pubblicazione congiunta di narrativa e pubblicistica tecnologico-scientifica. In questa fase ha molto rilievo la presunta capacità anticipatoria della “nuova” narrativa.
I dati dell’epoca testimoniano la funzionalità del tutto strumentale della produzione autoctona e la soggezione sostanziale al calco statunitense. Da un lato, la metà dei romanzi pubblicati dalla rivista I romanzi del cosmo della Ponzoni è scritta da italiani che firmano con pseudonimi stranieri, come attestazione di un marchio di garanzia (posticcio) applicato ad un prodotto ispirato ad un copyright estero. Si tratta di opere di scarsa qualità tematica e formale, espressioni della serialità space-operistica e dei suoi luoghi, da cui emerge l’inseguimento inesausto e fallimentare ai modelli di riferimento d’oltreoceano. Dall’altro lato, per il racconto breve e la poesia (sì, la poesia) viene confezionato un angolino dedicato – improduttivo – e non remunerato, che gli autori italiani stigmatizzeranno come ghetto, riservato a quegli aspiranti scrittori che ambiscono a vedere il proprio nome stampato sulle riviste esercitandosi in un contesto di dilettantismo mascherato da apprendistato, sterile e soffocato. Pensiamo in particolare a due rubriche aperte sulle riviste maggiori: Il marziano in cattedra di Urania e Accademia di Galassia, contentini offerti ai lettori perché gratifichino le proprie velleità autoriali rimanendo sostanzialmente dei consumatori. Una strategia di fidelizzazione, diremmo oggi, che svela subito il suo progetto di fondo grazie al lapsus da cui nasce il nome delle due rubriche: il riferimento al sapere istituzionale – l’accademia, la cattedra – fra velleità di magistero e ricerca di riconoscimenti ufficiali.
Così, mentre Urania persevera nella pubblicazione di materiali americani di hardware science fiction, e traccia la strada che rimarrà dominante nei gusti del pubblico, poche sono nel quindicennio che va dal 1952 al 1967 le esperienze dotate di una, seppur relativa, originalità e autonomia discorsiva che riescano a prendere in egual misura le distanze dal modello americano duro (e difficile da imitare in termini di resa qualitativa) di Urania e Cosmo e dalla scuola – vera classe “differenziale”, se vogliamo rispettare la metafora – delle varie “accademie”, funzionali per gli editori solo a blandire il pubblico e a riempire a basso costo le ultime pagine dei fascicoli.
Possiamo in questo senso usare come esempi tre casi, che riteniamo abbastanza rappresentativi delle dinamiche in corso all’epoca.
Il primo caso è costituito da uno scrittore, Luigi Rapuzzi, meglio conosciuto come L.R. Johannis e N.H. Laurentix, autore di numerosi romanzi per Urania nel periodo 1954-1956 e direttore, per un certo periodo, dei Romanzi del cosmo. Rapuzzi fonde i temi classici della space opera e dei viaggi nel tempo con i miti biblici delle origini della civiltà umana, anticipando in Italia quel filone dell’industria culturale che verrà poi sfruttato in ben altro modo e ambito pubblicistico – diventando archeologia spaziale o fantaarcheologia – dal giornalista Pier Domenico Colosimo, meglio conosciuto come Peter Kolosimo, autore anche lui, ma più marginale ancora, di romanzi di fantascienza sotto un ulteriore pseudonimo, Jim Omega.
Rapuzzi si distacca dalla nutrita schiera dei suoi colleghi non perché abbia intrapreso una strada originale rispetto alla tradizione americana – si pensi a Howard Phillips Lovecraft, Clark Ashton Smith, Donald Wandrei e agli altri maestri dell’orrore soprannaturale, peraltro all’epoca del tutto inediti in Italia – ma perché unica voce in parte diversa nel panorama space-operistico dominante. Il migliore esempio della sua narrativa è il romanzo Quando ero aborigeno (1955), in cui è presente, oltre alla tematica fanta-archeologica, il tipico bagaglio di filosofia esistenziale spicciola su base universale e cosmica a proposito della nascita e del declino dell’umanità, tipica di una science fiction misticamente pessimista e apocalittica – quasi un riflesso delle spinte che poi, meno di un decennio dopo, porteranno al fiorire delle promesse di quella che a partire dagli anni Settanta si chiamerà New Age.
La qualità della sua scrittura – condizionata dalla necessità di misurarsi con temi impegnati – è superiore a quella dei suoi affini. Si tratta però di una qualità tutta interna ai temi trattati, semplicemente performativa.
La seconda esperienza degna di nota del periodo che arriva al 1967 è quella della rivista Futuro, estremamente interessante come esempio delle attività di coloro che tentavano di promuovere in Italia la fantascienza in generale e quella italiana in particolare. Su Futuro, periodico di cui uscirono solo otto numeri, trovarono spazio molti dei principali autori, nuovi e vecchi, del mondo italiano della science fiction: Inisero Cremaschi, Pierfrancesco Prosperi, Maurizio Viano, Riccardo Leveghi, Gilda Musa, Lino Aldani, Giuseppe Pederiali. Futuro si riprometteva di diventare un polo di attrazione per chi leggeva fantascienza in Italia e chi la scriveva, alternando racconti (in massima parte) a interventi (dei critici e dei lettori) e interviste (ospitando anche Giovanni Comisso, Elio Vittorini, Libero Bigiaretti, Mario Soldati) sulla science fiction, sul suo ruolo sociale e politico (sic!), come declinazione della letteratura al pari delle altre, incluso un intervento di Juan Rodolfo Wilcock, colto durante la sua transizione dallo spagnolo all’italiano.
Una formula totalmente nuova in Italia, di cui i redattori hanno coscienza e rivendicano la primogenitura: “Questa è oggi l’unica rivista italiana di science-fiction. I cugini periodici che sono in commercio preferiscono infatti ignorare il carattere di rivista che oggi noi crediamo essenziale” (Cremaschi, 1978a, corsivo nel testo).
Il chiodo fisso è rivendicare il diritto ad un posto (anche delle dimensioni di una comoda nicchia) per la science fiction, e per quella italiana in particolare nel panorama della produzione culturale, considerandola letteratura mainstream, soffusa dell’aura sacrale che nell’Italia di allora comportava richiamarsi ad essa: “La science-fiction è adulta, non può rassegnarsi al ruolo di Cenerentola, relegata in appendice alle varie pubblicazioni specializzate, «matrigne» nei confronti del prodotto locale più qualificato quanto indulgenti e tenere con la produzione straniera, anche la più scadente. Senza sciocchi desideri di rivalsa, non metteremo tuttavia al bando gli scrittori stranieri. Il nostro fondamentale proposito è quello di presentare una science-fiction valida sotto tutti gli aspetti: offrire una narrativa apprezzabile, di per sé, prima ancora che per la sua suspence del modulo fantascientifico. Perché sia chiaro una volta per tutte, la science-fiction non è un genere, non è un sottoprodotto della letteratura, ma è letteratura tout court” (ibidem, corsivi nel testo). Si noti che qui persiste il trattino nell’indicazione del genere, questione altrove abbondantemente risolta da tempo.
Le frasi citate sono estremamente chiarificanti. La rivendicazione di una migliore qualità – e di riflesso di una maggiore considerazione – per la narrativa di fantascienza, se da una parte può essere indice di onesto impegno culturale, dall’altra è la spia dell’incapacità di misurarsi con le tendenze strutturali dell’industria editoriale di massa. Viene rivendicato ancora un ruolo auratico ed autonomo dell’oggetto artistico e di chi lo produce, invece di comprendere e promuovere la natura di merce estetica dello stesso – in questo alla pari con tutti gli altri prodotti culturali.
E d’altra parte il ricorso a intellettuali come Vittorini e Soldati la dice lunga, come pure lo farà in seguito la lunga rincorsa a Italo Calvino, e, come dimostrano le citazioni che seguono da Universo e dintorni, raccolta di science fiction italiana curata da Inisero Cremaschi nel 1978 per Garzanti, ad altri autori del Gotha letterario italiano: “E per quanto l’affermazione possa apparire un tantino paradossale, direi tranquillamente che il primo autore a meritare il termine di fantascientista (o se si preferisce di inserimenti prefantascientista) sia stato Giacomo Leopardi… Non intendo riferirmi alle molteplici rifrazioni cosmiche di cui la poesia leopardiana è costellata, o non soltanto a quelle, ma agli inequivocabili inserimenti utopistico futurologici contenuti in due opere non liriche: nel poemetto Palinodia a Gino Capponi, che è del 1835, e in un buon numero di Operette morali” (Cremaschi, 1978b).
E ancora: “Caduti i polverosi occhiali della consuetudine, la rilettura delle Operette morali ci svela una stupefacente serie di proposte logico-fantastiche che potrebbero fornire materiale prezioso per le correnti più modernamente filosofiche della science-fiction di oggi” (ibidem). Lo scrittore italiano di fantascienza, attraverso la rivendicazione della presenza nella letteratura “alta” di affinità con l’ambito cui appartiene, vuole il riconoscimento della cultura ufficiale. Egli non comprende minimamente che l’affermazione del suo ruolo non passa attraverso l’accademia, ma semmai proprio per le sedi di quelle case editrici contro cui si scaglia, e che lo snobbano perché alla fin fine, nei termini della nascente industria italiana della letteratura di massa, il prodotto straniero è migliore, più sperimentato, funzionale, interno alla logica dei consumi di massa.
L’ultimo esempio che intendiamo citare riguarda Ugo Malaguti: scrittore, esordisce su Oltre il Cielo, scrive alcuni romanzi per l’editore Ponzoni, opera come traduttore, poi passa alla direzione della rivista Galassia e dello Science Fiction Book Club, una collana di fantascienza pubblicata dalla Tribuna di Piacenza, la stessa della rivista Galassia. Infine, nel 1967 lancia la Libra, casa editrice che pubblica unicamente science fiction. Esempio indicativo di un certo numero di operatori italiani del settore: polivalenti, progressisti, promotori della fantascienza cosiddetta sociologica.
È il modello che poi verrà seguito da alcuni operatori più giovani, appartenenti alla generazione subito successiva alla sua: Vittorio Curtoni, Gianni Montanari, ad esempio, anche se questi ultimi non riusciranno sempre a lavorare in campo creativo, critico, manageriale.
Ma, come si può arguire, la situazione di fondo non cambia: la struttura produttivo/distributiva rimane grosso modo la stessa, divisa fra un paio di grosse case editrici, e una miriade di piccole iniziative in cui si barcamena lo strato degli operatori specializzati, divisi fra pratica amatoriale e piena professionalità: “Si mettono a scrivere di notte, perché uno di giorno fa il ragioniere, l’altro il professore di inglese, l’altro qualche altra cosa” (Giambalvo, 1978).
Lo scritto di Franco Giambalvo è specchio di una situazione costante da un quarto di secolo. Pure, negli anni Settanta la diffusione della fantascienza è ormai esplosa anche in Italia: è nello scarto fra le dimensioni della domanda e del pubblico e le forme di risposta che l’editoria offre a quest’ultimo che verifichiamo, alla base della produzione industriale di cultura in Italia, la presenza di forme organizzative ancora vecchie – e la sottile allusione da parte degli operatori di una dimensione romanticamente trascurata ma caparbia da parte dei sostenitori del genere, quasi una scelta militante, esistenziale.
A modello di questo nuovo ruolo di operatori, che annovera oltre a quelli già citati anche autori come Lino Aldani e Gianluigi Zuddas e altri, e delle caratteristiche della loro produzione, possiamo prendere Gianni Montanari e il suo terzo romanzo, Daimon (1978a).
Montanari è senz’altro uno degli autori più prolifici della sua generazione avendo pubblicato romanzi, un saggio sulla fantascienza inglese (1977) e una guida al genere (1978b). È stato per lungo tempo, insieme a Curtoni, poi da solo, curatore e traduttore per Galassia, ha curato sporadicamente antologie di narrativa fantasy e horror per Mondadori, ha diretto la BUR fantascienza per Rizzoli e i Fantapocket per Longanesi. Dopo aver sperimentato nei suoi due primi romanzi i temi del catastrofismo britannico ispirato dalla New Wave inglese di James G. Ballard e Michael Moorcock innestandoli su un elemento locale – la nebbia – su cui montare l’evento-disastro, con Daimon prova a costruire una sintesi di alcuni sottogeneri fantascientifici. Nel romanzo infatti si mescolano luoghi di sword&sorcery, tratti di antiutopia da medioevo-prossimo-venturo, echi mitteleuropei di ispirazione kafkiana – tipici peraltro di certa science fiction statunitense degli anni Quaranta-Cinquanta, ispirazioni supertecnologiche farmeriane, a cui si aggiunge l’impegno in senso sociale tipico di molti scrittori italiani della generazione di cui scriviamo (che in questo caso vuole trarre ispirazione da George Orwell e Philip K. Dick). È quindi un ambizioso tentativo di sintesi fra discorsi e approcci diversi alla fantascienza, interessante perché – al di là degli esiti – mostra come in Italia si faccia strada in un certo ambito di operatori, l’intenzione di seguire percorsi alternativi a quelli della science fiction più tradizionale e “dura”.
Ma torniamo indietro, e vediamo più in dettaglio cosa succede alla fine degli anni Sessanta. L’uscita nelle sale di pellicole come Il Dr. Stranamore nel 1963 (Kubrick, 2009), Il pianeta delle scimmie nel 1967 (Schaffner, 2000), 2001: Odissea nello spazio nel 1968 (Kubrick, 2004) innesca – ed è la spia di – un processo di planetarizzazione dei circuiti a disposizione dell’industria culturale che riarticola gli apparati di produzione, distribuzione e consumo di immaginario, che ha come luogo di partenza gli Stati Uniti e l’industria americana della cultura e che ha fra i suoi risultati la penetrazione e l’adeguamento, anche in periferia, dell’immaginario collettivo ai livelli delle situazioni trainanti.
Questi film, e in particolare Odissea nello spazio, invitano a far entrare nel cinema e nell’immaginario – insieme alle imprese spaziali: è di quegli anni lo sbarco Usa sulla Luna
(cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero18>) –, con dimensioni mai raggiunte prima, la grande tecnologia e il suo immenso potere di fascinazione. Odissea nello spazio non è solo un film con tanta tecnologia: è anche il film della tecnologia e sulla tecnologia ormai diventata informatica, già futura, già fantascientifica – e quindi già letale per la sopravvivenza della science fiction, come vedremo più avanti. Da allora è un crescendo: l’immaginario tecnologico si dispiega attraverso film come Guerre stellari (Lucas, 1977), Incontri ravvicinati del terzo tipo (Spielberg, 1977), i fumetti tecnologico/psichedelici di riviste come Métal Hurlant e Pilot, oppure attraverso le sperimentazioni di alcuni protagonisti della pop music come Brian Eno o i Pink Floyd fondati sull’applicazione sempre più raffinata della ricerca, dello studio di registrazione come strumento principe (anche qui pionieri furono i Beatles) e della strumentazione elettronica.
Anche nel nostro paese si afferma il nuovo immaginario. Lo sviluppo tecnologico-scientifico, i nuovi miti introdotti da televisione, divulgazione scientifica, passioni tecnologiche di massa sono i canali privilegiati attraverso cui si diffonde il mutamento.
L’hi-fi alla portata di tutti e il suo altissimo contenuto di tecnologia avanzata introducono radicali trasformazioni nell’industria culturale: produzione e riproduzione per la fruizione individuale, domestica, personalizzata, a disposizione di tutti (Panorama, 1981), esito delle strategie di riorganizzazione dei consumi da parte delle grandi multinazionali dell’informazione e dell’elettronica (Richeri, 1980). L’industria della cultura rifonda l’immaginario collettivo, come già era successo altrove, a partire dall’operatività informatica, dalla manipolazione elettronica (Perrella, Strino, 1980).
È da questa riorganizzazione che si sviluppa anche in Italia il grande boom della science fiction degli ultimi anni Settanta che porta al fiorire di nuove riviste, alla rivitalizzazione delle vecchie, all’esplosione di collane editoriali e di case editrici che per anni avevano vivacchiato stentatamente. Ed è a partire da questa esplosione che si precisano in modo definitivo tutti gli aspetti della diffusione della fantascienza in Italia: divisione del mercato, ruolo dell’industria editoriale maggiore, ruolo degli operatori specializzati, critica accademica e militante.
Lungo questo scritto abbiamo già accennato a veri elementi tipici dell’industria italiana della fantascienza. Con l’esplosione del mercato il processo si completa e giunge alle sue ultime conseguenze, attorno, prima di tutto, alla divisione del mercato fra le varie case editrici che pubblicano science fiction.
Fino agli inizi degli anni Settanta le due uniche collane veramente forti presenti sul mercato sono Urania e Galassia, diffuse sotto forma di periodici distribuiti attraverso le edicole. Già allora è presente una evidente divaricazione di intenti. Urania rimane sostanzialmente nel solco della tradizione del genere, pubblicando sempre più spesso lavori che probabilmente sono considerati “di serie B” anche sul mercato Usa, con traduzioni spesso sciatte e ridotte. La rivista della Mondadori pubblica prima di tutto hardware science fiction e space opera. La sua forza, però, risiede nell’essersi configurata nel tempo come sinonimo di sf, grazie anche alla diffusione molto più capillare del prodotto. Galassia invece cerca di proporsi come il luogo che ospita opere di maggior impegno letterario, introducendo anche (con molta misura, comunque) autori italiani, e dedicando maggiore attenzione al mondo degli operatori specializzati, in particolare stranieri, attraverso la pubblicazione di interviste, articoli, materiali vari.
A queste due pubblicazioni si affiancano ora alcune case editrici, nate con l’intento di pubblicare esclusivamente – o quasi – narrativa di science fiction.
La Libra di Bologna, la Fanucci di Roma e la Nord di Milano lanciano il volume da libreria, avviano collane di narrativa nelle quali tentano di presentare un prodotto più ricercato di quello proposto nelle edicole, grazie alla scoperta o riscoperta di opere di valore, in alcuni casi veri classici del genere.
La Nord, ad esempio, presenta due collane: la Cosmo argento, in cui vengono pubblicate opere di medio valore, la Cosmo oro, destinata ad ospitare i classici del genere; in tutti e due i casi, si cerca sempre di corredare criticamente i volumi. È comunque sempre presente lo sforzo di produrre un certo apparato critico, sia all’interno dei volumi di narrativa, sia attraverso il lancio di collane di saggistica. Alla fantascienza cominciano a sovrapporsi – o perlomeno accompagnarsi – discorsi nettamente orientati: all’impostazione conservatrice di Sebastiano Fusco e Gianfranco De Turris – per la Fanucci – fa da contraltare la posizione progressista dei Malaguti, dei Curtoni. E lo scontro non si ferma alle note di copertina o alle polemiche su riviste e bollettini di informazione, ma si sposta alla scelta delle opere, ad altre iniziative editoriali che presto si aggiungeranno alla pubblicazione di narrativa. Fino a rivendicare l’appartenenza di questo o quell’autore o di questo o quel sottogenere ad un campo ideologico o all’altro.
Curioso – e significativo – è il caso dell’editrice MEB di Torino: a una collana di narrativa fantascientifica accosta collane di parapsicologia, ufologia, arti marziali, filosofie orientali. A questo esempio si rifaranno Nord e Fanucci, sia pur molto timidamente – la prima con qualche incursione fra gli ufo, la seconda pubblicando trattati di magia nera e classici dell’esoterismo.
Fantascienza, heroic fantasy, ufologia, divulgazione scientifica, meditazione zen e magia nera, arti marziali e far-da-sé spirituali forse cominciano, uniti dalle strategie editoriali – e quindi nel consumo – ad andare a braccetto, ritagliando nuovi settori dell’immaginario che accompagnano l’irrazionalismo emergente di settori di pubblico apparentemente marginali, sebbene consistenti, privi ormai di connotazioni sociologiche precise, mobile categoria residua costituita da coloro che non leggono – consumano – (solo) letteratura tradizionale.
Nel processo si inserisce la rivista Robot, nata nel 1976 e diretta da Vittorio Curtoni, senz’altro il periodico specializzato più raffinato pubblicato in Italia, varato da un piccolo editore di Milano, Armenia – anch’esso specializzato in pubblicazioni anche periodiche di parapsicologia, ufologia, occultismo – cui affiancherà presto una collana da libreria di science fiction (Fantascienza) e una di narrativa horror (I libri della paura).
A racconti quasi sempre piuttosto eleganti si alternano saggi critici, interviste e articoli, all’interno di una impostazione decisamente progressista, a cui si aggiungono misurate pubblicazioni di scrittori italiani, fino a giungere al varo di un “Premio letterario per scrittori italiani”.
Il progetto alla base di Robot consiste nel tentare di diffondere una concezione della fantascienza come narrativa sì di evasione, ma nello stesso tempo sofisticata e impegnata. Vengono quindi spesso pubblicati i lavori di quegli scrittori più legati alle tematiche anglosassoni liberal (in quel periodo ecologia, femminismo, pacifismo), e contemporaneamente più raffinati nella scrittura, scelti come indice dell’impegno in fantascienza: Ursula Le Guin, Samuel Delany, Robert Silverberg, accanto a veri e propri classici.
Alla base – oltre all’innegabile scelta di una corretta proposta editoriale – la speranza di una promozione definitiva della science fiction in Italia e di una science fiction italiana.
Ma di nuovo i soliti nodi vengono allo stesso pettine: i risultati del concorso, lo ammettono gli stessi organizzatori, sono scarsi e deludenti. Scrive Curtoni: “La maggioranza dei racconti da noi letti mancava irrimediabilmente di personalità” (Curtoni, 1977a). E ancora, più avanti: “Questo, temo, è significativo: significativo nel senso che ci riconduce ad una certa incapacità di concepire una storia di sf a pieni diritti” (ibidem).
E quindi anche Robot, senz’altro il tentativo più ambizioso e sofisticato progettato per uscire dal ghetto in cui stagna la fantascienza in Italia, deve rinunciare. Dopo circa tre anni di vita, chiuderà, e verrà rimpiazzato dalla rivista Aliens, che durerà ancor meno, dal novembre 1979 al luglio-agosto 1980, fino alla rinascita nel 2003 di nuovo come Robot.
In ordine di tempo assistiamo quindi con il primo Robot all’ultimo tentativo di promuovere in Italia la narrativa di science fiction attraverso lo stimolo alla nascita di un ciclo interamente indigeno. Curtoni, Giuseppe Lippi, Montanari (fuori dalla rivista) ed altri sono i portavoce dell’ipotesi. Più smaliziati dei loro predecessori di Futuro, non rivendicano più con tanta decisione il posto del genere nel Pantheon della letteratura, ma auspicano la possibilità di sviluppare nel nostro paese un modello autonomo di fantascienza: raffinatezza, registri colti, impegno politico/letterario, ambientazioni locali. Ed in questo sono seguiti dagli scrittori della generazione coeva, che fanno così rivivere la provincia italiana assieme alla storia dei loro anni e dei decenni subito precedenti: storie di vecchi partigiani, di giovani sessantottini, di quarantenni in crisi, di pescatori siciliani (Curtoni, 1977b). Con qualche contraddizione nella ricerca della giusta misura. Citiamo ancora da Curtoni: “Un primo incontrovertibile dato: la partecipazione degli autori non esordienti è stata scarsissima… E, tra questi, nulla brillava di spicco particolare… Il fatto è abbastanza deludente, temo” (Curtoni, 1977a).
Poi, a proposito degli esordienti: “Il discorso si fa più triste quando passiamo ai contenuti. Sinceramente, su tutte le opere giunte al premio solo pochissime […] hanno dimostrato un’inventiva, una forza di rottura, personali. Non sarò certo io a dire che dobbiamo battere gli americani sul loro stesso terreno, inventando trame piene di «trovate» e d’azione: ciò che conta è soprattutto la personalità, la grinta, la voglia di raccontare cose che nascono da esperienze personali […] Se non combattiamo su questo terreno […] resteremo sempre, fatalmente, una nazione sottosviluppata (almeno dal punto di vista della narrativa fantascientifica) […] Paradossalmente, due dei racconti migliori (a mio giudizio) non erano, nel modo più assoluto, fantascienza; rientravano, semmai, nell’ambito del mainstream” (ibidem, corsivi nel testo).
Come si vede, il discorso ruota attorno alla necessità di tenersi distinti dalla produzione americana, ma di salvare la professionalità dello scrittore, meglio la sua qualità. Insomma, è presente l’esigenza di costruire questa professionalità non semplicemente attorno al mestiere (si pensi al giudizio sui non esordienti), ma anche a qualità più, sinceramente, impalpabili (“personalità”, “grinta”), termini ombrello che dicono tutto e niente nello stesso tempo. Lo scoraggiamento di Curtoni è evidente, e valgano a dimostrarlo l’accenno ai due racconti non di fantascienza, e quello al sottosviluppo che ci avrebbe afflitto. Temi destinati a rimanere attuali a lungo, a lambire anche i dibattiti attuali. Come il resuscitato e ribattezzato “Premio Robot”, d’altra parte (a riprova delle onde lunghe di certe tendenze di fondo).
Quasi sulla stessa linea è un intervento di Franco Giambalvo, sempre su Robot, di quasi due anni successivo: “C’è entusiasmo, molto, ma si legge chiaramente l’incertezza di chi scrive[…] Si cerca di fare poemi. Si cerca di trovare a tutti i costi una vena assolutamente originale […] Così vien fuori il ricordo di scuola. Da noi si fa letteratura in maniera diversa che in America. Da noi bisogna parlare di verdi colline e di osterie, perché questo è il nostro ambiente […] Guarda Cesare Pavese […] Io allora prendo il mio paese, zio Battista, la partita a carte, ci metto un bell’extraterrestre con tanto di disco volante ed ecco che ti faccio una cosa in linea con la letteratura più amata da noi, che sia al tempo stesso fantascienza […] Personalmente non amo questo schema. Ho affibbiato a questo stile il nome di pavesismo. È uno stile che nella nostra letteratura di fantascienza ha avuto un immeritato successo” (Giambalvo, 1978).
Nello scritto di Giambalvo già si notano delle differenze rispetto alla posizione di Curtoni: il discorso vira verso l’editoria, verso le caratteristiche, in Italia, di colui che vuole scrivere “favole”, come scrive Giambalvo. Viene intuito il rapporto che corre fra industria della lettura e produttori di pagine scritte. Si denuncia, in fondo, la condizione di perenne apprendista artigiano dello scrittore di fantascienza nel nostro paese. Ma si pone l’accento anche sugli errori di questo stesso scrittore, nei suoi tentativi di modificare la situazione.
Ma ancora più a fondo vanno alcuni esponenti della tendenza della critica fantascientifica più recente di quegli anni: i redattori della rivista semi-amatoriale Un’ambigua utopia, espressione della nuova critica legata all’estrema sinistra di allora, a strati di lettori che seppur fra notevoli contraddizioni, uniscono alla passione per la science fiction almeno un minimo di freddezza analitica, di distacco critico. In due articoli successivi la rivista affronta il problema dei rapporti fra editoria e scrittori. Nel primo articolo Remo Guerrini – che già aveva suscitato furibonde polemiche su Robot per alcuni suoi interventi (1977; 1978a; 1978b; 1978c) – fornisce e commenta una serie di dati sulla consistenza economica del mercato della fantascienza in Italia, oltre che sulla consistenza relativa delle varie case editrici impegnate nel settore e sulle condizioni degli operatori.
Dai dati risalenti al 1977, risulta un fatturato annuo di circa cinque miliardi e mezzo di lire ai prezzi del 1979, di cui circa il 35% attribuibile alla Mondadori, e il resto diviso fra tutti gli altri. Nota, inoltre, come andassero sistematicamente esaurite le tirature delle pubblicazioni delle case specializzate.
Ma ciò che interessa veramente a Guerrini sono i rapporti fra casa editrice e operatore. I risultati della sua inchiesta sono chiari: “Credo sia necessario distinguere. Da una parte stanno i grossi editori (Mondadori, Rizzoli…): hanno bisogno di alte tirature per avere collane e periodici redditizi, e sovente ci riescono, grazie a una seria struttura professionale e tecnica. Poi ci sono gli editori piccoli, aziende cui anche una tiratura di 5 mila copie garantisce ricchezza, a patto che tutto il ciclo del lavoro avvenga fuori contratto, senza dipendenti e costi fissi, in base a collaborazioni «volanti». Lavoro nero, insomma” (Guerini, 1979, corsivo nostro). In pratica, solo la grossa azienda garantisce, almeno in parte, il lavoratore – il che, per certi versi, vuol dire anche il consumatore.
Continua Guerrini: “Insomma, per occuparsi di SF in Italia, bisogna avere un’altra occupazione che garantisca la sopravvivenza. Chi ci lavora, in questo settore, deve farlo per hobby, a meno che non si tratti dell’editore che, grazie proprio alla microstruttura dell’azienda, riesce a ingrassare con mostri e marziani. La dimensione industriale della SF la incontriamo, invece, presso i grandi editori” (ibidem).
I risultati di questa dinamica sono per certi versi contraddittori: “Abbiamo quindi, nella medaglia della SF, due facce definite: quella delle piccole aziende, che si reggono sul lavoro nero, e che, pur con basse tirature, offrono un prodotto in genere decoroso, anzi buono. E quello delle mega-aziende, che nella piena tutela sindacale, offrono prodotti meno buoni, ma talmente diffusi da costituire – ed è un gran merito – la base più vasta degli appassionati, il primo gradino di accosto alla SF” (ibidem).
Da notare, en passant, due particolari: prima di tutto, è curioso come proprio le case editrici maggiori, contro cui si sono spesso indirizzate le accuse degli operatori italiani di science fiction, siano quelle che assicurano a dipendenti e collaboratori un adeguato rapporto sindacale (cosa a cui costoro dovrebbero essere piuttosto sensibili, dato il prevalente orientamento progressista che li caratterizza); ancora, ci sembra comunque che anche dalle parole di Guerrini traspaia un’idea della produzione, distribuzione e lettura della fantascienza come un fenomeno comunque positivo, da promuovere e sviluppare, quasi in termini militanti (“ed è un gran merito”; “accosto alla SF”).
Nel secondo articolo (1980) – comunque – vengono commentate le reazioni (spesso violente) suscitate dal primo, e si aggiunge un’intervista con il responsabile del settore per la Mondadori, Cesare Slucca. La situazione viene confermata, e si promette un maggior impegno qualitativo per il futuro, ferma restando l’evasione. E, aggiungiamo noi, probabilmente tenendo conto tacitamente del fatto che l’editore che intende acquistare science fiction di un certo livello, è costretto, per ogni romanzo “testa di serie” acquistato, a comprare i diritti di due opere di minore qualità (dato riferito da Vittorio Curtoni in una relazione al Convegno sull’utopia organizzato da Un’ambigua utopia al cinema Ciak di Milano, 1, 2 aprile 1979. Dato peraltro smentito da Gianfranco Viviani, direttore dell’Editrice Nord e presidente dell’Associazione italiana professionisti di SF).
Dati contraddittori, in apparenza, da analizzare più in profondità.
In realtà tutto il discorso è riconducibile ad alcune contraddizioni di fondo, ed ai riflessi che queste hanno avuto, in Italia, sullo sviluppo dell’industria della cultura – cui abbiamo già accennato lungo questo scritto. Ci riferiamo in particolare allo scarto fra i livelli organizzativi e produttivi raggiunti dall’industria culturale in Usa e in Italia; allo stato e alla direzione del dibattito nel nostro paese attorno alle politiche culturali da adottare, in corso sin dal dopoguerra; al rapporto fra il mondo della science fiction e la cultura in Italia.
LETTURE
— AA.VV., Ti sogno California, in Panorama, n. 782, Mondadori, Milano, 13/4/1981.
— Caronia Antonio, Pittan Lucio, Spagnul Giuliano (a cura di), Viaggio nell’editoria di fantascienza in Italia,
in Un’ambigua utopia, n. 7, Milano, 1980.
— Cremaschi Inisero (a cura di), “Futuro”, il meglio di una mitica rivista di fantascienza, Nord, Milano, 1978a.
— Cremaschi Inisero, Universo e dintorni, Garzanti, Milano, 1978b.
— Curtoni Vittorio, Come è un racconto, in Robot, n. 18, Armenia, Milano, settembre 1977a.
— Curtoni Vittorio, La sindrome lunare, in Robot Speciale, n. 6, 1977b.
— Fattori Adolfo (a cura di), L’immaginazione tecnologica. Teorie della fantascienza, Liguori, Napoli, 1980.
— Fattori Adolfo, Memorie dal futuro. Spazio tempo e identità nella fantascienza, Ipermedium, Napoli, 2001.
— Giambalvo Franco, Bilancio sugli italiani, in Robot, n. 26, 3/1978.
— Guerrini Remo, SF e politica, in Robot, n. 12, Armenia, Milano, marzo 1977.
— Guerrini Remo, Editoria e ideologia, in Robot, n. 23, Armenia, Milano, marzo 1978a.
— Guerrini Remo, Un anno dopo, in Robot, n. 25, Armenia, Milano, aprile 1978b.
— Guerrini Remo, Padreterni, in Robot, n. 26, Armenia, Milano, maggio 1978c.
— Guerrini Remo, La gallina dalle uova d’oro, in Un’ambigua utopia, n. 3, Milano, 1979.
— Guerrini Remo, Intervista a Cesare Slucca, in Caronia, Pittan, Spagnul (a cura di), 1980.
— Montanari Gianni, Ieri, il futuro, Nord, Milano, 1977.
— Montanari Gianni, Daimon, Longanesi, Milano, 1978a.
— Montanari Gianni, La fantascienza. Gli autori e le opere, Longanesi, Milano, 1978b.
— Perrella Giuseppe, Strino Raffaele, Le macchine simulanti, Theorema, Roma, 1980.
— Rapuzzi Luigi, Quando ero aborigeno, Mondadori, Milano, 1955.
— Richeri Giuseppe, Le multinazionali dello spettacolo, in La società Quaderno, n. 2, Bologna, aprile-maggio 1980.
— Salgari Emilio, Le meraviglie del 2000, Simone, Napoli, 1996.
VISIONI
— Kubrick Stanley, Il Dr. Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la Bomba,
Sony Pictures Home Entertainment, 2009.
— Kubrick Stanley, 2001: Odissea nello spazio, Warner Home Video, 2004.
— Lucas George, Guerre stellari, Episodio IV – Una nuova speranza, 20th Century Fox, 2006.
— Schaffner, Franklin J., Il pianeta delle scimmie, Century Fox Home Entertainment, 2000.
— Spielberg Steven, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Sony Pictures Home Entertainment, 2009.