Ormai più di mezzo secolo fa Mao Tze Dong, segretario del Partito Comunista Cinese ed una delle icone del “Sessantotto” e della Pop Art, a proposito della rivoluzione socialista scriveva: “La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un'insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra”.
E che non sia un pranzo di gala – anche se in senso molto più referenziale – il futuro che attende la maggior parte di noi, almeno a sentire il punto di vista di molti, opinionisti e studiosi, cassandre e ricercatori, pare certo. È evidente che ci troviamo di fronte ad una fase di trasformazioni profonde – che non accenna a placarsi, anzi, sembra accelerare, trascinando nel mutamento, come un’onda di piena, tutti i settori dell’attività umana – e per forza di cose anche i singoli individui, le loro aspettative, il senso che hanno di se stessi. Nello stesso tempo, il sentire comune percepisce forte l’impressione che da qualche parte, invece, in luoghi irraggiungibili, esterni, blindati ai più, di pranzi di gala se ne imbandiscano parecchi, e quotidianamente, per festeggiare un nuovo ordine che sta sorgendo e che per ora, se da una parte fa milioni di nuovi poveri, di migranti, naturalmente di morti, dall’altro produce nuove agiatezze, nuove ricchezze, nuovo potere, in scenari che ricordano la Metropolis di Fritz Lang o il futuro intravisto dal primo viaggiatore del tempo, quello di Herbert G. Wells – come peraltro sembra indicare uno dei cantori del “nuovo ordine”, Jacques Attali, in Breve storia del futuro.
Vengono in mente le parole di Jean Baudrillard, che nel 1992, commentava l’inaugurazione “… sul tetto dell’Arca della Défense, con un buffet sontuoso offerto dalla Fondazione dei Diritti dell’uomo, di una mostra delle più belle foto di tutta la miseria dei popoli”. E aggiungeva: “C’è forse da stupirsi che l’Arca dell’Alleanza apra i suoi spazi alla sofferenza universale, santificata a base di caviale e champagne?” Le anime belle devono essere ristorate, per sopravvivere agli orrori che gli vengono mostrati, e per esercitare la propria politically correctness. Intanto, i processi di globalizzazione vanno avanti, di pari passo con l’avanzare della smaterializzazione delle comunicazioni grazie al Web.
Attraversiamo una torsione profonda della Storia, che crediamo sbagli chi la paragona alla crisi del 1929, e che forse assomiglia di più alla prima Rivoluzione industriale, il primo grande esperimento di macelleria sociale della modernità. Neanche la crisi petrolifera del 1973, quella descritta ad esempio da David Harvey in La crisi della modernità sembra un paragone adeguato. Questa però forse può essere collocata all’origine della fase attuale. Secondo Harvey, il 1973 (ed è inutile sottolineare la contiguità col 1968: cfr. www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero14/index.htm) è lo sfondo su cui si realizza il passaggio al postfordismo, e che conduce – o apre – al tardo capitalismo, alla postmodernità.
Lo spazio si rapprende, perché il tempo non è più una variabile significativa, il mondo si rimpicciolisce, il tempo delle transazioni si riduce sempre più, notte e giorno non hanno più significato. Il primato va alla finanza. Sono i soldi puri a contare. E d’altra parte, come immaginare meglio “la fase suprema del capitalismo”, come ebbe a scrivere Lenin, se non con l’emancipazione dell’equivalente generale, il denaro, dalla produzione concreta di merci “hard”? È nella sua natura di significante (sempre Baudrillard) fluttuare liberamente, legandosi alchemicamente solo all’altro sistema di simboli immanente alla contemporaneità, quello del codice binario che viaggia in impulsi elettrici nel Web…<
Possiamo aspettarci le stesse catastrofi sociali e individuali della rivoluzione industriale? Forse sì, le avvisaglie sono in una crisi che sicuramente è reale – il capitalismo (è sempre Harvey che parla) è una forza titanica, creatrice e distruttiva nello stesso tempo – ma è anche alibi e copertura per il tornaconto di molti. E la conoscenza che si ha di questi fenomeni è relativa – spesso solo televisiva: “Oggi il sapere sull’evento non è che la forma degradata di quello stesso evento”, scriveva Baudrillard già nei primi anni Ottanta. E così che assistiamo ai rituali tv dei vari format di “approfondimento”, di “analisi”, tutti con lo stesso menù, salvo un piccolo cadeau che deve differenziare e far distinguere: chi esibisce il comico, chi l’orchestrina a fare da intermezzo, chi il plastico della “scena del delitto”, chi il vignettista insterilito (come nei ristoranti per sponsali: ad un pasto sostanzialmente clonato c’è chi aggiunge la piscina con isolotto centrale per il taglio della torta, chi il gruppetto musicale pop-folk…), ma tutti – i programmi – popolati da estenuati sepolcri imbiancati, ciarlieri convitati di pietra che ripetono sempre le stesse litanie di “se, allora” e di “quando voi”, dichiarando una politically correctness sistematicamente tradita (e forse è meglio, alla fine, a leggere il Foster Wallace di Considera l’aragosta), senza che davvero il pubblico di questi rituali stantii capisca qualcosa in più sullo stato delle cose. Pure, la conoscenza vera, il sapere, sembra risalire nella borsa dei valori strutturali, almeno per i più giovani, che l’hanno rivendicato in tutto il mondo il 17 novembre 2011.
Vedremo come andranno le cose, cercando di rimanere sordi al diluvio di buone intenzioni che vengono continuamente sbandierate. Sì sa, quelle servono solo a lastricare l’inferno, mai per chi le esprime, ma sempre e soltanto per chi è costretto ad ascoltarle – e in fondo a questa strada non ci sono pranzi di gala, opere letterarie, disegni, o ricami. Nessun riguardo, nessuna magnanimità.