Fabrizio De André è risorto. È un fenomeno episodico, ma capita di tanto in tanto, almeno ai musicisti. Loro a volte ritornano in vita grazie alle ex meraviglie della scienza e della tecnica che oggi non stupiscono più nessuno. La musica nell’era digitale, infatti, ha già resuscitato Nat King Cole, che si è ritrovato a cantare in duo con la figliola, Natalie, dando vita (ops!) a un toccante e intenso quadretto. Stessa sorte è toccata a The Genius, ovvero Ray Charles, e a John Lennon. Oggi anche l’Italia, paese dei miracoli quasi per definizione, assiste al ritorno in audio di un defunto.
Colui che si è assunto il compito di fare da tramite si chiama Geoff Westley, che in passato si è occupato di Lucio Battisti, producendo Una donna per amico e Una giornata uggiosa. Curiosamente Battisti è stato al centro di un altro episodio paranormale qualche anno fa, quando tramite una medium fece in modo di favorire la stesura da parte di Mogol del testo della canzone L’Arcobaleno scritta per la parte musicale da Gianni Bella per Adriano Celentano. Oggi, l’atipico medium Westley, dopo aver lavorato con diversi campioni della musica leggera italiana, da Claudio Baglioni a Renato Zero e Riccardo Cocciante, ha realizzato un album avvalendosi della voce di De André.
Westley ha preso dieci brani del musicista genovese (venticinque, per la precisione, ma l’album ne propone solo una parte), ha scritto partiture orchestrali intorno alle parti vocali, ha chiamato la London Symphony Orchestra per eseguirle e con il prestigioso ensemble si è recato negli studi di Abbey Road per registrare il tutto. Non contento ha ingaggiato Vinicio Capossela e Franco Battiato per farli duettare, ognuno in un brano, con il redivivo. Il duo virtuale evidentemente esercita un’irresistibile attrazione fatale. In ogni caso, niente da dire sull’operazione discografica, una come tante altre, discutibile sì e no. Basti pensare alle apparizioni di inediti, o di re-editing, rimasterizzazione, remix, live restaurati che da quarant’anni tengono in vita l’esigua discografia firmata The Doors.
È riuscita dal punto di vista musicale l’impresa di Westley? Non è interessante appurarlo, non essendo questa una recensione discografica, e non solo, poiché qualsiasi valutazione non può non essere fortemente condizionata dal rapporto di ognuno di noi con la musica di De André. Tutt’al più si può fare una considerazione sulla sua inutilità nei confronti della marca De André, poiché la sua diffusione è consistente, i suoi dischi vendono e si ristampano, e nel decennale della morte (2009) una sontuosa mostra commemorativa ha ottenuto grande successo di pubblico, prima a Genova e poi nelle città dove si è spostato. Insomma, De André non è più, da lunga data, quel prodotto amatoriale che venne anche censurato e che circolava in ristretti circoli, come sul finire degli anni Sessanta.
Questo disco, però, qualcosa di stonato ce l’ha, sarà perché la sua circolarità è la stessa di quella del tavolo che il medium adopera per le sedute spiritiche… ma andiamo con ordine. Intanto, ci interroga sull’autorialità, sopra i suoi fondamenti. Chi è l’autore di questo disco? De André? Boutade a parte, lui è morto, non ci ha lavorato, ma ha scritto melodie e testi, i suoi brani non sono ripresi, queste non sono le classiche cover, rifacimenti, interpretazioni o come dir si voglia. Verrebbe da dire che siamo di fronte a una gigantesca operazione di campionamento, la cifra autentica della musica digitale (come concetto, non come formato). Anche qui, però, qualcosa non quadra: un conto è prelevare un frammento, manipolare diverse fonti sonore, altro è prendere l’intera parte vocale di un brano, farlo anche per altri nove e fasciare il tutto con arrangiamenti creati su misura. Allora possiamo pensare che siamo finalmente arrivati alla nuova frattura rivoluzionaria in musica come quella che si verificò tra i Sessanta e i Settanta del secolo scorso? Peccato, però, che questo sommovimento si svolgerebbe nell’Ade, da dove potremmo finalmente dare luogo al mitizzato incontro mai avvenuto tra Jimi Hendrix e Miles Davis, o di realizzarne altri che i musicisti quando erano in vita non si sarebbero mai sognati di fare. Mescolanze anche bizzarre, fregandocene delle concordanze temporali, potremmo incrociare Claudio Villa e Freddie Mercury, per esempio, oppure Jim Morrison e Frank Sinatra. Proprio The Voice, ancora in vita, aveva fatto da pioniere, smaterializzandosi in una coppia di dischi (dal titolo, guarda un po’, Duets), nei quali lui e i suoi partner non si incontravano in studio, ma ognuno registrava per conto suo. Potremmo accontentarci di un vivente e combinare un incontro con un trapassato, come avviene nel disco di Westley (o di De André?). Che ne dite di una jam session con Zucchero e Jim Morrison? Ecco, tutta la musica registrata dall’invenzione del fonografo in avanti è oggi a disposizione di tanti piccoli Frankenstein come Westley per dare corpo (oops!) al genere che ingloberà tutti i generi musicali, l’utopia della musica totale che si incarna (ooops!!), in una pratica di massa di produzione e, attenzione, di consumo: perché non si produce nulla per target inesistenti e noi siamo immersi da un pezzo in un oceano di voci eteree, identità senza corpo, corpi anonimi, ecc (tutto il repertorio proprio della digitalizzazione del mondo); siamo immersi e ne facciamo parte. Mancava la colonna sonora, ma a piccoli passi, un po’ incerti, si sa, gli zombie deambulano a modo loro, eppure vanno avanti. Volendo dargli un nome, ci soccorre Battisti (dall’Aldilà, ovvio). Queste nuove musiche, per dirla con lui,
tu chiamale, se vuoi, necrofonie.