L'Arcipelago dei dannati
di
Adolfo Fattori

 


Bene: mi sembra che ci sia abbastanza materia per unificare un filo che connette le dimensioni del romance borghese con i primi studi psicanalitici e con la vicenda della narrativa fantastica novecentesca nell’esprimere il bisogno di dispositivi che riproducano immagini e parvenze di corpi: fisici, come gli ibridi di Moreau; virtuali come i fantasmi di Morel. E riconoscere il macchinario che deve realizzare l’illusione faustiana di Morel. Nasce dal discorso schizofrenico – che non ne sa riconoscere gli scopi, e ne coglie solo il dolore (come le vittime di Moreau) – e dall’immaginazione narrativa, che ne sottolinea gli aspetti visionari, ma si concretizza più tardi nelle tecnologie applicate al laser e nella televisione.

Ed è, almeno su un versante, al servizio della realizzazione dell’immortalità. Solo che, alla fine, qualcosa non funziona per il verso giusto. Allora fermiamoci un attimo a riflettere sui percorsi che abbiamo intrecciato. In questo pezzo di storia immaginaria delle tecnologie – reali o fantastiche – applicate al corpo, abbiamo visto intrecciarsi due sentieri.

Uno è quello tutto biologico di Wells, che porta direttamente alla dimensione del posthuman, pur ribaltandosi: laddove l’illuso Moreau vuole trasformare animali in uomini, si realizza alla fine il contrario, come in Cremaster di Matthew Barney, giusto per fare un esempio.[10] E sviluppa un ulteriore segmento sperimentando l’applicazione diretta delle tecnologie “meccaniche” e dell’artificiale al corpo, come nelle performances di Stelarc o Orlan.[11]

Poi c’è il percorso che si catalizza con Bioy Casares, più evanescente se si vuole – e visionario – che punta direttamente alla sparizione del corpo fisico, sostituito dalla sua rappresentazione, simulazione, allusione. È il percorso che era già del cinema, ma che diventa quello degli ologrammi e della televisione per poi finire – per ora – con la realtà virtuale.

Ma possiamo fermarci alla TV, e tornare al tema dell’isola: nel suo format televisivo, L’isola dei famosi.

Sperimentiamo una bizzarra percezione. Di averne già conosciuto i protagonisti. Ma non nella loro identità di gente della televisione. Quanto in quella di prigionieri dell’isola del Dr. Moreau, poi di quella di Morel, mascherate da Club Mediterranée per pensionati, quasi come in Cocaine Nights di J. G. Ballard[12]. Ma chi sono costoro?

Bambini perduti, forse, e ora ritrovati da grandi, dai cercatori di tesori per la TV, trasformati nel nostro caso in ghostbusters? Come i personaggi del romanzo dell’amico di Borges, alla ricerca dell’immortalità? Nel caso del romanzo, persone nel pieno della vita, destinati a vedersela succhiare via per trasformarsi nelle effigie eterne di se stessi, di cui però non potranno più godere, non avendo più sensi, né anima.

Più prosaicamente, nel caso dei nostri Famosi, il percorso si svolge al contrario. Perché la TV è fatta ormai per l’effimero, non assicura tempi lunghi, fagocita ed espelle – e in qualche caso ricicla: la loro è la ricerca di una immortalità di ritorno, quella di personaggi in cerca di un corpo, nell’illusione – e neanche tanto – che ormai solo i media possano fornirlo nella deriva delle tecnologie cyborg, virtuali, elettroniche…

È una dimensione un po’ necrofila, se si vuole, quella di quest’isola, che davvero sembra riverberare le parole di Marx, in un senso molto più completo – e profetico – di quanto si poteva immaginare qualche tempo fa. Sopravvissuti alla Notte dei morti viventi di Romero, che invece di nutrirsi dei corpi dei vivi si nutrono delle emozioni dei telespettatori (un po’ come i Notturni di Dark City di Proyas) – o emuli al contrario degli immortali personaggi del Freaks di Browning?[13]

Un’isola dei morti, o dei dannati, di corpi e anime virtualizzati, condannati come Sisifo a trasportare il peso di un’esserci sempre in bilico, sempre da riconquistare, attraverso l’etere, grazie agli incantesimi dell’animatore e della vestale[14] di turno, che fanno da tramite fra il mondo dell’isola e quello “vero”: quello dello studio televisivo, quello degli schermi.

Gli schermi, scrive qualcuno, condividono la stessa natura degli specchi: rimandano, ognuno a suo modo, l’immagine di colui che hanno di fronte.[15]

Che nel nostro caso abbia ancora ragione Borges, che fa dichiarare ad “… uno degli eresiarchi di Uqbar…” che “… gli specchi, e la copula, sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini.”?[16]


[10] Cfr. ancora Belpoliti, cit., ma anche L. Vergine e G. Verzotti (a cura di), Il Bello e le bestie Metamorfosi, artifici e ibridi dal mito all’immaginario scientifico, Skira, Ginevra-Milano, 2004.

[11] Cfr. Belpoliti, cit.

[12] J. G. Ballard, Cocaine Nights, Baldini & Castaldi, Milano, 1997.

[13] G. A. Romero, La notte dei morti viventi, USA, 1968; A. Proyas, Dark City, USA, 1998; T. Browning, Freaks, USA, 1932.

[14] Nello specifico, Massimo Caputi e Simona Ventura, come l’aidoru di Gibson, volti e corpi fungibili ed effimeri: ricordate Max Headroom?

[15] G. Pecchinenda, Dell’identità, Ipermedium, Napoli, pagg. 73 e segg.

[16] J. L. Borges, Finzioni, Einaudi, Torino, 1974, pag. 7.

 

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