L'Arcipelago dei dannati
di
Adolfo Fattori

 


L’atmosfera in cui Wells scrive il suo romanzo è ancora quella del positivismo e della fede nella scienza, verso le cui implicazioni lo scrittore, da buon aderente alla Fabian Society, mostra tutta la sua giustificata diffidenza. Volendo, possiamo addirittura ipotizzare che le povere bestie vittime di Moreau – al di là delle sue intenzioni visionarie – siano destinate a essere, come i Morlocks di La Macchina del tempo, un’altra incarnazione della classe operaia, creata e soggiogata dal capitale: quale altro motivo avrebbe infatti Moreau, di produrre questi esseri innaturali, se non quello di metterli al lavoro? Non mangiano neanche carne o pesce! Una prefigurazione dei lavoratori del terzo mondo attuale, che si accontentano di un pugno di riso per produrre per Adidas, Nike, e anche IKEA.

Nella sua follia richiama addirittura Frankenstein – ma un Frankenstein dei parvenu borghesi, non degli aristocratici studiosi del passato illuminista e neoclassici – anticipando così anche lui le sperimentazioni cyber e posthuman degli anni 80 – 90 del Novecento,[6] a loro volta operazioni e performances estremamente critiche nei confronti della società, ma anche dell’arte istituzionale contemporanea.

La vicenda umana di Moreau finirà – come è giusto – in tragedia, mentre i suoi ibridi – liberati dal suo giogo – pian piano torneranno alla loro condizione originaria, come è testimoniato dall’unico superstite e spettaore casuale dei fatti.

Che Morel sia un affine di Moreau lo si capisce già dal nome, e dalla profonda e convinta frequentazione dell’immaginario da parte di Bioy Casares e del suo grande amico, Borges.

Diciamo che lo scrittore argentino rielabora la favola tragica di Wells compiendo un passo laterale, anche se logicamente successivo a quello del suo predecessore: la sperimentazione si sposta sugli umani, con un obbiettivo decisamente più alto: se agli animali si chiedeva di diventare uomini, agli uomini si chiede di diventare immortali. In epoca pre-cibernetica il superamento dei limiti del corpo non può avere a che fare che con la vita in sé, piuttosto che con il potenziamento o la mutazione del corpo. E d’altra parte è troppo forte il legame dei due argentini con l’immaginario fantastico e meraviglioso tradizionale per abbandonarlo.

Un rapporto con la dimensione moderna – “fantascientifica” – della tecnologia comunque c’è: quella che costruisce Morel è comunque una macchina, che trae energia dal ritmo delle maree, e a queste è legata nel suo funzionamento, nella riproduzione periodica dei gesti, delle azioni, delle parole di coloro che ha imprigionato in una immortalità priva di vita.

In fondo, è un’evoluzione del cinema, quella che ha in mente Bioy Casares: alle due dimensioni dello schermo si sostituisce la materialità, seppur illusoria, di una immagine a tre dimensioni, che rimanda a tecnologie che già erano state prefigurate nelle immagini degli scrittori gotici e prefantascientifici[7] e nel delirio degli schizofrenici,[8] e ad altre che stanno per arrivare: televisione e olografia.

A dire il vero, la TV aveva già dato dimostrazioni pubbliche della sua esistenza nel 1926 e poi di nuovo nel 1936, ma solo nel 1946 cominceranno le prime vere trasmissioni. L’olografia è sicuramente successiva al romanzo dell’argentino: nasce nel 1948.

Invece, nel caso dello scritto di Tausk – e questo, sì, Bioy Casares poteva averlo presente, vale la pena di citarne qualche riga: "L’apparato influenzatore nella schizofrenia è una macchina di natura mistica… Esso consiste di casse, manovelle, leve, ruote, tasti, fili, batterie e simili…tutte le forze naturali che stanno al servizio della tecnica vengono adoperate per la spiegazione del funzionamento della macchina… Fa vedere le immagini… Produce e sottrae pensieri e sentimenti…".[9]


[6] M. Belpoliti, Crolli, Torino, Einaudi, 2005.

[7] Penso a  Eva futura di Villiers de l’Isle Adam e Il castello nei Carpazi, di Verne, che mettono addirittura in scena marchingegni che sembrano già cinematografi: macchine che permettono la proiezione di immagini su uno schermo o su un telo, e prima di queste a opere che partecipavano ancora del clima “pre-scientifico” della prima modernità, quello che avrebbe fatto contemplare “con muta meraviglia”, come scrive Villiers de l’Isle del suo personaggio, la “magia” della proiezione sullo schermo: Il sogno di Mary Shelley, Il racconto dello specchio misterioso di Walter Scott, La catena del destino di Bram Stoker. Cfr. L. Albano, La caverna dei giganti, Pratiche, Parma, 1992.

[8] Cfr. in R. Fliess (a cura di), Letture di psicoanalisi, Boringhieri, Torino, 1972, V. Tausk, Origine della “macchina influenzatrice” in schizofrenia del 1919.

[9] Fliess, cit., pagg. 58-59.

 

    [1] (2) [3]