di Gennaro Fucile
Padova 1992, nello spazio Cattedrale ex Macello, dal 2 luglio
al 20 ottobre viene ospitata una mostra intitolata Coca-Cola,
un mito. Circa 1.000 gli oggetti esposti, in rappresentanza
di un tesoro della comunicazione, della grafica, del merchandising che
non ha rivali. La bevanda più famosa del mondo aveva alle
spalle anche il più grande errore di marketing (con relativo
flop) di tutti i tempi: il lancio della New Coke
nel 1985. Nulla sembra poterla scalfire, neanche il gigantesco braccio
di ferro mediatico con i rivali della Pepsi-Cola.
Qualcosa di magico anima quello che altro non è che un
banalissimo soft drink, “un liquido carbonato, che al 99 per
cento è acqua zuccherata con tracce di caffeina e acido
fosforico” (Ballard, 1999). Il catalogo della mostra ne
ripercorreva la storia, riproducendo parte degli oggetti esposti. Un
centinaio di pagine lungo le quali ci si imbatte in calendari,
manifesti, giocattoli (camion soprattutto), cartelli, servizi di
piatti, termometri da parete, boccette di profumo, apribottiglie,
vassoi, ghiacciaie portatili, orologi a parete, pieghevoli,
lattine-accendino, Yo-yo, vetrofanie, distributori automatici, ecc. In
fondo, dopo un centinaio di pagine, si può leggere questa
storia:
“[…] Santa Claus, come
lo chiamano gli anglosassoni, è una figura mitica che si
rifà ad un personaggio reale, San Nicola, vescovo di Myra,
protettore dei bambini, in onore del quale è nata una festa
con relativo scambio di regali, festa che in molti paesi, in America in
particolare, ha poi finito per coincidere col Natale. Col passare degli
anni e il sovrapporsi delle tradizioni, Santa Claus ha subito una serie
di trasformazioni, assumendo volta per volta l’aspetto di un
vecchio alto e magro o di uno gnomo, vestito di giubbe o palandrane di
ogni colore. Poi nel 1931, la Coca-Cola decide di utilizzarlo per una
campagna pubblicitaria natalizia. Incarica l’illustratore di
origine svedese Haddon Sundblom di creare un Santa Claus che inglobi un
po’ tutte le tradizioni, che sia realistico, ma al tempo
stesso simbolico. E Sundblom disegna il vecchio dal volto bonaccione,
con la barba bianca, i pantaloni, la giubba e il berretto rossi bordati
di bianco che tutti conosciamo, usando per modello un vicino di casa,
un commesso viaggiatore di nome Lou Prentice, che per il suo aspetto e
il suo sorriso incarna perfettamente lo spirito di Santa Claus. La
campagna ha un tale successo che Santa Claus, più o meno
immutato, ritornerà puntualmente nella pubblicità
Coca-Cola natalizia fino ai nostri giorni. Alla morte di Prentice,
Sundblom, un po’ ingrassato nel frattempo si guarda
allo specchio e scopre di avere lui stesso un volto adatto e da allora
lo userà come modello. Dalla pubblicità Coca-Cola
quell’immagine uscirà per fissarsi definitivamente
come l’immagine ‘autentica’ di Santa
Claus diffondendosi nel mondo e conquistando con la sua simpatia anche
i paesi come l’Italia, ai quali la tradizione di Santa Claus
è del tutto estranea, tanto da costringerli ad inventare per
lui un nome nuovo: Babbo Natale” (AA.VV., 1992). Una fiaba,
insomma, dove: “Come in certe fiabe, la marca (o il prodotto)
diventa l’eroe, oppure incarna i caratteri di un oggetto
magico, capace di sciogliere nodi e provocare incantesimi. La logica
del mondo corrente è sospesa, o è trasposta in un
altro territorio: il mondo possibile della marca”
(Fabris/Minestroni, 2004).
Se la marca ha un’origine
certa, Santa Claus ne è il suo racconto originario, in grado
di travalicare i confini della pura operazione pubblicitaria mirata al
sostegno di un prodotto. Per la prima ed unica volta nella storia dei
beni di consumo di massa, si forgia contemporaneamente una definitiva
identità di marca e quella del suo testimonial, in grado poi
entrambi di continuare in osmosi e al tempo stesso di vivere una
propria esistenza corredata di relativa mitologia.
Santa Claus è l’epifania della marca, ma
nella vita di tutti i giorni, è un commesso viaggiatore
paffuto. Il suo doppio si chiama Lou Prentice e come Clark Kent si
adopera a coprirne la vera natura. Per la cronaca, inizia la sua
carriera negli Stati Uniti, il 22 dicembre 1931, comparendo sulle
pagine della rivista Liberty, in veste di testimonial della Coca-Cola.
La Grande Crisi è appena dietro l’angolo, nel
decennio precedente ha iniziato la sua luminosa carriera Edward Louis
Bernays, nipote di Sigmund Freud e padre della complessa arte di
persuadere i clienti a comprare, ad acquistare qualsiasi cosa, se si
tiene conto che Bernays aveva tra i suoi oltre 350 clienti Thomas
Edison, Henry Ford, la General Electric, l’American Tobacco
Company, Enrico Caruso e per ognuno di loro sviluppò
campagne di successo. Il suo pensiero lo riassunse nel libro intitolato
emblematicamente The Engineering of Consent (1947),
ovvero l’ingegneria del consenso dove si
può leggere: “La conscia e intelligente
manipolazione delle abitudini e delle opinioni delle masse è
importante nelle società democratiche” (Bernays,
2000). Stava nascendo, insomma, la cultura della società dei
consumi, il secondo passo dopo quella della creazione della marche che
di questo universo sono gli attori principali (e non i consumatori come
sostiene l’ideologia del mercato). Una parte importante delle
grandi marche tuttora esistenti nacque, infatti, nella seconda
metà del XIX secolo, Barilla nel 1877, Levi’s nel
1850, Philips nel 1890, Fiat nel 1899, Ford nel 1896, Del Monte nel
1886, Bonduelle nel 1853, Heineken nel 1864, Louis Vuitton nel 1854,
giusto per citarne qualcuna. Se a queste si aggiungono quelle nate tra
il 1900 e il 1930 si ottiene un panorama vastissimo e quasi esaustivo
dell’universo dei brand. Tra le marche di razza,
c’è anche la Coca-Cola, nata nel 1886, che con
Santa Claus ha contratto un legame di sangue iniziato sì
formalmente sulle pagine di Liberty, ma che prende avvio ben prima,
quando un certo Harvey Washington Wiley, dottore impiegato al
Dipartimento di Chimica degli Stati Uniti cominciò a
guadagnarsi una sinistra fama grazie a una sua invenzione,
“la squadra del veleno”, come venne denominato il
team di ragazzi/cavie che testava additivi alimentari sospettati di
nuocere alla salute. Siamo nel 1902, l’anno dopo Wiley inizia
una campagna salutista (il compagno oscuro che accompagna lo sfrenato
consumismo americano sin dalle origini) che culminerà nel
1907 nel sequestro di alcuni barili di Coca-Cola. È
l’inizio di una lunga battaglia che sfocerà in un
processo che appassionerà l’opinione pubblica e
condurrà alla nascita di Santa Claus e che suona un
po’ diverso dal racconto istituzionale riportato sopra.
“Il
processo fu celebrato a Chattanooga e fu un buon prototipo di quegli
show sotto le coltri di procedimento giudiziario che appassioneranno
gli States negli anni a venire. Innanzitutto l’accusa: si
contestava alla bibita di essere adulterata con sostanze pericolose
(nello specifico la caffeina) e di avere una denominazione ingannevole
– nella sua composizione non c’era più
cocaina mentre la percentuale di noce di cola sfiorava
l’infinitesimale […] Si discusse, si
controdiscusse, si pubblicarono fiumi di inchiostro e alla fine il
giudice Edward Terry Sanford chiuse lo show: dopo aver espresso la sua
opinione ordinò praticamente alla giuria di riunirsi e di
tornare in aula con un verdetto favorevole alla Coca-cola. La bibita
non rischiò più di essere ritirata dal commercio
né fu costretta a rivedere la sua formula. […]
Gli avvocati difensori della Coca-cola non avevano contestato gli
effetti negativi della caffeina sui giovanissimi – avevano
però cercato di aggirare l’ostacolo dichiarando
che i più piccoli non erano consumatori abituali della
bibita, il che contrastava con le pubblicità del periodo che
ritraevano bambini intenti a bere Coca-Cola insieme ai genitori.
Così, dopo il 1911, fu proibito l’utilizzo di
materiale pubblicitario in cui ci fossero bambini di età
inferiore a dodici anni nell’atto di bere Coca-Cola.
Siamo
nel 1931: la Coca-Cola, che fino a qualche tempo prima veniva
soprattutto servita nei bar, poteva adesso essere acquistata in
confezioni da conservarsi nei frigoriferi domestici. Si
trattò di un cambiamento epocale. Per i fatturati della
Compagnia incominciò a essere decisivo l’esercito
di donne che ogni giorno si recavano a fare la spesa. Di conseguenza,
cresceva l’importanza dei persuasori neanche troppo occulti
che orientavano le massaie in gran parte dei loro acquisti: i loro
figli. Bisognava concepire una campagna pubblicitaria in grado di
rivolgersi ai bambini senza mai metterli al centro della scena. Il
compito fu affidato a Haddon Sundblom […] Il colpo di genio
di Sundblom consistette nel far convivere l’aura di
soprannaturalità che circondava Babbo Natale con
l’estetica dell’uomo comune. Basta elfi, creature
dei boschi, personaggi provenienti da immaginari e culture lontane: il
nuovo Babbo Natale avrebbe dovuto essere partorito dal cuore magico
dell’America del XX secolo. Sundblom utilizzò come
modello l’uomo della porta accanto, vale a dire il suo vicino
di casa Lou Patience (sic), un commesso viaggiatore
che l’American way of life aveva fornito di una corporatura
robusta, un volto allegro entro i limiti del sospetto, una fiducia nel
presente e una vitalità che debordava da tutti i pori della
sua persona. A Lou Patience Sundblom allungò la barba e
arroventò le guance, aumentò di qualche misura il
girovita, sostituì gli abiti borghesi con la celebre casacca
rossa e bianca, e così i cartelloni pubblicitari si
riempirono di figure al limite dell’iperrealismo:
fragorosamente comuni eppure in qualche modo provenienti da un altro
pianeta” (Lagioia, 2005). Quando l’alieno sbarca in
Europa, però, incontra una naturale resistenza, scontro di
culture, una profanazione della Notte Santa che scatena reazioni.
È il mondo cattolico a reagire, nella realtà e
nella finzione, il vasto fronte occidentale si distende lungo il Regno
Unito (vedi in questo numero: Il disincanto del mondo e una
letterina da Oxford a Father Christmas), la Francia, la
Germania. Qui si narra una strana storia.
La guerra è finita e la zia Milla può finalmente riprendere ad addobbare il suo albero di Natale, un’innocente mania bruscamente interrotta dalla tragedia del Terzo Reich. Il copione è quello classico, si mangiano dolciumi, si cantano classici come Stille Nacht, si scherza con i parenti, piccoli e adulti. Si brinda alla luce delle candele, mentre in religioso silenzio addobbi e statuine osservano con compiacimento lo svolgersi del rito. Tutto procede senza intoppi verso la sua logica conclusione: il Natale termina e viene il momento di disfare e conservare gli elementi della scenografia (festoni ecc.). A questo punto, però, la zia Milla urla, disperatamente, per un’intera settimana senza che medici e finanche scienziati ci capiscano qualcosa. La disperazione regna sovrana, ma improvvisamente lo zio Franz, marito della zia Milla, ha un’illuminazione: comprare un nuovo abete e riallestire tutto di nuovo, come se fosse il giorno della Vigilia, compreso il teatro delle canzoni, dei dolciumi, dei brindisi, ecc. Come d’incanto, l’urlo cessa. Da quel momento, inizia un Natale infinito che i parenti della zia Milla sono costretti a ripetere ogni giorno per evitare che riprenda ad urlare. In un crescendo via via più allucinante, finiranno anche per arruolare degli attori professionisti per farsi dare il cambio e utilizzare delle marionette per risparmiare ai bambini traumi pericolosi. Ecco, in sintesi, Tutti i giorni Natale, un racconto/parabola scritto da Henrich Böll nel 1951, in una Germania ancora in gran parte da ricostruire, lacerata nelle coscienze da un passato terrificante e inquietata da avvisaglie di un futuro non proprio rassicurante. Terminata la lettura del racconto, è impossibile non chiedersi: perché la zia Milla urla? Perché il consumo di cui la notte dei regali è momento altamente simbolico crea assuefazione. L’urlo della zia Milla non è quello di Edward Munch, non anticipa quello di Allen Ginsberg, ma è drammaticamente la scimmia sulla schiena della tossicodipendenza. Quando Böll scrive Tutti i giorni Natale la colonizzazione dell’immaginario in Europa muoveva i primi passi. Il tardo dopoguerra vedeva ancora consumi modesti, i prodotti si vendevano perlopiù sfusi, il negoziante di vicinato, il classico droghiere, manteneva il primato nel mondo del commercio. La società dei consumi accusava un ritardo di circa vent’anni rispetto agli Usa, dove sin dagli anni Trenta avevano iniziato a svilupparsi catene di supermercati, e in questa che è l’arena competitiva per eccellenza, le marche industriali si sfidavano, coltivando e affinando tecniche di comunicazione pubblicitaria e logiche di marketing capaci di fare la differenza.
Nello stesso anno, in Francia avvenne un episodio piuttosto
singolare, un altro segnale di resistenza all’ormai
inevitabile invasione culturale nel segno della marca.
“Il
24 dicembre, la cattedrale di Digione fu teatro di un evento che
sembrò una parodia dei roghi medioevali. Duecentocinquanta
bambini vennero fatti radunare davanti al cancello della chiesa, dove
un pupazzo di Babbo Natale fu prima impiccato, poi trascinato sul
sagrato e qui bruciato pubblicamente come eretico” (Lagioia,
2005). L’iniziativa vide la convergenza della chiesa
cattolica e di quella protestante contro il comune nemico pagano (Santa
Claus) che usurpava uno spazio sacro. Fatta giustizia venne diffuso un
comunicato nel quale si leggeva: “In rappresentanza di tutte
le famiglie cristiane della parrocchia 250 bambini hanno bruciato Babbo
Natale. Non si è trattato di un evento spettacolare ma di un
atto simbolico. Babbo Natale è stato sacrificato in
olocausto […] Per noi cristiani la festa del Natale
è e deve rimanere la ricorrenza che celebra la nascita del
Salvatore” (in Lévi-Strauss, 1995). Anche a
sinistra scattò l’allarme, sin dal 1949 quando i
comunisti francesi parlarono di Cola-Colonizzazione
dell’Europa. Segnali, timori, avvertimenti, il sentore
dell’approssimarsi di qualcosa che stava per impossessarsi
del mondo, o meglio, che era in procinto di dare alla luce un nuovo
mondo. Qualcosa che, dopo essersi fatto le ossa in casa, nel grande
mercato interno statunitense, poteva diffondersi globalmente, in tutti
i mercati del mondo. Per farlo era necessario non solo soddisfare
bisogni materiali, produrre benessere, svago, comfort, ma accompagnare
tutto questo con dei racconti, perché: “La marca
– se vuol distinguersi, divenire memorabile e cognita,
occupare un preciso spazio nell’affollato universo semiotico
del consumo – deve essere in grado di raccontare una storia.
La marca è un addensato di segni e significati. Possiede una
straordinaria attitudine a creare dei mondi. Mondi immaginari,
allegorici, astratti e tuttavia eventuali: universi fortemente
simbolici e, al tempo stesso, verosimili, reali, probabili
(Fabris/Minestroni, 2004). Il prototipo Santa Claus si è
dimostrato perfetto, una metafora eccellente della marca, laddove
questa “è un motore semiotico. Il suo combustibile
sono materiali come nomi, colori, suoni, concetti, oggetti, sogni,
desideri. Il suo risultato (quando il motore è stato montato
correttamente) è un universo ordinato, strutturato,
interpretabile e in certa misura attraente” (Semprini, 1993).
Una struttura certo non affidata al caso (come lo sono, per inciso, le
grandi campagne pubblicitarie). Non a caso, Santa Claus è il
dispositivo didattico mediante il quale si educa si
dall’infanzia al consumo (di beni di marca). La letterina a
Babbo Natale è il modello primigenio della shopping list,
come è in uso dire nel linguaggio settoriale del marketing,
la lista della spesa, insomma, quella degli acquisti programmati; ma,
rispetto a questa, la letterina incorpora anche l’altra
dinamica chiave del consumo: l’acquisto d’impulso.
Non si può ignorare, infatti, che la lista dei regali nasce
come frutto del massiccio bombardamento mediatico in base al quale il
libero giovane consumatore sceglie, per poi chiedere a Babbo Natale. Un
accerchiamento senza vie di fuga, che lavora sull’intero
fronte dell’immaginario e trova varchi anche nel
disadattamento giovanile (vedi in questo numero: Nichilisti a
bordo di una slitta più veloce della luce).
L’imprinting del consumo è nel segno di
Babbo Natale che ci guida negli anni a venire, consegnandoci quel mix
di credenza, disincanto, sogno, speranza, fiducia,
razionalità e suggestione, che fonda la marca, i suoi
discorsi che “sfuggono alla dialettica vero/falso, e
producono un universo che secerne ed instaura al suo interno la sua
propria verità” (Semprini, 1993).
Babbo Natale è il segno dominante nell’epoca
dell’ethos infantilistico che ha soppiantato quello
protestante di weberiana memoria nel nuovo ordine instaurato dal
capitalismo consumistico (Barber, 2010). Uno scenario dove impera la
puerilità e nel quale il facile, il semplice e il veloce
sono linee guida (come è tipico dell’infanzia)
contrapposte (e vincenti) alla cultura adulta fondata sui concetti
opposti: difficile, complesso, lento. Brand per eccellenza Babbo Natale
incarna le cinque virtù che caratterizzano i mercati secondo
Barber, il quale sostiene “che il mercato è
ubiquitario (è ovunque); che è onnipresente
(c’è «tutto il tempo» e aspira
a riempire tutto il tempo); che crea dipendenza (attua,
cioè, forme proprie di rinforzo); che è
autoreplicante (si diffonde in maniera virale) e onnilegittimo (nel
senso che mette in atto meccanismi attivi di autorazionalizzazione e
autogiustificazione che erodono le basi morali per opporvi
resistenza)” (Barber, 2010). Ebbene il nostro rubicondo eroe
è ovunque nella notte in cui entra in azione, è
presente tutto l’anno nella mente dei piccoli (e dei loro
genitori/parenti/amici), crea dipendenza (qualcuno provi a ignorarlo
con tutto quello che comporta, la zia Milla riprenderebbe a urlare), ha
replicato il Santa Claus a stelle e strisce in varie versioni glocal
e si è imposto in quanto marca come “un mondo
vitale, un Lebenswelt denso di significati o e di forza attrattiva, che
deposita consistenti tracce mnestiche nelle sue utenze e che genera un
manto di polvere di stelle attorno a un prodotto o servizio”
(Fabris/Minestroni). Marca di tutte le marche, Santa Claus ha ben
più di una manciata di jingle composti per gli spot della
Coca-Cola: il repertorio musicale dedicatogli è consistente,
e poiché l’iconografia natalizia mai lo esclude,
ha fatto suo, in qualche modo, anche le più generiche
canzoni natalizie. Un catalogo musicale interpretato da un numero
sterminato di musicisti, di ogni genere (vedi in questo numero: Santa
Dj Presents… A Collection of Antiques and Curios).
Santa
Claus incarna la logica del mercato, (e)segue le dinamiche di marca,
funziona come la quintessenza della pubblicità,
“il rapporto miracoloso, smentito dalla realtà,
viene interiorizzato in una credenza che ne è il
prolungamento ideale. “Ma la leggenda non è
artificiale: si fonda sull’interesse reciproco che hanno le
due parti (bambini e adulti, ndr) a mantenerla
viva. Babbo Natale in tutto questo è irrilevante, e il
bambino ci crede proprio perchè è senza
importanza” (Baudrillard, 1987). Babbo Natale è
l’essenza del consumo perché agisce nel tempo
libero, il tempo dello shopping, il sogno e l’utopia del
mercato, un full time per gli acquisti, un pianeta abitato dai cloni di
Santa Claus, adulti infantili, bambini che non crescono, uno scambio
simbolico non stop, la virtualità dei mercati
all’ennesima potenza. Un movimento tendenziale che lascia, ad
oggi, distinti i consumatori da un lato e Babbo Natale
dall’altro. Come si distinguono? I primi quando bevono
Coca-Cola fanno un ruttino, Babbo Natale no.
È
la magia del Natale.