Perché l’ambiente,
quello che così abbiamo definito per non dire Terra,
può risultare per l’essere umano un labirinto?
Semplicemente perché, in certe situazioni, è
estremamente difficile rintracciare una via d’uscita a
determinate problematiche. Questo soprattutto in ragione di
un’evidenza, sia concesso. Se le pareti del labirinto
cominciassero a crollare o, per lo meno, a vacillare? Certamente il
topolino di Thorndike avrebbe bisogno non solo di un lauto pasto per
uscirne, forse avrebbe bisogno di un aiuto sostanziale da parte della
mano attenta del suo aguzzino. Allora si postuli ancora uno
stadio successivo per questo ragionamento, o meglio si ponga ancora
un’altra domanda, a patto di non lasciarsi sopraffare dal
tedio di tutto questo giro di punti interrogativi, va da sé.
La domanda successiva è questa: se anche
l’ambiente in cui l’uomo cresce e pasce cominciasse
a vacillare, a mostrare delle crepe minacciose di
incurabilità? Questo è il punto decisivo, e lo
descriviamo con un’altra domanda: come si comporterebbe
l’essere umano? Sicuramente, o meglio probabilmente, dovrebbe
trovare una seria alternativa alla fiducia nella mano del suo aguzzino,
come avrebbe fatto il topo. O magari no, forse dovrebbe fare la stessa
cosa del topo, comportarsi come l’animaluccio, curandosi
però di non tralasciare un’evidenza per nulla
secondaria. L’aguzzino dell’uomo è
l’uomo stesso. Quell’uomo che ha sperimentato
continuamente sulla propria pelle, accorgendosi solo in ritardo del
fatto che, forse, la sperimentazione non è riproducibile
all’infinito, soprattutto in regime di scarsità. E
dato che la scarsità è una della caratteristiche
principali dell’ambiente in cui l’uomo vive, questa
diventa giocoforza una delle variabili sulle quali va maggiormente
puntato il fuoco della questione qui dibattuta. Certo questa
storia non è così semplice e lineare come
sembrerebbe, tuttavia se ne rintraccia una discreta corrispondenza con
le cose che succedono e questa, purtroppo, è la scoperta
più tragica che mostra la sua evidenza. Sono innumerevoli i
motivi per cui avviene l’esiziale apparizione di un
gigantesco labirinto, il mondo, che mostra crepe e minaccia di
crollare, ma non è certo il caso di elencarli tutti. Non
è, ovviamente, il caso di riportare la memoria alla
combustione grigia, solforosa e continua della rivoluzione industriale;
non è il caso di fare menzione ai gas di scarico delle
automobili e delle fabbriche; allo stesso modo sarebbe tedioso
ricordare le bombolette spray che hanno cocciutamente assottigliato,
fino a bucarlo, lo strato di ozono (fortunatamente gli anni Ottanta si
sono conclusi da un pezzo, con buona pace di permanenti bionde ed
acconciature voluminose). E nemmeno c’è motivo di
dare un tocco di colore alla nostra questione immaginando che anche la
pastorizia, uno dei più antichi mestieri dell’uomo
(non il più antico, è ovvio), incombe con i
problemi gastrici delle numerosissime mandrie di vacche
sull’equilibrio gassoso del nostro pianeta. Lo spessore di
questo ragionamento, per buona sorte, vuole essere solo leggermente
più elevato, ma è necessario andare un
po’ più indietro nel tempo rispetto allo stato
attuale delle cose, rispetto agli anni Ottanta, ed anche rispetto agli
esperimenti di Ivan Petrovič Pavlov e di Edward Lee Thorndike. Bisogna
arrivare fino al Milleseicento e parlare per un attimo di
René Decartes, Cartesio o Renatus Cartesius per usare un
forbito latinismo. Bisogna andare a ritroso di così tanti
secoli per rintracciare un fattore forse liminare rispetto a quello che
si sta trattando, o forse non troppo marginale, quantomeno accostabile.
Si faccia questo tentativo.
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