È
il maggio del 2009 e il vecchio cantiere sulla spiaggia è
stato rimosso ormai da anni. Tra le immagini un po’ sfuocate
ma insistenti della memoria, testimonianze di un tempo ancora vicino e
già così lontano, prende compiuta forma la
consistenza materiale e sensibile delle attuali oasi del
loisir di Manama, in cui la vistosa messa in scena, come
negli altri non luoghi del pianeta, non si nutre più della
trasformazione immaginaria del reale, ma è
quest’ultimo, magari attraverso raggi galattici o schermi
giganti, che si sforza di riprodurre la finzione (cfr. ivi,
p. 113), di copiarla, spettacolarizzando lo spettacolo,
diffondendolo nelle sue plurali rappresentazioni, e affermando, in
maniera incontrastata, l’insolenza dello sfarzo. Nei regni
espressivi del superfluo, non contaminato dalle
immagini di tradizionale povertà e “dispositivo
produttivo in cui le regole classiche […]
dell’economia e della politica vengono trasgredite e
ribaltate nell’uso dello spreco e di
un’autorità piena di simboli”
(Abruzzese, p. 55), convergono le strategie del lusso, i
rituali che danno corpo al costume di una civiltà e ai suoi
mutamenti, le celebrazioni della ricchezza e della sua edonistica
esibizione, azioni reali e simboliche che regolamentano ogni assetto
sociale. Lo spazio dell’arditezza sapiente
delle nuove costruzioni del Bahrein, e in generale dei paesi arabi
filoccidentali, ispirate alla geometria della trasparenza e
all’ideologia dello sguardo, oltrepassa il limite manifesto e
si virtualizza, diventando l’orizzonte di tutti i visitatori
potenziali, interpreti dello spettacolo del consumo, e trasformandosi
in un’icona del tempo nuovo. In
particolare l’attenzione è attirata
irresistibilmente da un complesso architettonico, che visto da lontano
sembra fluttuare, il Bahrein World Trade Center, opera del progettista
Shaun Killa dello Studio Atkins Architects, edificio avveniristico,
iniziato nel 2005 e dotato di un evoluto sistema per produrre energia
rinnovabile. Significativa testimonianza di una tecnologia ecologica
destinata a diventare un elemento fondamentale nella progettazione
sostenibile del futuro, questa costruzione costituisce la risposta a
una serie di questioni riguardanti la fondamentale commistione di
tecnica ed estetica, l’essenziale amalgama di virtuosismo e
funzionalità. Due torri gemelle, di vetro e acciaio, a forma
di vela, che si sviluppano su cinquanta piani per duecentoquaranta
metri di altezza, accolgono i visitatori di negozi, ristoranti, uffici,
autoproducendo buona parte dell’energia consumata al loro
interno, grazie a tre turbine eoliche sostenute orizzontalmente da tre
passerelle e mosse dal potente vento proveniente dal mare. La materia
della scintillante realizzazione, dal colore della spuma marina, e lo
slancio delle sue forme la rendono adattabile alla
luminosità del cielo e alle sfumature
dell’atmosfera, duttilmente riflesse e moltiplicate da
materiali capaci di suggerire agli abili autori la creazione di
movimenti e l’evocazione di tensioni che forse tentano di
recuperare una perduta dimensione simbolica. Nelle
nuove aree meticciate intorno a cui si organizza l’esperienza
cittadina, intrise di realtà locali e influenze imperanti
dei planetari processi omologanti, la geometria a forma di vela del
complesso, oltre a orientare l’impeto del vento, trattenendo
il passato nel futuro, sembra disegnare una linea ideale tra i relitti
delle barche, che la marea lascia ancora emergere sul lungomare di
Manama, e le splendenti punte dell’avanguardia
architettonica, che sfuggono a chi le ha realizzate così
come un qualsiasi testo, raggiunta la compiutezza, si distacca dal
senso originario da cui ha preso vita, per rivivere infinite volte nel
tempo del consumo, e così come la tecnica, ben lontana
dall’essere un mero prodotto della macchinazione umana,
rientra a pieno titolo, con la sua nascita, con il suo sviluppo e con
il suo superamento, nella storia dell’essere.
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