Del Cappellaio Matto e di altri impercettibili riflessi della mente | di Luca Caserta | |
La Charisma Records lo usava per invitarti a far colazione, a prender un tè e un pazzo intrattenimento. Era lì con gli occhi chiusi, posa da raffinato dicitore, una mano al petto, l’altra sinuosa o forse vezzosa verso un pubblico inventato, a cantare la canzone per il gran concerto in onore della Regina di Cuori. Il cilindro più grande della testa con un cartiglio che recita: “In This Style 10/6”. Fissando il vinile mentre girava, sembrava che il Matto parlasse: “Perché un corvo assomiglia ad una scrivania?”. The Famous Charisma Label era la ghirlanda che seguiva la forma circolare del disco, di un delicato rosa pallido in contrasto con la resina vinilica di un nero profondo. Impossibile non innamorarsene, più della musica, più di quel misterioso dipinto di Betty Swanwick in copertina che ricorda un pittore americano del Missouri nato nel 1889, Thomas Hart Benton, però filtrato dallo sguardo naif della Regina Vittoria. Si potrebbe riscrivere la storia della cultura inglese partendo da qui, come se l’alchemica magia del Regno di Astrea rinverdisse soltanto nella prima strofa declamata dal Cappellaio: “Can you tell me where my country lies”, canta Peter Gabriel, ai tempi ancora voce dei Genesis. Ma è sempre tea time, e non c’è il tempo di lavare le tazze fra un tè e l’altro. A volte le parole sembrano confuse, come il disordine che regna nelle scatole dove i bambini ripongono i giochi. Resterebbero, i giochi, dispersi ovunque, anche negli angoli più scuri delle stanze per non disperdere il metodo alla fantasia. Ma ai bambini i capelli bisogna pettinarli. Bisogna riporre i giochi e sedersi a tavola per cena. A tavola si sta composti. La barca del reverendo Dogson si dirige verso le terre d’America, non per scelta, segue la corrente, attraversa i grandi fiumi, scandaglia l’acqua limacciosa. Lungo il corso, salta fuori American Gothic, un dipinto di Grant Wood, pittore dell’Iowa. Un’opera del 1931, lo stesso anno del Sanctuary di William Faulkner. Al Museum Of Modern Art di New York sbarcavano, chiuse nelle casse, dopo l’ozio del viaggio d’oltremare, le opere di Toulose Lautrec e Odilon Redon per essere esposte. Perché questo ritratto che sa di Fiandre, di perfezione molecolare, come se Wood avesse messo gli abiti puritani ai personaggi dei ritratti veneziani di Giovanni Bellini, ci invita al giudizio con l’aria da paesaggio nordico illuminato dai filtri delle campagne americane, dove il vento smuove il grano a onde? Wood, si sa, prende in mano i bulini in un laboratorio di oreficeria col monocolo ad osservare i punti minimi delle saldature, le minuzie dei granelli d’oro che si librano confusi nell’ambiente reso aspro dagli acidi. Poi bagna le mani a Monaco nel 1928 per progettare una grande vetrata e lì conosce le opere degli antichi maestri del quattrocento fiammingo facendo i compiti sulle pale di Rogier van der Weyden, Van Eych e delll’amato Maestro di Brugge, Hans Memlinc. Giorgio de Chirico durante il suo viaggio americano appunterà i ricordi stilando dell’America la sua Metafisica. Da Omnibus, datato 8 ottobre 1938, leggiamo, ripensando agli sposi di Wood: “Essi vivono di qua e di là del tempo, ma non nel tempo, ed il loro sguardo ed il loro sorriso e tutta l’espressione del loro volto di fantasmi è l’espressione di coloro che sanno che non c’è nulla da sapere”. Saranno persi tra le immagini riflesse di uno specchio. Forse vivono la loro storia al contrario. Ma diamo alla luna il tempo di far salire la marea, riprendendo tra le mani un piccolo libro edito da Archinto nel 1989. Riporta un titolo che conserva poche speranze, già nel suo voler salvare in lista qualcosa. | ||
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