LO SGUARDO Lo spettatore: colui
che opera colui che guarda. Si muove nel quotidiano come esiliato, ma
partecipe a distanza – non può comunque restarne
al di fuori – delle concentricità (dove guardare e
udire non sono manifestazioni non univoche; dove permane una globale,
riferita al corpo intero, ricezione tattile). Permanendo nel terreno
per definizione, umano, si muove con un movimento sul posto, acquista
coscienza – il cui germe era già latente
– della possibilità parziale, ma anche
dell’impossibilità. Esiliato, poiché di
nascita spettatore, resta in attesa, e nello spazio d’attesa
può essere incluso il suo lavorio incessante dedito a dare
forma e a scalfire forme, del buio come consolazione e disperazione, ma
disperazione che comprende in sé la purezza della coscienza
della impossibilità ma anche dei movimenti, soprattutto
ricettivi, potenziali e partecipati. Certo si pone anche la verifica
dell’oscuramento delle false certezze. E
nell’esilio, con il proprio tempo individuale frammentario,
si verifica e si attua quel moto necessariamente e comunque compreso e
separato dal trascorrere del tempo cosmico, che passa e scorre, ma altrove,
dove non ci sono pozzi e c’è solo la Luna, che non
si rende più visibile fuorché al nostro occhio
interiore.
“la
luna nel pozzo è sparita”
Corpo intero, sì. Ma la frammentazione esistentiva
non è solo temporale, è anche corporale. Con le
mani che informano sulla probabile età dei viventi e i piedi
che suggeriscono, pur senza mostrarle, azioni e condizioni: dal riposo
alla fuga, dal dolore al sollievo. E il corpo frammentato con i suoi
segmenti evoca anche l’idea di una certa
meccanicità riconducibile a un vivente mechanicus
ridotto alla somma dei suoi gesti; fisicità assoluta, che
non vuole però significare morte dell’anima, o
separazione corpo-anima. Non dimentichiamo che sono proprio i sensi a
permettere la diversa condizione percettiva: pur riconducendo sempre a
se stessi, i sensi consentono immagini altre, dove la vista, e non
solo, non si separa dallo spirito né tanto meno separa
quest’ultimo dalla fluidità dell’immagine,
fluidità che dall’immagine e con
l’immagine si spartisce. Parliamo sempre di sensi. E
infatti, la persona, il cui corpo è strumento
indispensabile di percezione, unico e irripetibile, il cui sangue
è anche linea genetica ereditaria, cerca in qualche modo di
confermare una sua collocazione storico-biografica; epistolare, quasi
diaristica. Appunti e confidenze di date, nomi (con particolare
riferimento a ipotetici o reali famigliari), eventi, memorie. Con una
funzione, se vogliamo, anche molto individuale, di un segno che simula
un senso collettivo con il pretesto di un linguaggio riconoscibile.
Diario che ammette anche la realtà
dell’invenzione, di eventi plausibili affinché lo
sguardo, elencandoli, si ancori in qualche modo a una sorta di
verificabilità storica e autobiografica. E il disordine
strutturale – là dove è concesso o si
manifesta – di questi appunti, diviene, nel suo farsi,
metafora della struttura del reale. La frammentazione appunto. Giorni,
luoghi, destinatari, previsioni sul mondo e su se stessi. Anche questa
elencazione è attuata con una qualche
meccanicità, la cui pratica non esclude comunque nessuno dei
due livelli, seppur trattati sia contemporaneamente sia alternatamente:
effettuale, fantastico. Entro cui il mediatore compie il gesto, quasi
preordinato seppur intriso del proprio spirito, del proprio occhio.
Meccanicità che si configura anche come
dinamicità: in uno spazio – e
l’aspetto spaziale evoca il concetto di un ultraspazio come
componente essenziale – dove l’elemento dinamico e
la richiesta effettiva di movimento nel segnare una
superficie così lunga e vasta, un muro di facciata
perimetrale per una lunghezza di 180 metri e un’altezza media
di 120 centimetri, implicano una dinamicità sia del disegno
sia di chi lo incide.
“Nannettaicus
meccanicus” “santo
con cellula fotoelettrica”
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