Essi vivono, noi dormiamo: il cinema politico di John Carpenter | di Nicola Bassano | |
Un linguaggio semplice, elegante, in poche parole “naturale”. Tralasciando, per ragioni di spazio Dark Star (ampliamento di un cortometraggio studentesco uscito nel 1974), già dal magnifico Distretto 13: le brigate della morte (Assault on Precint 13 uscito nel 1976) appare subito evidente la volontà del regista di connotare il suo lavoro di un forte messaggio politico. Carpenter mette in scena un gruppo di outsider (un criminale, una donna, un poliziotto nero), costretti a difendersi dall’attacco di una gang, all’interno di una stazione di polizia. Questa situazione claustrofobica e piena di suspense diventa l’occasione ideale per riflettere sulle dinamiche dei conflitti sociali nelle società capitalistiche. L’identità degli assalitori è tenuta segreta grazie all’uso sapiente del fuori campo, prolungando la tensione per tutta la durata della pellicola. Il regista domina lo spazio alternando con maestria incursioni, fughe, avanzamenti e scontri violenti. Insomma, scorrendo la sua filmografia è molto facile isolare tematiche ricorrenti e riflessioni illuminanti sulla società contemporanea e in particolare sulle derive pericolose del consumismo e del totalitarismo. Un film su tutti, il capolavoro del 1988 Essi Vivono (They Live), seconda pellicola realizzata per la Alive dopo il magnifico e terrificante Il signore del male (Prince of Darkness del 1987). Il protagonista (Roddy Piper) è un operaio disoccupato che dopo aver trovato un posto in un cantiere edile scopre l’esistenza di un’organizzazione guidata da alieni capitalisti e umani collaborazionisti che attraverso l’uso di messaggi subliminali tiene sottomessa l’intera popolazione con la promessa di una vita fatta di agi e soldi. La scoperta del complotto avviene grazie ad un paio di occhiali, trovati in una chiesa, che indossati permettono di vedere la vera natura degli invasori. Essi vivono è una pellicola rabbiosa che utilizza la fantascienza come pretesto per analizzare criticamente la società americana, vittima in quel periodo storico dell’amministrazione Reagan. La natura low budget del film rende ancora più interessante l’operazione, in quanto stilisticamente rifugge dalla falsa patina di bellezza che stava ricoprendo ogni ambito culturale e artistico del paese, per virare verso il potere destabilizzante del messaggio. Ciò che maggiormente colpisce è la lucidità e il furore ideologico con cui il regista mette in piedi la struttura narrativa del film, apparentemente rozza e ingenua, ma in realtà dotata di un’energia prorompente. La figura di Piper – nella realtà lottatore professionista – si caratterizza, sin dalla sua entrata in scena, per una straordinaria carica eversiva. La sua lenta presa di coscienza raggiunge l’apice nella lunghissima sequenza della rissa con Keith David, citazione della scazzottata fordiana di Un uomo tranquillo (1952). Sembra quasi che Carpenter utilizzi la violenza prolungata della scena per risvegliare le coscienze silenziose della gente. Spogliando quest’idea dagli aspetti ideologici vetero marxisti (lontanissimi dalla volontà e dalla storia del regista), resta un forte impegno politico, volto a scardinare i meccanismi marci della società americana. | ||
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