È ovvio dunque che il pasto, e
la sua estetica che nel film si sintetizza invero nella grassa
virulenza dell’ingozzarsi, coniuga il semplice bisogno
organico con un significato sociale che unisce così
l’individualismo dell’alimentarsi con forme
simboliche e stilistiche condivise (Simmel, 1910). Nella pellicola, il
presunto contegno dei ceti superiori a tavola (Elias, 1969) a volte
potrebbe anche far capolino nelle faglie di alcuni modi un
po’ artificiosi dei personaggi, ma la cifra del film sembra
invece risiedere nella maniera vorace e compulsiva con cui i
protagonisti “divorano” la materia organica della
donna e del cibo. Un carnaio totale e assoluto, che porta
all’inevitabile redde rationem, al
brutale auto-annientamento di una classe sociale che si rifugia nella
falsa eleganza della forma, ma che è
piuttosto assetata di dominio, tanto da essere travolta dal proprio
stesso impeto, in un contrappasso sudicio e spropositato rappresentato
dall’indigestione virulenta, senza limiti come lo
è l’ansia di potere. Il potere pare essere,
insomma, come l’eccesso di cibo: genera pericolose
indigestioni e, nel suo punto apicale, al suo massimo stadio, diviene
arma di autodistruzione. I quattro protagonisti vivono una
vera e propria liturgia del pasto, che ha la morte e il sesso come
elementi consustanziali. Essi si ritirano in uno spazio sacro,
separato, interdetto (Durkheim, 1912), per dar corpo ad una vera e
propria ritualità. Forse per condividere comunque una forma
di morte partecipata, che renda più sfumata la condizione
solitaria di ogni morente (Elias, 1982), certo per cercare una esaltata
“con-fusione” che, in un crescendo impetuoso,
porterà alla loro stessa fine in un sentimento di
complicità simbolica. Ma questa sacralità
rituale, anziché preservare il puro come spesso capita a
buona parte dei riti (Cazeneuve, 1971), sembra fare
dell’impurità la sua sostanza consacrata.
Perché la villa, tempio solenne nel suo manierismo
monumentale, diviene poco alla volta ricettacolo di nauseabondo
lerciume, condito dal fetore dei cadaveri, della carne rimasta, della
merda che viene sprigionata dall’esplosione di un gabinetto e
che invade le stanze. L’aspetto falsamente lindo dei ceti
alti pare mostrare così la sua essenza più
veritiera. E, uno per volta, i quattro amici saranno uccisi
dall’indigestione, assistiti dalla sola Andréa,
l’unica delle donne rimasta, forse per un innato istinto di
comprensione materna che il suo corpo generoso e carnoso ben esplicita
(…è talmente materna da conquistare subito
l’amore di Philippe, che la sposa idealmente pur
condividendola diligentemente con gli altri). Ella non esita a
soddisfare i desideri di ognuno, a dispensare attenzioni e tolleranza,
a condividere fino al mortifero epilogo erotismo e bivacchi. |