Philip
José Farmer, scribacchino ingegnoso di pulp (science) fiction |
di Gennaro Fucile | |
Nel Mondo del fiume si può tornare a morire ma si è immediatamente resuscitati in un altro punto del pianeta. La corrente vitale che attraversa tutte le principali storie farmeriane è, infatti, l’idea di immortalità, un’autentica ossessione, e scrivere cicli di lunga durata dona all’idea stessa di lunga durata una consistenza materica, quantomeno cartacea. Scrivere, o più precisamente riscrivere. Già, ci sono scrittori di fantascienza che fanno coppia fissa con un concetto: Isaac Asimov è tutt’uno con le sue leggi della robotica, William Gibson con il virtuale, Philip K. Dick con i simulacri, James Ballard con l’inner space, Samuel Delany con la linguistica. Philip Jose Farmer è la riscrittura, dunque la fantascienza stessa e, a ben vedere, la letteratura tutta. Può essere eccessivo, è vero, ma in che altro modo ragionare intorno ad uno scrittore spesso privo del senso delle proporzioni, che ha sempre voluto strafare, esagerare, facendosi beffe di tutto e di tutti, dei generi, delle regole, delle norme, dei tabù. Un autore smisurato, che ha rapito tutti gli eroi di cui è stato fan e accanito lettore per arruolarli nelle sue storie, o meglio riprendendo/riscrivendo quelle storie innumerevoli altre volte. Quella di Farmer è una visione pantagruelica della letteratura: da un lato ingurgita storie in porzioni gigantesche e dall’altro ne cucina di altrettanto colossali, variando le ricette originali, aggiungendo qui un po’ d’avventura in più, lì qualche spruzzatina di psicoanalisi, là qualche farcitura dotta, o aromi sessuali alieni, piuttosto che condimenti esotici. Farmer è un riscrittore. “Voglio riscrivere tutte quelle vecchie storie che afarmero tanto nella mia fanciullezza e anche in gioventù”, dichiarò in un’intervista rilasciata a Paul Walker. In questo modo, Farmer ha costruito la sua personale carta dell’impero, con la stessa consapevolezza borgesiana che tutto ormai è stato detto e che non resta altro da fare che trovare godibili combinazioni nella Biblioteca di Babele. L’operare di Farmer è un agire divino, costruisce mondi dal nulla e li disfa con altrettanta disinvoltura, è un fabbricante d’universi come poi finirà per intitolare un altro suo celebre ciclo. Giusto un accenno, per ricapitolarlo. Il ciclo dei Fabbricanti d’universi è un wargame giocato dai Signori degli universi, esseri quasi immortali. Nei loro universi, tramite speciali trattamenti, sono fermi all’età di 25 anni, possono però morire di morte violenta. La loro età varia dai 10.000 al mezzo milione di anni. Dopo così tanto tempo l’unico piacere che dà la vita è quello di rischiarla combattendo altri Signori per sottrarne i domini. I loro cosmi privati, costruiti in base ai gusti personali di ciascuno, sono una sorta di dimensioni parallele artificiali, che comunicano in determinati punti tra loro, attraverso porte che si “schiudono” solo per mezzo di particolari chiavi: i corni. Perdere i corni è un guaio, si è votati all’isolamento, non è possibile, infatti, costruirne. La loro nozione del tempo è andata perduta col passare del tempo insieme a quasi tutta la scienza dei Signori. Gli universi sono artificiali, la stessa Terra è artificiale, un universo creato da un Signore. Nel quinto romanzo della serie, Il mondo di Lavalite, la metafora del colpo di scena, dell’aleatorietà del codice della scrittura, almeno di quella fantascientifica e della stessa opera farmeriana, prende definitivamente forma. “Non siamo creatori più di quanto lo siano i narratori o i pittori. Anche loro fanno mondi, ma non riescono mai a fare di più di ciò che sanno. Possono scrivere o dipingere mondi basati su elementi noti, messi insieme in un ordine diverso, in un modo che li fa apparire come creatori”. (Il mondo di Lavalite). L’universo tascabile di Lavalite ha un aspetto mutevole, strutture geologiche che cambiano incessantemente. Le montagne si innalzano dalle pianure, o sprofondano creando burroni nell’arco di una nottata. Nascono oceani estesissimi in pochi giorni e ricoprono depressioni sorte dal nulla in poche ore. A giocare con i Signori c’è anche Farmer che qui mette in scena la più genuina proiezione di come avrebbe voluto essere, Kickaha, ovvero Paul Janus Finnegan (ancora le iniziali aiutano), superuomo dedito solo all’attività ludica per eccellenza, il gioco per il gioco dell’avventura spericolata. Il nume dietro Fabbricanti d’universi è l’amatissimo Edgar Rice Burroughs, creatore del primo immortale della fantascienza, John Carter eroe di un ciclo marziano, e autore di Tarzan, il personaggio prediletto da Farmer. Gli dedicherà diversi romanzi tra cui Lord Tyger (con il memorabile incipit: “Mia madre è una scimmia, mio padre è dio”) e L'ultimo dono del tempo, forse il suo romanzo più scriteriatamente smisurato, viaggio indietro di 14.000 anni nel tempo ad opera di un Tarzan, alias John Gribarsdum, demiurgo della storia umana. | ||
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