C’ è la
Marilyn classica, quella caleidoscopica e fatta di decine di colori
come ce la riporta la famosissima rappresentazione di Andy Warhol. E
quella è la Marilyn in cui si rispecchia un’epoca
e, soprattutto, un popolo. Giochi pirotecnici nelle frastagliate
fessure di una nazione grandissima. I colori di Marilyn sono quelli di
una figura che si può vedere da una parte o
dall’altra, e per questo non se ne modifica il risultato.
È morbida quella Marilyn, i colori si impongono sulla sua
pelle come un correttore che ne smussa gli angoli, che ne fossilizza
l’espressione in una visione caleidoscopica e,
apparentemente, nient’altro. Certo, fino ad oggi il mondo ha sempre visto Marilyn con gli
occhi di Andy Warhol, l’ha scomposta in piccole cellette
colorate, riprodotte fedelmente eppure differenti, decine di immagini
dello stesso volto, la stessa espressione, lo stesso, meraviglioso neo.
Ecco Marilyn dunque, di tanti colori quanti sono stati i suoi amori.
Porpora come la passione, la gelosia ed il tormento continuo con il
battitore Joe Di Maggio; giallo-olivastra come il silenzioso sibilo con
cui cantava “happy birthday, mister president” al
più memorabile presidente Usa di tutti i tempi; rosa
sbiadito, quasi grigia, come quel sentimento di provincia che
accompagnò il suo mediocre matrimonio con
l’inadeguato Arthur Miller; e mascherata di un pesante verde
che nasconde, come quella notte in albergo in cui fu vista, o forse
solamente immaginata, al fianco di Elvis Presley.
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